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di Luca Billi, 6 dicembre 2018
Scriviamo sempre perché qualcuno ci legga. Se qualcuno vi dice che lo fa solo per sé, senza curarsi dei potenziali lettori, vi sta mentendo o, peggio, sta mentendo a se stesso. Certamente nell’antica Grecia non c’era questa ipocrisia romantica: chi scriveva voleva che gli altri conoscessero quello che aveva scritto. E soffriva quando questo non accadeva o quando non gli veniva riconosciuto il valore che pensava di meritare. E’ quello che è successo a Euripide: ebbe scarso successo mentre era vivo. Magari era apprezzato negli ambienti letterari, ma il grande pubblico non lo amava e per questo ottenne pochi riconoscimenti. Per questa ragione se ne andò, ormai vecchio, da Atene, pur continuando ostinatamente a scrivere, sperando di ottenere finalmente la fama. Che arrivò con l’ultima opera, che neppure terminò e che fu allestita da un suo nipote. Come successe a Puccini con Turandot, anche per l’Ifigenia in Aulide ci fu qualcuno che si incaricò di completare l’opera, aggiungendo un finale, per renderla rappresentabile, ma in entrambi i casi possiamo benissimo fare a meno di quell’aggiunta posticcia.
Le navi che da tutta la Grecia si sono radunate nel porto tebano di Aulide per salpare verso Troia sono bloccate da giorni: non tira un alito di vento. L’indovino Calcante spiega che Artemide impedisce alla flotta di partire, irata con Agamennone: l’unico modo per placare la dea è il sacrificio della primogenita del re, Ifigenia.
Agamennone vorrebbe resistere, spera che prima o poi il vento ricomincerà a soffiare, ma le truppe rumoreggiano: loro vogliono partire, Ifigenia deve essere sacrificata. Così, su consiglio di Odisseo, Agamennone scrive alla moglie Clitennestra, dicendo che Achille non partirà se prima non si sono celebrate le sue nozze con Ifigenia. La regina non sta nella pelle: la propria figlia sta per sposare il più valoroso degli eroi greci, e così le due donne raggiungono il prima possibile il campo greco. Qui comincia una specie di commedia degli equivoci, perché Ifigenia non capisce il motivo della tristezza del padre alla vigilia delle nozze e Clitennestra non comprende l’esitazione del futuro genero, ma Achille non sta esitando, semplicemente non sa nulla del matrimonio. Caduto l’inganno delle nozze, è presto svelato il vero motivo per cui Ifigenia è stata convocata al campo dei greci.
E qui Euripide mette in scena tutta la meschineria dei “grandi” eroi, dei padri fondatori della civiltà ellenica. Agamennone esita di fronte alla rabbia della moglie e alle lacrime della figlia, ma alla fine accetta il sacrificio, perché è l’unico modo per garantire il proprio potere. Euripide ci fa capire che non è in gioco la spedizione: il sacrificio di Ifigenia non serve a far partire le navi, ma a farle partire sotto il comando di Agamennone. I capi greci vogliono partire, hanno già individuato un possibile sostituto, Palamede, che tra l’altro è più popolare presso le truppe dell’altezzoso signore di Micene. Il sacrificio di Ifigenia è inutile, basterebbe un passo indietro di Agamennone, la sua rinuncia a guidare la spedizione. Odisseo è il solito bugiardo, il cui unico obiettivo è ritagliarsi una fetta di potere il più grande possibile. Anche Achille non fa una gran figura in questa tragedia: quando capisce l’inganno, non si adira con Agamennone perché questi vuole uccidere la propria figlia, ma solo perché ha sfruttato il suo nome, perché gli ha fatto fare una brutta figura. E anche quando si erge a difensore della giovane, lo fa non per vera convinzione, ma per alimentare la propria leggenda, tanto sa che il destino di Ifigenia è segnato e che anche lui potrà finalmente andare a Troia a prendere quello che gli spetta.
Di fronte a tutte queste meschinità, a questi uomini schiavi della loro ambizione, della loro avidità, della loro vanità, del loro egoismo, Ifigenia fa un gesto di libertà: è lei che decide di sacrificarsi, risolvendo una situazione di stallo che tutti quei “grandi” uomini non riescono a sbloccare. I critici hanno spesso trovato inverosimile questa decisione così matura – e improvvisa – di Ifigenia, che era poco più di una bambina, un’adolescente, all’inizio entusiasta per le nozze e poi atterrita dalla morte. Ma, come ho detto, Euripide non concorre per il “premio della critica”, vuole dire una cosa al suo pubblico e quel pubblico sappiamo che l’ha capita.
Come la possiamo capire ancora noi. Se solo volessimo. Ma naturalmente, al di là di qualche lacrima di circostanza, di qualche frase ipocrita, noi stiamo dalla parte di Agamennone, di Odisseo, di Achille, perché sono loro che fanno la storia – e che scrivono le storie – non certo da quella di Ifigenia.
La tragedia scritta da Euripide si chiude con la giovane donna che lascia la scena per recarsi sull’altare dove sarà sacrificata, pronunciando questi versi:
Ahimè, o fulgida luce, o raggio di Zeus,
un’altra vita avrò, un’altra sorte.
O cara luce, addio!
Queste sono le ultime parole scritte da Euripide. Chi si è assunto l’onere di continuare l’Ifigenia in Aulide ha raccontato la versione più rassicurante del mito: nel momento in cui il pugnale sta per violare la ragazza, appare Artemide che mette sull’altare una cerva bianca e porta con sé Ifigenia, facendola diventare una sua sacerdotessa. Mentre l’araldo racconta a Clitennestra il miracolo a cui ha assistito, il vento comincia a soffiare: la spedizione può finalmente prendere il mare per andare a fare la guerra. Come vedete, un inutile lieto fine.
Euripide sa – e noi sappiamo – che Ifigenia è morta, uccisa da quegli uomini che dicono di amarla, ma che, quando devono fare una scelta, scelgono sempre se stessi. Perché non hanno capito niente. E a noi rimane l’immagine di quella giovane donna che cammina, sola e consapevole, verso la luce. Perché ha capito tutto.