Fonte: L'Antidiplomatico
Chris Hedges: Come si è estinta la democrazia negli Stati Uniti
“I mass media si guadagnano da vivere vendendo al pubblico il mito dell’America. Questo è sempre stato vero. Ma ora le cose sono peggiorate. Laddove una volta si riusciva a trovare qualche voce che cercava di parlare onestamente di chi siamo come nazione e dei crimini compiuti in nostro nome, ora è quasi impossibile lottare contro il burlesque che si presenta come notizia.”
di Alessandro Bianchi
E’ autore di War Is a Force That Gives Us Meaning (2002), best seller che è stato finalista dei National Book Critics Circle Award. Ha insegnato giornalismo alle università di Columbia, New York, Princeton e Toronto. Per circa due decenni corrispondente estero in Medio Oriente, America centrale, Africa e nei Balcani. Ha lavorato al New York Times dal 1990 al 2005 e ha vinto nel 2002 il Premio Pulitzer. Dal 2005 continua a fare vero giornalismo ogni settimana su organi di informazione indipendenti statunitensi. E’ l’autore che più traduciamo ed è per questo motivo di grande onore ed emozione per l’AntiDiplomatico avere avuto il privilegio di poter intervistare Chris Hedges.
L’INTERVISTA PER “EGEMONIA”
Il New York Times premia l’accesso ai potenti ed ai ricchi, più che fare giornalismo. Negli ultimi anni, questo modo di operare lo ha portato a pubblicare numerose storie che si sono rivelate false. I redattori del giornale sono stati dei veri e propri propagandisti – Tony Judt li ha definiti “gli utili idioti di Bush” – per la guerra in Iraq. Il giornale è stato un autentico sostenitore della storia delle armi di distruzione di massa. Hanno soppresso, su richiesta del governo, una denuncia di James Risen sulle intercettazioni senza mandato degli americani da parte della National Security Agency, finché il giornale non ha saputo che l’inchiesta sarebbe stata pubblicata nel libro di Risen… Per due anni hanno diffuso l‘idea che Donald Trump fosse una marionetta russa. Hanno ignorato il contenuto del computer portatile di Hunter Biden, che conteneva prove di un traffico di influenze multimilionarie, etichettando il tutto come “disinformazione russa”. Bill Keller, che ha ricoperto il ruolo di direttore esecutivo dopo Lelyveld, ha descrittoJulian Assange, il giornalista e l’editore più coraggioso della nostra generazione, testualmente: “un cazzone narcisista e uno che non ha nessuna idea di giornalismo”. I redattori hanno deciso che l’identità e la razza, piuttosto che il saccheggio aziendale con i suoi licenziamenti di massa di 30 milioni di lavoratori, fossero la ragione dell’ascesa di Trump, e hanno l’attenzione dalla causa principale della nostra situazione economica, politica e culturale. Naturalmente, questa scelta li ha salvati dal dover entrare in profondità di quello che riguarda aziende, come Chevron, che sono inserzionisti del giornale. Hanno prodotto una serie di podcast intitolata Califfato, basata su storie inventate da un artista della truffa. Più recentemente, il NYT ha pubblicato un articolo di tre giornalisti, tra i quali Anat Schwartz, che non aveva mai lavorato come reporter, aveva legami con l’intelligence israeliana e che è stata poi licenziata dopo che è stato rivelato che le erano “piaciuti” i post genocidi contro i palestinesi su Twitter. L’articolo denunciava quelli che venivano definiti abusi sessuali e stupri “sistematici” da parte di Hamas e di altre fazioni della resistenza palestinese il 7 ottobre. Anche in questo caso si è scoperto che la notizia non avesse fondamento.
Il burlesque statunitense, oscuramente umoristico con le sue assurdità di Donald Trump, le false urne elettorali, i teorici della cospirazione che credono che lo Stato profondo e Hollywood gestiscano un massiccio traffico sessuale di bambini, i fascisti cristiani che ripongono la loro fede in un Gesù magico e insegnano il creazionismo come scienza nelle nostre scuole, le file di dieci ore per votare in Stati come la Georgia, i membri della milizia che pianificano di rapire i governatori del Michigan e della Virginia e di scatenare una guerra civile, sono da considerare, altrettanto, una minaccia, soprattutto se ignoriamo l’accelerazione dell’ecocidio.
Trump è il sintomo, il risultato, non la causa di questa decadenza. Trump è sgarbato, volgare e villano. Non fa parte del raffinato gruppo di mandarini addestrati a diventare plutocrati nelle università e nelle business school della Ivy League. Non ha mai imparato la stucchevole patina di raffinatezza e la retorica attentamente calibrata della nostra classe cortigiana. Ma esprime la legittima rabbia di una classe operaia diseredata e promette il ritorno a un’epoca d’oro una volta che il Paese si sarà liberato di immigrati, liberali, intellettuali e di tutti quei proto-fascisti che, come Trump, incolpano della nostra fine. Non è un politico nel senso classico del termine. È un leader di culto. I leader di culto nascono da comunità e società decadute in cui le persone sono state private del potere politico, sociale ed economico: i diseredati da un mondo che non possono controllare si affidano a coloro che promettono loro il ritorno a una mitica età dell’oro, giurando di schiacciare le forze individuate come la causa della miseria in cui vivono. Più tali leader assumono toni oltraggiosi e si fanno beffe della legge e delle consuetudini sociali, più guadagnano popolarità. Pretendendo un potere simile a quello di Dio, i leader delle sette sono immuni alle norme convenzionali e coloro che li seguono concedono loro questo potere nella speranza di una salvezza. Trump e la sua combriccola di stupidi, criminali, razzisti e deviati svolgono alla perfezione il ruolo del clan Snopes nei romanzi di William Faulkner: “The Hamlet,” “The Town” e “The Mansion.” Gli Snopes progrediscono dal vuoto di potere del Sud decaduto e prendono il controllo delle élite aristocratiche degenerate. Flem Snopes e la sua famiglia allargata – che comprende un assassino, un pedofilo, un bigamo, un piromane, un disabile mentale che copula con una mucca e un parente che vende biglietti per assistere alle bestialità – sono rappresentazioni fittizie della feccia che abbiamo elevato ai massimi livelli del governo federale. Incarnano l’etica del capitalismo moderno da cui Faulkner ci aveva messo in guardia. “Il solo riferimento all’amoralità, sebbene accurato, non è sufficiente e da solo non ci permette di collocarli, come dovrebbero in un determinato momento storico. Forse la cosa più importante da dire è che sono ciò che viene dopo: le creature che emergono dalla devastazione, con la melma ancora sulle labbra. […] Lasciate che un mondo crolli, nel Sud o in Russia, ed ecco che appaiono figure di grossolana ambizione che si fanno strada da sotto il fondo sociale, uomini per i quali le rivendicazioni morali non sono tanto assurde quanto incomprensibili, figli di boscaglie o di muzhiks che arrivano dal nulla e prendono il sopravvento grazie alla pura oltraggiosità della loro forza monolitica. Diventano presidenti di banche locali e presidenti di comitati regionali del partito e poi, un po’ imbellettati, si fanno strada a forza nel Congresso o nel Politburo. Scavatori senza inibizioni, non hanno bisogno di credere nel fatiscente codice ufficiale della loro società; devono solo imparare a imitarne i suoni”, ha magistralmente sintetizzato il critico Irving Howe a proposito degli Snopes.
Cosa sono diventati gli Stati Uniti oggi e cosa potrebbe cambiare dopo le prossime elezioni di novembre?
Gli Stati Uniti, come molti paesi industrializzati, hanno subito un ‘colpo di stato finanziario al rallentatore’, cementando un sistema di controllo che il filosofo politico Sheldon Wolin definisce “totalitarismo invertito”. Il totalitarismo invertito conserva le istituzioni, i simboli, l’iconografia e il linguaggio della vecchia democrazia capitalista, ma al suo interno le corporazioni si sono impadronite di tutte le leve del potere per accumulare profitti e avere un controllo politico sempre maggiori. Questa disconnessione, in atto da decenni, ha estinto la democrazia statunitense. La costante sottrazione di potere economico e politico è stata ignorata da una stampa iperventilata che ha tuonato contro i barbari alle porte – Osama bin Laden, Saddam Hussein, i Talebani, l’ISIS, Vladimir Putin – ignorando invece i barbari al nostro interno. Il colpo di stato al rallentatore è finito. Le corporazioni e la classe miliardaria ha vinto. Non c’è nessuna istituzione, compresa la stampa, un sistema elettorale che è poco più che una corruzione legalizzata, la presidenza imperiale, i tribunali o il sistema penale, che possa essere definita democratica. Rimane solo la finzione della democrazia. La facciata delle istituzioni democratiche e la retorica, i simboli e l’iconografia del potere statale non sono cambiati. La Costituzione rimane un documento sacro. Gli Stati Uniti continuano a proporsi come paladini delle opportunità, della libertà, dei diritti umani e delle libertà civili, anche se metà del Paese lotta a livello di sussistenza, la polizia militarizzata spara e imprigiona impunemente i poveri e l’attività principale dello Stato è la guerra. Questa autoillusione collettiva nasconde ciò che siamo diventati: una nazione in cui i cittadini sono stati privati del potere economico e politico e in cui il brutale militarismo che pratichiamo all’estero viene praticato in patria.
Per due decenni si è occupato di rivolte e rivoluzioni in tutto il mondo. Perché, secondo lei, in occidente le popolazioni non si ribellano ad un sistema così profondamente ingiusto e fallimentare?
Le élite al potere, terrorizzate dalla mobilitazione della sinistra negli anni Sessanta o da quello che il politologo Samuel P. Huntington ha definito l’“eccesso di democrazia” degli Stati Uniti, hanno costruito contro-istituzioni per delegittimare ed emarginare i critici del capitalismo finanziario e dell’imperialismo. Hanno comprato le fedeltà dei due principali partiti politici. Hanno imposto l’obbedienza all’ideologia neoliberale all’interno del mondo accademico e della stampa. Questa campagna, delineata da Lewis Powell nel suo memorandum del 1971 intitolato “Attacco al sistema della libera impresa americana”, è stata il progetto per lo strisciante colpo di Stato finanziario che 45 anni dopo è stato completato. La distruzione delle istituzioni democratiche, luoghi in cui i cittadini hanno potere e voce in capitolo, è molto più grave dell’ascesa alla Casa Bianca del demagogo Trump. Questo colpo di Stato ha distrutto il nostro sistema bipartitico. Ha distrutto i sindacati. Ha distrutto l’istruzione pubblica. Ha distrutto il sistema giudiziario. Ha distrutto la stampa. Ha distrutto il mondo accademico. Ha distrutto la protezione dei consumatori e dell’ambiente. Ha distrutto la nostra base industriale. Ha distrutto le comunità e le città. E ha distrutto le vite di decine di milioni di americani che non sono più in grado di trovare un lavoro che fornisca un salario di sussistenza, condannati a vivere in povertà cronica o rinchiusi in gabbie nel nostro mostruoso sistema di incarcerazione di massa. Questo colpo di stato ha distrutto anche la credibilità della democrazia liberale. Liberali autodefiniti, come i Clinton e Barack Obama, si sono fatti portavoce dei valori liberaldemocratici mentre facevano la guerra a questi valori al servizio del potere corporativo. La rivolta di estrema destra che vediamo dilagare nel Paese è una rivolta non solo contro un sistema aziendale che ha tradito i lavoratori, ma anche, per molti, contro la stessa democrazia liberale. Questo è molto pericoloso. Permetterà alla destra radicale sotto l’amministrazione Trump di consolidare un fascismo americanizzato. Si scopre, 45 anni dopo, che coloro che ci odiano veramente per le nostre libertà non sono la schiera di nemici disumanizzati creati dalla macchina da guerra – vietnamiti, cambogiani, afghani, iracheni, iraniani o persino talebani, al-Qaeda e ISIS. Sono i finanzieri, i banchieri, i politici, gli intellettuali pubblici e gli opinionisti, gli avvocati, i giornalisti e gli uomini d’affari cresciuti nelle università e nelle business school d’élite che ci hanno venduto il sogno utopico del neoliberismo.
Il neoliberalismo è un’ideologia furtiva, che allo stesso tempo domina le nostre vite, ma esiste in un relativo anonimato. I suoi effetti hanno riconfigurato radicalmente le società occidentali attraverso la deindustrializzazione, l’austerità, la privatizzazione dei servizi pubblici, dei servizi postali, delle scuole, degli ospedali, delle carceri, della raccolta di informazioni, della polizia, di parti dell’esercito e delle ferrovie, oltre a generare la stagnazione dei salari e la schiavitù del debito. Ha deformato il sistema fiscale e sventrato le normative per convogliare la ricchezza verso l’alto, creando una disuguaglianza di reddito che fa concorrenza all’Egitto faraonico. Il neoliberismo è alla base del catastrofico crollo finanziario del 2007 e del 2008. È alla base dell’aumento della sottoccupazione e della disoccupazione cronica, dell’assalto al lavoro organizzato, del calo degli standard sanitari ed educativi, della recrudescenza della povertà infantile, del degrado dell’ecosistema e dell’ascesa di demagoghi come Donald Trump e dell’estrema destra. Nel mondo del neoliberismo tutto, compresi gli esseri umani e il mondo naturale, è una merce che viene sfruttata fino all’esaurimento o al collasso. Il neoliberismo inverte i valori sociali, culturali e religiosi tradizionali. Il mercato è Dio. Tutti saranno sacrificati davanti all’idolo Moloch. Questa insensibilità ha visto le centinaia di milioni di persone nel mondo industriale che sono state private dei loro diritti soccombere alle malattie della disperazione, tra cui il suicidio, le dipendenze, il gioco d’azzardo, l’autolesionismo, l’obesità patologica, il sadismo sessuale e il ripiegamento verso il fascismo cristianizzato – il tema del mio libro “America: The Farewell Tour.”. Ha sventrato l’autorità morale e il ruolo tradizionale del governo, riducendolo a un sistema ridotto di controllo interno e di difesa nazionale. Ma ha anche sradicato efficacemente i meccanismi tradizionali, compresi i sindacati, che un tempo tenevano sotto controllo i potenti e la classe miliardaria. Rivoltarsi contro questo sistema significa un lungo e arduo processo di ricostruzione di movimenti e organizzazioni popolari per affrontare l’élite del potere globale, ma come vediamo queste élite attraverso la sorveglianza globale, le leggi che criminalizzano il dissenso e la protesta e la polizia militarizzata stanno facendo di tutto per rendere questo impossibile.
Venendo all’Europa, e proseguendo nella nostra indagine su chi detiene realmente il potere in occidente, come descrive l’atteggiamento delle leadership europee che hanno deciso la via del suicidio nella guerra per procura in Ucraina? Perché tra i governanti europei non c’è il minimo interesse nazionale del continente al punto che si è deciso di non aprire neanche un’indagine sull’atto di terrorismo contro i Nord Stream, il più grande attacco alle infrastrutture logistiche europee dalla seconda guerra mondiale?
Armare l’Ucraina non è un lavoro missionario. Non ha nulla a che fare con la libertà. Si tratta di indebolire la Russia. È una guerra per procura, progettata dagli Stati Uniti per raggiungere questo obiettivo. Se si esclude la Russia dall’equazione, ci sarebbe poco sostegno tangibile per l’Ucraina. Ci sono altri popoli occupati, tra cui i palestinesi, che hanno sofferto altrettanto brutalmente e molto più a lungo degli ucraini. Ma la NATO non sta armando i palestinesi per difendersi dal genocidio, né li sta additando come eroici combattenti per la libertà. Il nostro amore per la libertà non si estende ai palestinesi o al popolo dello Yemen, ai curdi, agli yazidi e agli arabi che resistono alla Turchia, da tempo membro della NATO, nella sua occupazione e nella sua guerra con i droni nel nord e nell’est della Siria. Il nostro amore per la libertà si estende solo a chi serve il nostro “interesse nazionale”. Le potenze europee, spesso a loro discapito, sono state reclutate in questa guerra per procura. Certamente questi Stati europei, in particolare la Germania e il Regno Unito, traggono profitto dalla vendita di armi, ma la guerra in sé, che un giorno finirà con una soluzione negoziata e uno scambio di terre in cambio della pace, cosa che si sarebbe potuta ottenere prima dell’inizio conflitto, è un progetto statunitense che l’Europa ha deciso stupidamente di sostenere. È un progetto di militaristi e produttori di armi a cui la maggior parte dei governi è troppo debole per opporsi. Arriverà il momento in cui gli ucraini, come i curdi, diventeranno sacrificabili. Spariranno, come molti altri prima di loro, dal nostro discorso nazionale e dalla nostra coscienza. Si lamenteranno per generazioni del tradimento e della loro sofferenza. L’impero statunitense passerà a usare altri, forse l’“eroico” popolo di Taiwan, per promuovere la sua futile ricerca di egemonia globale. La Cina è il grande premio per i nostri Dottor Stranamore. Accumuleranno ancora più cadaveri e flirteranno con la guerra nucleare per limitare la crescente potenza economica e militare della Cina. È un gioco vecchio e prevedibile. Lascia sulla sua scia nazioni in rovina e milioni di persone morte e sfollate. Alimenta l’arroganza e l’auto-illusione dei mandarini di Washington che si rifiutano di accettare l’emergere di un mondo multipolare. Se lasciato senza controllo, questo “gioco delle nazioni” potrebbe farci uccidere tutti.
Vede negli Stati Uniti o in Europa la nascita di qualche movimento politico in grado di offrire un’alternativa di società possibile?
C’è stato un decennio di rivolte popolari dal 2010 fino alla pandemia globale del 2020. Queste rivolte hanno scosso le fondamenta dell’ordine globale. Hanno denunciato il dominio delle imprese, i tagli all’austerità e hanno chiesto giustizia economica e diritti civili. Negli Stati Uniti ci sono state proteste a livello nazionale, incentrate sugli accampamenti di Occupy, durati 59 giorni. Ci sono state eruzioni popolari in Grecia, Spagna, Tunisia, Egitto, Bahrein, Yemen, Siria, Libia, Turchia, Brasile, Ucraina, Hong Kong, Cile e durante la Candlelight Light Revolution della Corea del Sud. Politici screditati sono stati cacciati dalle loro cariche in Grecia, Spagna, Ucraina, Corea del Sud, Egitto, Cile e Tunisia. Cambiamento e riforme, o almeno le loro promesse, hanno dominato il discorso pubblico. Sembrava annunciare una nuova era. Poi il contraccolpo. Le aspirazioni dei movimenti popolari sono state schiacciate. Il controllo dello Stato e la disuguaglianza sociale si sono ampliati. Non ci sono stati cambiamenti significativi. Nella maggior parte dei casi, le cose sono peggiorate. L’estrema destra è emersa trionfante. Abbiamo fallito su diversi fronti e questo ci impone di esaminare le nostre tattiche e strategie.
I “tecno-ottimisti” – come sottolinea Vincent Bevins nel suo libro “If We Burn: The Mass Protest Decade and the Missing Revolution” (Se bruciamo: il decennio delle proteste di massa e la rivoluzione mancata) – coloro che predicavano che i nuovi media digitali fossero una forza rivoluzionaria e democratizzante, non avevano previsto che i governi autoritari, le aziende e i servizi di sicurezza interni avrebbero potuto sfruttare queste piattaforme digitali e trasformarle in motori di sorveglianza, censura, oltre che veicoli di propaganda e disinformazione. Le piattaforme dei social media che hanno reso possibili le proteste popolari sono state rivoltate contro di noi. Molti movimenti di massa, non avendo implementato strutture organizzative gerarchiche, disciplinate e coerenti, non sono stati in grado di difendersi. Nei pochi casi in cui i movimenti organizzati hanno raggiunto il potere, come in Grecia e in Honduras, i finanzieri e le imprese internazionali hanno cospirato per riconquistare il potere in modo spietato. Nella maggior parte dei casi, la classe dirigente ha rapidamente riempito i vuoti di potere creati da queste proteste. Hanno offerto nuovi marchi per riconfezionare il vecchio sistema. Questo è il motivo per cui la campagna di Obama del 2008 è stata nominata Marketer of the Year da Advertising Age. Ha vinto il voto di centinaia di marketer, responsabili di agenzie e fornitori di servizi di marketing riuniti alla conferenza annuale dell’Association of National Advertisers. Ha battuto i secondi classificati Apple e Zappos.com. I professionisti lo sapevano. Il marchio Obama era il sogno di un marketer.
Troppo spesso le proteste assomigliavano a flash mob, con persone che si riversavano in spazi pubblici e creavano uno spettacolo mediatico, piuttosto che impegnarsi in un’interruzione sostenuta, organizzata e prolungata del potere. Guy Debord coglie l’inutilità di questi spettacoli/proteste nel suo libro “La società dello spettacolo”, osservando che l’età dello spettacolo significa che coloro che sono affascinati dalle sue immagini sono “plasmati alle sue leggi”. Anarchici e antifascisti, come quelli dei black bloc, hanno spesso infranto vetrine, lanciato sassi contro la polizia e rovesciato o bruciato auto. Atti casuali di violenza, saccheggio e vandalismo erano giustificati nel gergo del movimento come componenti di una “insurrezione selvaggia” o “spontanea”. Questa “pornografia delle rivolte” è piaciuta ai media, a molti di coloro che vi parteciparono e, non a caso, alla classe dirigente che la utilizzò per giustificare ulteriori repressioni e demonizzare i movimenti di protesta. L’assenza di teoria politica portò gli attivisti a utilizzare la cultura popolare, come il film “V per Vendetta”, come punto di riferimento. Gli strumenti, molto più efficaci e dannosi, delle campagne educative di base, degli scioperi e dei boicottaggi sono stati spesso ignorati o messi da parte. Come aveva capito Karl Marx, “coloro che non possono rappresentare se stessi saranno rappresentati”.
In un suo discorso estremamente significativo al The Sanctuary for Independent Media in North Troy dello scorso dicembredescrivendo i crimini perpetrati a Gaza, Lei ha dichiarato: “Siamo gli assassini più spietati ed efficienti del pianeta: solo per questo dominiamo i Dannati della Terra.” Come operano i mezzi di informazione di massa per coprire questi crimini?
I mass media si guadagnano da vivere vendendo al pubblico il mito dell’America. Questo è sempre stato vero. Ma ora le cose sono peggiorate. Laddove una volta si riusciva a trovare qualche voce che cercava di parlare onestamente di chi siamo come nazione e dei crimini compiuti in nostro nome, ora è quasi impossibile lottare contro il burlesque che si presenta come notizia. Nella società americana si è verificato uno spostamento critico da una cultura basata sulla stampa a una cultura basata sull’immagine. La raccolta tradizionale di notizie è in forte declino. Man mano che ci stacchiamo dal mondo della carta stampata, dalla complessità e dalle sfumature, e con esso dai sistemi informativi costruiti sul primato dei fatti verificabili, il primato viene dato all’intrattenimento, non alle notizie. Le notizie non possono più competere con le battaglie emotive che i conduttori iperventilanti dei talk show trash montano quotidianamente. Il pubblico ha abbracciato il carnevale emotivo che ha trasformato le notizie in un’altra forma di intrattenimento insensato. Il grido di dolore per il ritorno alla ragione, alla logica e alla verità è l’ultimo grido lanciato dai rappresentanti smarriti di una civiltà morente. Cicerone fece lo stesso nell’antica Roma. E quando la sua testa e le sue mani mozzate furono montate sul podio del Colosseo e il suo carnefice, Marco Antonio, annunciò che Cicerone non avrebbe più parlato e scritto, la folla gridò la sua approvazione. Abbiamo perso migliaia di giornalisti e redattori, basati sulla cultura della ricerca e dei fatti verificabili, che un tempo controllavano i consigli comunali, i dipartimenti di polizia, gli uffici dei sindaci, i tribunali e i legislatori statali per prevenire abusi e corruzioni eclatanti. E stiamo anche perdendo, cosa ancora più preoccupante, le meticolose capacità di cronaca, di editing, di verifica dei fatti e di indagine che rendono affidabile l’informazione quotidiana. Il declino della stampa ha interrotto il legame con una cultura basata sulla realtà, in cui cerchiamo di fare dei fatti il fondamento delle opinioni e dei dibattiti, e l’ha sostituita con una cultura in cui fatti, opinioni, bugie e fantasia sono intercambiabili. Poiché le notizie sono state superate dal gossip, dalla vacuità della cultura delle celebrità e da pseudo-eventi accuratamente inscenati, insieme all’isteria e al dramma che dominano gran parte dell’etere, il nostro discorso civile e politico è stato contaminato dalla propaganda e dall’intrattenimento mascherati da notizie. Lo dimostrano gli indici di ascolto di emittenti di propaganda ad alta velocità come Fox News e il crollo dell’industria dei giornali.
L’empatia c’è, ma non nei circoli del potere. Questo perché la lobby israeliana ha comprato quasi tutti i politici di alto livello negli Stati Uniti e ha versato milioni di dollari in campagne per sconfiggere coloro che hanno il coraggio morale di sfidare Israele. La lobby sostiene una campagna di diffamazione e di schedatura di coloro che difendono i diritti dei palestinesi – tra cui lo storico israeliano Ilan Pappe e gli studenti universitari, molti dei quali ebrei, riuniti in organizzazioni come Students for Justice in Palestine. La lobby ha spinto per l’approvazione di leggi sostenute da Israele che richiedono ai loro lavoratori e appaltatori, sotto la minaccia di licenziamento, di firmare un giuramento pro-Israele e di promettere di non sostenere il movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni. Il potere della lobby israeliana è stato messo in mostra quando abbiamo assistito allo spudorato applauso della maggior parte dei membri del Congresso per il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, quando si è rivolto al Congresso nel bel mezzo del genocidio di Gaza. Le campagne ben finanziate dalla lobby israeliana, che lavora a stretto contatto con il Ministero degli Affari strategici di Israele, per screditare qualsiasi politico o accademico americano che si discosti anche solo lievemente dalla politica israeliana, chiudono ogni critica allo Stato di apartheid e al genocidio. La massiccia interferenza nei nostri affari interni da parte di Israele e della lobby israeliana, di gran lunga superiore a quella di qualsiasi altro Paese, porta a concludere che Israele possiede la nostra classe politica.
Sempre sul suo libro Levy scrive a proposito del 7 ottobre: “La via del terrore è l’unica via aperta ai palestinesi per lottare per il loro futuro.La via del terrore è l’unico modo per ricordare a Israele, agli Stati arabi e al mondo la loro esistenza.Non hanno altre vie.Israele ha insegnato loro questo.Se non usano la violenza, tutti si dimenticheranno di loro e, un po’ più tardi, solo attraverso il terrorismo saranno ricordati.Solo attraverso il terrorismo potranno ottenere qualcosa.Una cosa è certa: se depongono le armi, sono spacciati”. Concorda con questa visione? I dirottatori, ad esempio, che hanno compiuto gli attacchi dell’11 settembre, come tutti i gruppi radicali jihadisti del Medio Oriente, ci hanno parlato nella lingua assassina che abbiamo insegnato loro.
Mi trovavo a Times Square, a New York, poco dopo che il secondo aereo ha virato e si è abbattuto sulla Torre Sud. La folla che guardava il maxischermo ha esultato di sgomento per il fumo nero e la palla di fuoco che si è sprigionata dalla torre. Non c’era più alcun dubbio che i due attacchi alle Torri Gemelle fossero atti di terrorismo. L’ipotesi precedente, che forse il pilota avesse avuto un infarto o avesse perso il controllo dell’aereo quando aveva colpito la Torre Nord diciassette minuti prima, era svanita con il secondo attacco. La città cadde in uno stato di shock collettivo. La paura palpitava per le strade. Avrebbero colpito di nuovo? Dove? La mia famiglia era al sicuro? Dovevo andare al lavoro? Dovrei tornare a casa? Che cosa significava? Chi avrebbe fatto questo? Perché? Le esplosioni e il crollo delle torri, tuttavia, mi erano intimamente familiari. Li avevo già visti. Era il linguaggio familiare dell’impero. Avevo visto questi messaggi incendiari cadere sul Kuwait meridionale e sull’Iraq durante la prima guerra del Golfo Persico e scendere con fragorose commozioni a Gaza e in Bosnia. Il biglietto da visita dell’impero, come in Vietnam, è costituito da tonnellate di ordigni letali sganciati dal cielo. I dirottatori hanno parlato all’America nella lingua che abbiamo insegnato loro. L’ignoranza, mascherata da innocenza, degli americani, soprattutto bianchi, era nauseante. È stato il peggior attacco al suolo americano dopo Pearl Harbor. È stato il più grande atto di terrorismo della storia americana. È stato un atto di barbarie incomprensibile. La retorica incredibilmente ingenua, che ha saturato i media, ha fatto sì che l’artista blues Willie King rimanesse sveglio tutta la notte e scrivesse la sua canzone “Terrorized”. “Ora parli di terrore”, cantava. “Sono stato terrorizzato per tutti i miei giorni”.
Quali consigli darebbe a chi cerca di informarsi oggi in occidente su quello che sta accadendo?
Ci sono buoni siti alternativi, anche israeliani come 972 Magazine, che riportano ancora notizie veritiere. Al Jazeera, Middle East Eye, Mondoweiss, Electronic Intifada hanno fatto un lavoro straordinario nel raccontare il genocidio di Gaza. Molti dei giornalisti di Al Jazeera sono stati assassinati da Israele a causa del loro coraggioso reportage. Leggete i reportage di chi non è del vostro Paese, soprattutto se seguite il Medio Oriente. Cercate giornalisti e commentatori di cui vi fidate. E leggete libri di storia. Le notizie senza contesto storico sono impossibili da capire.
Quali sono i libri del passato che oggi consiglierebbe di leggere a chi cerca di comprendere la realtà in cui viviamo?
Sono molti, pochi sul Medio Oriente:
Don’t Look Left: A Diary of Genocide di Atef Abu Saif
The Great War for Civilization and Pity the Nation di Robert Fisk.
The Ethnic Cleaning of Palestine and The Biggest Prison on Earth di Ilan Pappe
The Hundred Years’ War on Palestine di Rashid Khalidi
Three Worlds: Memoirs of an Arab-Jew and The Iron Wall di Avi Shlaim
Fateful Triangle di Noam Chomsky
Gaza: An Inquest Into Its Martyrdom di Norman Finkelstein
Drinking the Sea at Gaza di Amira Hass
The Punishment of Gaza and The Killing of Gaza di Gideon Levy
The Fall of the Ottomans di Eugene Rogan
Palestine and Footnotes in Gaza di Joe Sacco
The Question of Palestine di Edward Said
A Peace to End All Peace di David Fromkin
The Prize di Daniel Yergen