FERMIAMO L’ESM
da www.lidiaundiemi.it di Lidia Undiemi, studiosa di economia e diritto
Ancora nessuno ha spiegato alla gente, agli italiani, cosa sia l’ESM (European Stability Mechanism), cosa comporti e quali saranno le conseguenze nell’immediato. Il costituendo strumento economico internazionale, che avrà sede in Lussemburgo, non a caso, prevede l’immunità assoluta per tutti i componenti del proprio organigramma, la segretezza per ogni suo atto, e la libertà d’azione totale.
La prima conseguenza per l’Italia sarà quella di cedere la propria sovranità economica e quindi politica. Poi dovrà pagare la “quota” d’adesione, che sarà di appena 125 miliardi di euro. (Dove prenderà questi soldi?) ed inoltre acconsentirà al fatto che dei privati possano intervenire nell’imposizione delle regole economiche nazionali (tasse, manovre, etc.).
Ma il guaio è anche un altro: tutta la politica, quella italiana e quella europea, rema dalla stessa parte. Tutti sanno e nessuno dice. L’autodeterminazione di un popolo lo rende sovrano e fino a quando la Costituzione salvaguarderà i diritti, i nostri diritti, di cittadini ed esseri umani liberi, noi saremo sempre in prima linea a combattere ogni forma d’abuso.
Scarica l’allegato per leggere il Dossier ESM 2012 di Lidia Undiemi
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Non è più l’Europa a chiedercelo. Sono le organizzazioni finanziarie internazionali, l’Europa e gli Stati accettano di essere “delegittimati”
intervista a Lidia Undiemi di Alessandro Bianchi da www.lantidiplomatico.it 08 aprile 2014
Lidia Undiemi, studiosa di diritto e economia, editorialista di Wallstreet Italia. La prima e principale accusatrice in Italia di MES e Fiscal Compact. Le sue tesi saranno sintetizzate in un volume di prossima pubblicazione.
– Sono passati ormai tre anni da quando ha iniziato la sua battaglia per impedire che l’Italia si legasse a trattati intergovernativi come il MES – Meccanismo europeo di stabilità – ed il Fiscal Compact. La sua azione di divulgazione continua oggi per cercare di trasmettere nell’opinione pubblica la consapevolezza delle tremende conseguenze pratiche sulla società di questi trattati. Ci può spiegare cosa rappresenta il MES e perché i paesi per salvare l’euro hanno avuto la necessità di scavalcare il diritto comunitario?
Il MES è un trattato di diritto internazionale che ha come base giuridica il “meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme”, introdotto con la modifica dell’art. 136 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). In parole più semplici, per far fronte alla crisi della zona euro si è deciso di ricorrere ad un accordo di diritto internazionale, con regole proprie che fuoriescono dal sistema normativo comunitario.
Qual è il risvolto politico di una simile scelta? Basti pensare al sistema di votazione: nel processo decisionale dell’organizzazione MES, il peso di ciascun paese aderente dell’Eurozona è proporzionato al potere finanziario che esso riesce ad esprimere mediante il versamento delle quote di partecipazione; la Germania, guarda caso, possiede la quota maggiore.
Tale ente finanziario, presentato al grande pubblico come “fondo salva-stati”, si pone come obiettivo quello di correggere gli squilibri finanziari maturati nell’ambito della moneta unica, prevalentemente mediante salvataggi bancari – si pensi ai 100 miliardi di euro messi a disposizione del governo spagnolo per far fronte alle difficoltà di alcune sue grosse banche – a spese degli Stati aderenti. La finalità del MES non consiste quindi nel “salvataggio” degli stati, bensì nella creazione di un organismo permanente il cui scopo, in una prospettiva politica più ampia, consiste nella creazione di una governance politica internazionale in ambito comunitario attraverso la quale potere intervenire tutte le volte che l’instabilità – a monte generata da una crisi della “bilancia dei pagamenti” – metta in discussione la sopravvivenza dell’Euro.
Ritornando ai criteri di determinazione del potere decisionale che ciascun singolo stato membro può esprimere all’interno dell’Organizzazione, se i rapporti fra Stati possono essere gestite al di fuori di una relazione paritaria – dato che nel MES il Consiglio dei governatori decide in base alla forza finanziaria dei paesi che vi hanno aderito – e se contemporaneamente lo stato in difficoltà che chiede aiuto è costretto ad accettare “condizioni rigorose” imposte dalla stessa organizzazione – in sintesi austerità, riforme e privatizzazioni – non abbiamo forse creato un governo sovranazionale (o nuova governance economica) alternativo alle istituzioni nazionali e comunitarie?
– Per quel che riguarda il racconto ufficiale della crisi, i media mainstream non inseriscono spesso il MES nel dibattito e l’opinione pubblica ha poche possibilità per conoscere l’attività di quest’organizzazione. Ci può spiegare meglio come agisce il MES all’atto pratico ed in che modo riesce a condizionare le scelte dei vari governi?
Bisogna partire con il dire e spiegare all’opinione pubblica che il MES è uno strumento di governo del territorio sovranazionale potentissimo, la sua struttura è simile a quella del FMI. Purtroppo i media e la politica se ne occupano parzialmente solo quando vengono concretamente attivati alcuni suoi strumenti (salvataggio delle banche spagnole, sottoscrizione di nuove quote, acquisto dei bund tedeschi, …), tralasciando le sue enormi potenzialità e l’impatto sulle democrazie nazionali insiti nel suo funzionamento.
In un momento di crisi finanziaria, economica e sociale come quella attuale, gli interventi di “salvataggio” possono essere all’ordine del giorno: nel momento in cui si affida agli stati economicamente più forti, al di fuori del diritto dell’UE, la possibilità di poter dettare delle “misure rigorose” – oltre che dell’agenda economica anche quella politica – il MES si sostituisce di fatto alle istituzioni nazionali.
– Si è dunque voluto formare una nuova versione del Fondo Monetario a scopo regionale? E che relazione c’è tra il MES ed il FMI?
Oltre al fatto che la struttura del MES è simile a quella del FMI, il trattato prevede una sorta di collaborazione tra le due organizzazioni nell’effettuare i prestiti nei confronti degli stati e nell’applicare le rigorose condizioni di politica interna. Il motivo per cui il MES è stato creato quasi settant’anni dopo l’istituzione del FMI risiede nell’ideologia liberista su cui è stata costruita l’intera architettura giuridica europea: siccome il mercato unico “libero” non può fallire non ha senso prevedere un meccanismo di correzione permanente in vista di future crisi, percepite come eventi “eccezionali” ai sensi dell’art. 122 TFUE.
Come ho già accennato, queste organizzazioni si sono sostituite di fatto anche alle istituzioni dell’Unione Europea nel gestire la crisi della zona euro e nell’imporre determinate scelte ad i governi nazionali. Attenzione, i partecipanti al MES sono gli stessi soggetti che danno corpo all’UE (Stati membri, Commissione, BCE, …), ma anziché agire in quanto tali si presentano nella nuova veste di MES; in sostanza cambia soltanto il sistema di regole entro cui agiscono. Si pensi al fatto che il potere decisionale circa la concessione del prestito allo Stato richiedente spetta al Consiglio dei governatori del MES. Può la democrazia divenire oggetto di trattazione delle organizzazioni finanziarie? L’Europa può tollerare tutto questo? Appoggiando e sostenendo il MES, le istituzioni comunitarie non stanno forse agendo attraverso strumenti incompatibili con i trattati fondamentali? Queste sono le domande che dovrebbero porsi coloro che vogliono portare avanti un dibattito politico serio.
– Si discute molto sulla questione giuridica del recesso. Essendo un “accordo internazionale”, basterà uscire dagli accordi presi a livello comunitario, in particolare per quel che riguarda quelli con la zona euro, o i vincoli presi con il MES ed il Fiscal Compact potranno sopravvivere per gli stati nazionali senza l’Unione Europea?
A livello teorico, anche uscendo dall’euro e dall’UE, il valore legale del MES potrebbe persistere. Se è vero, come è vero, che attraverso gli accordi di diritto internazionale si attribuisce la gestione della crisi europea ad una organizzazione internazionale, significa che il principale interlocutore politico dei governi nazionali sarà il MES – cioè la Troika in una veste istituzionalmente più strutturata – e non la UE, al quale la prima attribuisce un ruolo comunque marginale rispetto al proprio.
Cadono così tutte le giustificazioni del “Ce lo chiede l’Europa”. Non è l’Europa a chiedercelo. Sono le organizzazioni finanziarie internazionali che chiedono e l’Europa e gli Stati membri accettano di essere in qualche modo “delegittimati”.
– Nel 2012 un parlamentare irlandese, Thomas Pringle, ha deciso di ricorrere alla via giudiziaria sulla legittimità del MES rispetto ai trattati europei. La Corte di giustizia europea in via pregiudiziale ha dichiarato come “gli Stati non attuano il diritto dell’Unione nel momento in cui instaurano un meccanismo di stabilità come il MES”. Quali considerazioni si possono trarre da questa sentenza?
Il deputato irlandese Thomas Pringle ha fatto ricorso per chiedere di accertare la violazione di alcuni articoli contenuti nei trattati fondamentali, in primis l’art. 122 TFUE. Quest’ultimo, infatti, consente in condizioni straordinarie ed eccezionali alle istituzioni europee di compiere salvataggi di natura finanziaria qualora uno stato membro si trovi o sia seriamente minacciato da gravi difficoltà per calamità o eventi straordinari fuori dal suo controllo”.
Dato che il MES è un trattato internazionale al di fuori dell’ordinamento comunitario, Pringle aveva chiesto alla Corte irlandese – che ha poi rimandato alla Corte di Guistizia Europea – di chiedere l’illegittimità del MES, poiché essa svolge le funzioni (di gestione degli aiuti finanziari) che sarebbero spettate, ai sensi dell’art. 122, alle istituzioni europee. Su tale questione, dal mio punto di vista, la decisione della Corte di “salvare” il MES (anche in merito ad altre questioni sollevate in tale occasione) – sul presupposto che l’attività di questa non avrebbe compromesso la possibilità per le istituzioni comunitarie, tra cui la BCE, di fornire assistenza ai paesi in alternativa al MES – è altamente criticabile poiché l’impianto della nuova governance favorisce questa rispetto agli interventi ex art. 122.
– Lei ha recentemente sostenuto come il MES violi i trattati fondamentali dell’UE anche perché di fatto non permette agli stati membri di rispettare i parametri di Maastricht. Ci può spiegare meglio le ragioni?
La risposta è che non si può dire agli Stati di accettare i parametri in questione visto che, dati alla mano della Banca d’Italia e dell’ISTAT, i contributi forniti ai fondi dai singoli stati hanno contribuito in modo determinante all’aumento del debito pubblico; l’impegno finanziario assunto dall’Italia ammonta a 55 miliardi di euro circa, una cifra esorbitante. Altro che Stato “cattivo”, specie se si considera inoltre che il deficit pubblico si è progressivamente ridotto, passando dal 5,5% del 2009 all’attuale soglia del 3%.
In tutti i paesi in cui è intervenuta la Troika (ora MES) per fornire “assistenza finanziaria” il debito pubblico è aumentato e non diminuito; i cittadini europei colpiti dall’austerità hanno pagato a caro prezzo i salvataggi degli interessi finanziari della zona euro.
– E gli Stati come possono tutelarsi oggi?
Se prendiamo consapevolezza del fatto che la partita non è giocata tra Stati membri e istituzioni europee, ma tra Stati e organizzazioni finanziarie internazionali – MES e FMI – è chiaro che l’impostazione di una politica alternativa dal punto di visto tecnico deve partire da una maggiore consapevolezza della sovranità dello Stato. Si tratta di una questione essenzialmente politica.
Chi si propone come governo “anti-MES/Troika”, dovrebbe già avere nel cassetto – per questo bisognerebbe aprire un dibattito il prima possibile – una serie di misure possibili a livello nazionale volte a rimettere al centro dei rapporti internazionali le prerogative delle istituzioni nazionali nel governo del territorio. A livello comunitario, invece, occorrerebbe smontare l’architettura giuridica su cui si regge l’euro, e conseguentemente il MES. Essendo questo stato realizzato al fine di correggere i “malfunzionamenti” dell’euro, è chiaro che entrambi gli strumenti sono intimamente collegati: se non si mette in discussione la moneta diventa tecnicamente e politicamente impossibile ostacolare la Troika, e conseguentemente le politiche di austerità.
– Vede, in definitiva, che dalla politica possa emergere una speranza che l’Europa diventi l’Europa dei cittadini e non, per riprendere alcune sue recenti parole, il luogo di una dittatura economica dove i potentati finanziari vengono ad acquisire stati in svendita?
L’Europa può essere dei cittadini solo se i vari stati sono messi nelle condizioni di esercitare la propria sovranità, così da arginare tempestivamente gli squilibri economici e qualsiasi tentativo di creazione di governi sovranazionali, sostanzialmente oligarchici. L’Europa nella sua volontà di voler gestire la moneta e l’economia ha fallito, perché in un’economia sempre più globalizzata, la politica risente della forza della finanza globale e della sua volontà di esercitare un potere di governo sul territorio e sui suoi abitanti. È naturale che ciò accada. Verrebbe da chiedersi per quale motivo creare artificialmente un’unità politica per paesi così profondamente diversi dal punto di vista economico e culturale. Perché un fallimento deve diventare un grande fallimento?
Quando il Fiscal compact non fa paura
Si moltiplicano le grida di dolore per la disposizione del Fiscal compact che impone di tagliare ogni anno, nella misura di un ventesimo, la quota del rapporto debito-Pil che eccede la soglia-Maastricht del 60 per cento. Il commento più frequente, di matrice politica, sostiene che per rispettare la tabella di marcia dovremmo ogni anno fare mostruose manovre correttive, per circa 45 miliardi di euro. Le cose non stanno esattamente in questi termini, ed è possibile mantenersi in tabella di marcia (e pure batterla) con sforzo ragionevolmente contenuto o pressoché nullo, al verificarsi di date condizioni.
Per comprendere il motivo, visto che la nostra psichedelica campagna elettorale ha riportato di stretta attualità questo tema (anche grazie al condottiero di Arcore (che ha diligentemente votato tutto ed ora grida al complotto), è utile rileggersi un articolo scritto un anno addietro da Giuseppe Pisauro per lavoce.info, in cui si dimostra la tesi che, contrariamente agli strepiti politico-popolari, la regola sul debito è in genere meno severa di quella sul pareggio di bilancio. L’architrave della costruzione è, intuitivamente (ma non per tutti), il pareggio di bilancio. Scrive infatti Pisauro:
«Si può calcolare facilmente che per rispettare la regola di 1/20, con un debito al 120 per cento del Pil e il pareggio di bilancio è sufficiente che il Pil nominale cresca del 2,5 per cento; con un debito al 100 per cento del Pil basta una crescita nominale del 2 per cento; con un debito all’80 per cento è sufficiente l’1,25 per cento. In tempi appena normali sono valori bassi. Perché si verifichino basta un po’ di inflazione. Tanto per dare un’idea, nel 2000-2007, anni di crescita reale molto bassa, la crescita nominale del Pil in Italia è stata in media del 3,6 per cento l’anno»
In caso aveste soverchi dubbi su questa stregoneria, partite dalla premessa (bilancio pubblico in pareggio), e moltiplicate il debito-Pil per il tasso di crescita Pil nominale: 120 per cento per 2,5 per cento fa (sorpresa, sorpresa) 3 per cento. E così via. Quindi, per assolvere all’obbligo di Fiscal compact dal versante del debito-Pil, serve un Pil nominale in crescita anche moderata, dopo aver raggiunto il pareggio di bilancio. E questo obiettivo si raggiunge anche con un filo di inflazione, come si intuisce.
I problemi sorgono quando il Pil nominale non cresce o addirittura si contrae, come accaduto ed accade in questi durissimi anni. Inoltre, come sappiamo (o dovremmo sapere), quanto più il differenziale tra costo medio del debito e tasso di crescita nominale del Pil è contenuto, per tenere in equilibrio il rapporto debito-Pil ci servirà un avanzo primario sempre più piccolo. Addirittura, in alcuni casi, (come segnala lo stesso Pisauro), potremmo sperimentare una riduzione del rapporto debito-Pil anche senza avere pareggio di bilancio ma addirittura con un piccolo deficit su Pil. Non è fantastico, tutto ciò?
Ovviamente serve che le condizioni di cui sopra si realizzino, cioè che il Pil nominale cresca, sia pure di poco, e che il costo medio del debito resti contenuto al di sotto di esso, magari anche con una certa dose di repressione finanziaria. Questi obiettivi si raggiungono evitando strette fiscali assassine e dando ai mercati messaggi “rassicuranti” circa la irreversibilità dell’Eurozona. Ed il resto viene da sé.
L’ultima magia con i numeri realizzata da Pisauro (oltre che dal buon senso) ci spiega che il 3 per cento annuo di riduzione del rapporto debito-Pil è una truculenta illusione ottica. Enfasi nostra:
«Per inciso, diversamente da quello che a volte si dice, la regola non richiede una riduzione del debito di 3 punti l’anno (un ventesimo della differenza tra 120 e 60) per vent’anni. Man a mano che il debito/Pil scende, la differenza tra il suo valore e la soglia del 60 per cento si riduce e, quindi, si riduce anche 1/20 di quella differenza. Naturalmente ciò allunga il periodo necessario per avvicinarsi al fatidico 60 per cento. Partendo dal livello attuale, la regola comporta per l’Italia nel 2033 un rapporto ancora all’80 per cento»
In pratica, la discesa è asintotica, quindi molto più morbida di quanto si pensi. Tanto dovevamo segnalarvi. Ora (forse) sapete che piegare il rapporto debito-Pil verso il fatidico livello di Maastricht può anche evitare di richiedere un bombardamento a tappeto sulle nostre città. A patto di “ribellarsi” ad ogni ulteriore manovra di consolidamento che appaia come un suicidio, per entità e portata. E di mandare al diavolo chi continua a dirvi che prima e più si taglia, prima la fiducia ricompare, portandoci in paradiso. Di religioni, col loro carico di sofferenze e punizioni inutili, ne abbiamo già troppe, nelle nostre vite.
1 commento
Non si finisce mai di trovare ladri e di scoprire furti contro l’Italia. Non si finisce mai di litigare nella politica ma sono guai che accadono quando si ruba chiedendo l’elemosina perché non è ciò che Dio vuole o permette. Non siamo ancora nella strada giusta e la colpa è delle maledette accise. Le accise sui carburanti sono un furto imposto da chi ha voluto l’elemosina per poi derubare gli italiani con una tassa sulle accise. La sola accisa che deve esistere per abbattere tutte le altre è l’accisa per riparare le strade perché difende gli interessi degli italiani. Tutto il resto è furto. Tantissimi guai del mondo democratico provengono dall’introduzione delle accise sui carburanti ed accade da più di mezzo secolo. Ogni tentativo di versarsi sulla sinistra o sulla destra porta al fallimento.
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