Fonte: La stampa
Vorrei raccontarvi di come ha avuto inizio la mia storia di pacifista, è una vecchia storia e è cominciata con una canzone. Al Festival di Sanremo del 1965 fece grande successo un gruppo americano i New Christy Minstrels, si presero il primo posto assieme a Bobby Solo con la canzone Se piangi se ridi, e il secondo con Wilma Goich cantando Le colline sono in fiore, due canzoni che a un quattordicenne non dicevano niente, troppo sentimentalismo, troppa sdolcinatura.
Il leader dei Nuovi Menestrelli di Gesù era Barry McGuire, che solo un anno dopo, quelli erano tempi che correvano molto in fretta, ebbe un successo mondiale con una canzone per niente romantica e men che meno sdolcinata, Eve of destruction, Vigilia della distruzione. Era una canzone contro la guerra del Vietnam, contro il pericolo atomico e la guerra in generale, il ritornello faceva così, but you tell me over and over and over again my friend, ah, you don’t believe we’re on the eve of destruction? La canzone ebbe anche una cover italiana scritta da un menestrello militante, Pino Masi, e divenne buona nei cori durante le manifestazioni di protesta del ’68, ’69 a cui partecipavo attivamente, ed essendo proprio un bravo canterino, ero io a intonarla. Il ritornello era tradotto così, E allora dimmi cosa vuoi di più compagno per capire che è tornata l’ora del fucile?
In una di quelle manifestazioni, ora non ricordo più il motivo di protesta, ma erano così tanti e tutti così ragionevoli che a volte si confondevano, per puro e sano narcisismo adolescenziale mi sono piazzato a fianco di un gruppo di partigiani, erano anche loro alla manifestazione con i loro fazzoletti tricolore e le bandiere trafitte di stelline dorate, il ricordo dei caduti della loro brigata, in fin dei conti il ritornello mi sembrava proprio adatto a loro. Mi lasciarono cantare e poi, con un’elegante mossa a tenaglia, mi presero di mezzo, parlò quello che mi sembrava il più anziano, aveva appuntate sulla giacca tre medaglie, mi disse più o meno così. Ah, ce l’hai il fucile ragazzo? Ne hai mai visto uno? L’hai mai fatto funzionare? No? Noi sì, tutti quanti, e sai perché imbracciavamo il fucile? Per farla finita una volta per tutte con i fucili, perché a te non succedesse mai di doverlo usare, né te né nessuno al mondo. Mai più, capisci ragazzo? Secondo te perché sono morti questi nostri compagni? Perché tornasse l’ora del fucile? Fila a casa e pensaci bene su prima di metterti a cantare ‘ste cazzate.
A casa non sono filato ma ci ho pensato e ripensato, ho avuto modo di pensarci eccome negli anni furenti che ne sono venuti, la canzone del fucile mi si è dileguata nella gola quando sono apparsi davvero i fucili per le strade. Il mio pacifismo si è fatto strada lentamente come lentamente mi stavo facendo adulto, e si è compiuto quando si è compiuta la mia età, mi sono fatto davvero uomo e davvero pacifista, un pacifista pratico assai più che teorico, con la guerra di Bosnia.
Io non ne sapevo niente della guerra; certo, i racconti, le letture, la televisione, ma toccarla è un’altra cosa. La pazzia, l’orrore, il sangue, le bombe, i fucili, certo, anche i fucili, la disperazione, e morte, morte ovunque, materia di morte, vivere per uccidere, uccidere per non morire, senza una ragione, senza una soluzione, senza una speranza che qualcosa di vivo ritorni a prima della guerra. E la stupidità, la totale e disumana stupidità, l’irresponsabilità di chi la guerra la governa. Di chi pensa e si vanta di averne le chiavi, il potere di aprire e chiudere quella porta; e così la trovata davvero geniale di affidare con gli accordi di Dayton la pace nelle mani di quel boia di Milosevic, per poi sei mesi dopo scatenargli contro la prima guerra a cui ha partecipato attivamente e compiutamente la Repubblica. Qualcuno ricorderà le scampagnate dei bravi cittadini muniti di sdraio e ombrelloni per assistere alla partenza dei bombardieri dalla base di Aviano, qualcuno ricorderà che non una bomba ha centrato Milosevic, ma molte i ragazzi dell’università di Belgrado.
È stato allora che ho capito appieno il senso e la ragione dell’articolo 11 della Costituzione della Repubblica. No, la pace imperitura non è un delirio etilico e nemmeno la bella speranza di animi nobili, non è l’illusione ottica di cui ci avvertono gli stati maggiori dalla vista corta e gli opinionisti che la sanno lunga. I padri e le madri fondatori di questa Repubblica e delle democratiche repubbliche d’Europa nate dalle ceneri ancora ardenti della Seconda Guerra non erano né ebbri né in preda al misticismo quando scrissero le loro costituzioni; erano ben consci dell’indicibile che era appena stato, gravati per sempre dal senso di colpa di non averlo saputo impedire, il loro pacifismo fu più di un proposito, fu la pratica conseguenza dell’accaduto che divenne giuramento messo nero su bianco. La loro volontà fu di dotarsi dell’arma che ritenevano più potente ed efficace, dell’unica che potesse imporsi sulla minaccia definitiva dell’atomica, la soluzione pacifica dei conflitti, la politica, e della politica la sua creatura più sofisticata, la diplomazia. E quest’arma l’Europa non l’ha mai costruita. E il giuramento è infranto, rinnegato. Questa è la lezione che mi sono portato a casa dall’orrore di Bosnia, come agente di pace, di là dalla sua ristretta cerchia muraria l’Europa vale zero, vale i suoi rammarichi, le sue esortazioni, i suoi auspici, zero. Lezione più che mai viva, visto che dopo trent’anni di missioni di pace, piuttosto ben armate, ovunque nel mondo ritenesse, o fosse indotta a ritenere dal partner di riferimento d’Occidente, di difendere a nome dell’umanità intera i suoi alti valori e di proporli o imporli con ogni mezzo militare idoneo a keeping peace, non solo risulta che l’Europa non è buona per la pace, ma non è neppure buona per la guerra che rinnega. Mettiamo assieme gli esiti delle nostre missioni militari e leggiamo uno scandaloso calendario di fellonie. Questo mi era già chiaro al sorgere torbido del millennio, e per questo ero a Genova assieme ai miei colleghi pacifisti d’Europa in occasione del G8, l’unico che malignamente passerà alla storia. Qualcuno ricorderà il New York Times di quel tempo, «Le enormi manifestazioni contro la guerra in tutto il mondo ci ricordano che potrebbero esserci ancora due superpotenze sul pianeta: gli Stati Uniti e l’opinione pubblica mondiale». Bene, in quei giorni la Repubblica dichiarò, onorevolmente senza nessuna ipocrisia per le forme, guerra al pacifismo. E fu guerra vera, la Guerra dei Quattro Giorni, guerra asimmetrica perché le centinaia di migliaia di giovani erano disarmati, come lo erano le suore anche se più anziane e gli scout anche se più piccoli tra tutti, tutti tranne, naturalmente, i tizi che ho visto con i miei occhi a piazza Corvetto corazzarsi di nero e armarsi di molotov sotto lo sguardo attento e curante di poliziotti in divisa. E per la seconda potenza mondiale fu l’annientamento. Due anni dopo a Roma ci contarono in tre milioni, nel mondo cento milioni, e quelli ne furono i solenni funerali. Non credo che basti una generazione per assorbire e risolvere il trauma di quelle giornate genovesi; quei ragazzi che ora sono padri e madri lo stanno trasmettendo ai loro figli supplicandoli alla cautela, all’astensione da azzardi di piazza, del resto l’attuale governo è assai generoso nelle conferme dei loro timori.
Sta di fatto che da allora il movimento mondiale del pacifismo si è polverizzato. Quello che resta è il suo pensiero, un pensiero senza corpo evidente, senza materia da porre su uno dei due piatti della bilancia della storia. Non solo parole, ci sono infiniti gesti di pace che pongono piccole pietre d’inciampo nell’inarrestabile corso guerresco ovunque nel mondo, ma i gesti non coincidono con un’azione che possa cambiare la storia, non credo. Io stesso non so più cosa sono, se un uomo di pace o un uomo sconfitto, chi dei due ha diritto di cittadinanza in questi giorni in cui sono chiamato dalla ragion pratica a esistere e a darne segno. Intanto che la storia ha preso di nuovo a correre, a correre pazzamente all’indietro. Oggi lo stato maggiore della Nato e il corollario di servizi segreti ci dicono, singolarmente ciarlieri visto che la consegna dovrebbe essere per loro stessa natura il silenzio, che il nemico non è alle porte, le ha oltrepassate, è qui, ed è guerra. E non è più il buon nemico di un tempo, il nemico leale che non ha mai infranto gli ottimi accordi di Yalta e per questo lealmente ricambiato. Ora il nemico è un mostro di follia, inconoscibile e intrattabile, capace di oltrepassare ogni limite. Dunque nessun accordo è possibile, nessuna transazione, nessuna politica, nessuna diplomazia. Sinceramente non lo so, magari è proprio così, e se è così allora è agli stati maggiori che abbiamo, noi, l’Europa, affidato la politica estera, la politica tutta in tempo di guerra.
Sarebbe bello se di questa evenienza ne fossimo formalmente informati invece che per deduzione, sarebbe un bel gesto di democrazia avanzata. Ma, almeno al momento, siamo costretti a dedurre; e allora guardo e riguardo il ritaglio che mi sono fatto della fotografia, così diretta, così drammatica, così “bella”, del presidente Macron che carico di adrenalina e sudore sta pugilando non si sa bene contro chi, e voglio sperare che si tratti solo di un malcapitato sacco da allenamento, e sì, non mi viene da pensare ad altro che alla guerra, alla guerra a cui i popoli d’Europa devono prepararsi per tempo, proprio come lui. Comunque sia di guerra si parla e si decide ai massimi livelli, il riarmo europeo è già in atto e si discute solo di come incrementarlo e in che modo, già si avvisano i cittadini d’Europa che la prossima ventura sarà un’economia di guerra, meno infrastrutture e spese sociali e più materiale bellico. L’Ucraina è ora solo il paesaggio provvisorio, la prima scena, ora la sua difesa implica la difesa dell’intero continente. E va bene, magari le cose stanno così, che la nuova e definitiva guerra d’Europa è inevitabile, ma mi piacerebbe che me lo spiegassero per filo e per segno, ne ho il diritto perdio, e le spiegazioni sono vacue, peggio, sediziose.
La cosa che proprio non tollero, è la narrazione, ormai universalmente praticata, che la pace imperitura in Europa non sia stata che un’illusione carica di malefici esiti, e le nostre carte costituzionali siano da purgare dalle illusioni per adeguarle alla forza della realtà che impone ora di infrangere senza patetiche dissimulazioni il giuramento, e rinnegarlo. Bene, magari la guerra è lì che ci aspetta, magari Putin oltre agli altri suoi deliri è anche posseduto dal delirio di autodistruzione, ma prima di chiedermi di fondere gli aratri per farne cannoni, vorrei che gentilmente mi si mostrassero le carte da dove evincere quali e quanti e quanto intelligenti sforzi sono stati fatti negli ultimi trent’anni per non arrivare a questo punto. Le carte, non i discorsi. Prima che i nostri figli si mettano in fila per il fronte, i cittadini d’Europa ne hanno diritto. Per il momento, fatto oltremodo rassicurante, al fronte ci vanno, o ci mandiamo, i figli degli altri, come da antica tradizione. A costo di passare per un nemico della Patria, per un membro della quinta colonna già operante nella sua aggiornata forma di guerra ibrida, vorrei gentilmente porre una questioncina d’onore agli stati maggiori, a loro visto che agli organi democraticamente eletti porre domande è ormai di cattivo gusto: siete in grado di rassicurarmi che dell’Ucraina, in guerra da due anni – e per quanti ancora? -, non accadrà come per l’Afghanistan? Che fu il punto d’onore dell’Occidente tutto liberarlo dalla schiavitù talebana a costo di ancora incalcolate perdite di vite e risorse, per poi, dopo otto anni di sfacelo, lasciarlo alla sua schiavitù con un atto di fellonia assunto al sublime? E sì, questa è la mia sconfitta, non ho che domande, e nessuna risposta.