Che cosa vuole l’America dalla Russia? Questo è forse l’esercizio più complicato di questo tempo

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Federico Petroni
Fonte: Limes

Alle prese con la profonda crisi domestica, che esclude di lanciare il paese in guerra, Biden deve bilanciare il suo approccio alla Russia con quello verso Cina ed europei. Intanto gli Usa ottengono di scaricare sugli alleati parte dei costi per contenere Mosca.

 

Stabilire che cosa vuole l’America dalla Russia è forse l’esercizio più complicato di questo tempo. Eppure indifferibile, mentre Kiev è sotto attacco. Perché è tra i fattori che hanno innescato la guerra in Ucraina. La miccia risiede nella necessità russa di possedere una sfera d’influenza e nel desiderio degli ucraini di uscirne, ma l’atteggiamento statunitense ha dato un contributo decisivo. Se non altro perché non è affatto univoco: nei poteri washingtoniani non c’è mai stata unanimità su che cosa fare di Mosca nei trent’anni dalla caduta dell’Unione Sovietica. Di più, la mancanza di consenso ha alimentato la tensione, avvicinando il precipitare degli eventi. Il feroce assalto di Putin all’Ucraina riduce le differenze, non le cancella. Perché riguardano gli aspetti più intimi del paese, ossia il suo orientamento strategico e ciò di cui ha più paura. 


A prescindere dall’esito della guerra e dal grado di isolamento della Russia, ora che gli Stati Uniti assieme ai loro alleati le allestiscono attorno un nuovo assedio, per tenerla schiacciata nell’angolo in cui s’è cacciata da sola, è fondamentale tenere presenti questi vincoli. Inesorabili, si riproporranno.


2. Il dato geopolitico cruciale dell’America in questo inizio di XXI secolo è la schizofrenia della sua strategia. Deve attrezzarsi per la competizione con la Cina nell’Indo-Pacifico ma senza mollare l’Europa, alfa e probabilmente omega del potere statunitense nel mondo. La logica vorrebbe che per completare l’accerchiamento di Pechino si aprisse a Mosca. Proposito sempre naufragato per l’impossibilità di accettare le pretese d’influenza della Russia, che diminuirebbero o quantomeno complicherebbero il controllo americano sull’Europa. Col risultato che Washington finisce per mantenere la pressione su entrambi i rivali, unendoli invece di dividerli.


Le cose di recente si sono ulteriormente complicate. I fronti fra cui l’America è divisa non sono più solo due, ma tre. All’Europa e all’Indo-Pacifico si è aggiunta l’America stessa. L’imperativo è evitare il cedimento del fronte interno, cioè scongiurare che gli americani decidano di fare la guerra non alla Cina, non alla Russia ma a loro stessi. Come ogni tanto accade a questa nazione che periodicamente ridefinisce chi è e che cosa la tiene assieme menando le mani. Ma che lo fa oggi in un momento inedito, in una fase di relativo declino e già confusa su quale dei due teatri prediligere. Soprattutto, uno dei combustibili della discordia sociale è la tensione fra impero e nazione, cioè tra i costi derivanti dal mantenimento del primato mondiale e il rifiuto di una corposa parte della popolazione di sobbarcarseli. La tempesta interna al meglio distrae, al peggio consuma.


Che cosa c’entra questo con la Russia? Tutto. Nel nuovo millennio, ogni amministrazione ha cercato una distensione con Mosca, per ridurre gli oneri esteri e/o per avere le mani più libere contro la Cina. Puntualmente non c’è riuscita. Fra i motivi dei fallimenti, la tenace ostilità di parte degli apparati federali e del Congresso a ogni intesa col Cremlino, per deformazione professionale e per la certezza che l’avversario ne avrebbe approfittato per sottomettere i popoli limitrofi. 


È un segno evidente di mancanza di coesione interna. Col risultato che l’influenza americana in Europa ha continuato a espandersi verso est, ma senza pianificazione strategica, senza un progetto preciso, per inerzia, perché possibile, per approfittare delle opportunità. Fino a giungere in luoghi indifendibili. Come la stessa Ucraina, scivolata nell’orbita di Washington nel 2014 non per disegno intenzionale della superpotenza ma per la volontà di molti ucraini di uscire dalla dipendenza da Mosca. In parte aizzati dalle vaghe promesse fatte da Bush figlio nel 2008 circa un ingresso futuro nella Nato. 


Morire per Kiev non è mai stato nei piani concreti del Pentagono. L’Ucraina è semplicemente troppo lontana da raggiungere per uno schieramento militare centrato sull’Atlantico e sull’Europa occidentale. L’adesione ucraina alla Nato è diventata tanto più improbabile quanto più cresceva la Cina nell’Indo-Pacifico e quanto più aumentavano le richieste in patria di dismettere gravosi oneri imperiali.


In breve, gli americani si sono spinti troppo in profondità e con eccessiva leggerezza. Si può addirittura sostenere che quanto più procedevano a est in Europa tanto più calava l’accordo interno ai poteri washingtoniani sul da farsi. Discordia divenuta plateale sotto Trump, che gridava a gran voce di concentrarsi sulla Cina mentre congelava l’invio di armamenti in Ucraina. Situazione intenibile. Destinata a rompersi.


Carta di Laura Canali - 2021

Carta di Laura Canali – 2021


3. Isoliamo tre fattori che influenzano l’approccio degli Stati Uniti alla Russia. Primo, l’intensità della competizione con la Cina. Secondo, il grado di sopportazione dei sacrifici nella popolazione americana. Terzo, il mantenimento del controllo dell’Europa. Sono normalmente poco considerati nelle analisi, eppure hanno avuto un ruolo decisivo negli eventi che hanno portato alla guerra del 2022.


L’amministrazione Biden è arrivata al potere contando di tamponare le ferite che hanno prodotto fra le altre cose l’assalto al Congresso del 2021 e in generale una progressiva segregazione interna. Nel tempo libero, di imbastire la strategia per affrontare la Cina. Questa presidenza è stata la prima nel nuovo millennio ad arrivare alla Casa Bianca senza invocare apertamente una distensione col Cremlino. Impossibile farlo, quando la narrazione ufficiale l’addita di aver truccato le elezioni e di aver provato a intendersi con un eversore (Trump). Anzi, Mosca è stata inizialmente usata come mostro («Putin è un killer») per compattare gli europei, in particolare Francia e Germania, da riportare a bordo nella speranza di coinvolgerle nel contenimento della Cina.


Eppure, nemmeno Biden si è sottratto alla ricerca di un modus vivendi con Putin. Non per improvvisa russofilia ma proprio perché costretto a dedicarsi al fronte interno e a Pechino. Dalla tarda primavera 2021, ossia dall’inizio dell’accumulo di truppe ai confini ucraini, fra Mosca e Washington è iniziato un negoziato per allentare la pressione americana ai confini occidentali della Russia. Lo si evince dalle proposte filtrate in pubblico, fra cui una moratoria ventennale all’ingresso dell’Ucraina nella Nato, la condivisione di informazioni sulle esercitazioni presso le frontiere, la disponibilità a trattare sulla collocazione degli armamenti in Europa dell’Est. Non sarebbero mai arrivate senza la concreta speranza di ottenere qualcosa in cambio. Non solo, ovviamente, togliere la pistola dalla tempia dell’Ucraina. È assai probabile che si sia accennato anche a un allontanamento dalla Cina. A suggerirlo è il fatto che a dicembre Pechino si sia rivolta ai russi avvisandoli che gli americani stavano cercando di seminare discordia nella strana coppia 1. Nel timore che Putin si facesse ingolosire dagli incentivi di Washington.


La disponibilità americana a trattare con Mosca è stata evidente in un altro evento clamoroso del preguerra: l’evacuazione dell’Ucraina. Biden per mesi ha ripetuto che non avrebbe in nessun caso usato la forza, che non sarebbe intervenuto a difesa di Kiev. Poi ha dimostrato di fare sul serio, ritirando il personale militare e diplomatico nella repubblica ex sovietica. Di fatto, ha chiarito di essere pronto a riconoscere la neutralità dell’Ucraina. Ha dato via libera all’estremo tentativo di francesi e tedeschi di resuscitare gli accordi di Minsk, che prevedevano esattamente questo: un potere di veto interno all’Ucraina sull’adesione alla Nato (affidato alle repubblichette del Donbas), al posto di un veto internazionale dei paesi membri dell’Alleanza. In quelle ore febbrili, il governo di Kiev era sottoposto a immani pressioni affinché cedesse e accettasse l’inaccettabile, cioè di rinunciare di sua spontanea volontà a garanzie di difesa dalle mire russe.


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


In sostanza, l’America ha sgombrato il campo. Ripiego cautelativo, per non rischiare una guerra con la prima potenza nucleare del pianeta, come ha detto Biden in televisione: «Quando russi e americani iniziano a spararsi, quella è una guerra mondiale» 2. Ma rivelatore di qualcosa di ben più profondo.


4. La popolazione statunitense non è disposta a sacrificarsi per Kiev, non la considera fondamentale per la sicurezza, non la immagina nella propria sfera d’influenza, ritiene prioritario concentrarsi sull’Indo-Pacifico. I sondaggi effettuati prima della guerra sono talmente unanimi da non ammettere fraintendimenti. 


L’85% degli americani era contrario a inviare truppe in Ucraina, mentre il 58% difenderebbe Taiwan 3. Il 53% si sarebbe addirittura tenuto fuori dal negoziato con la Russia, parere unanime in tutte le fasce d’età a parte gli ultrasessantacinquenni 4. La linea di faglia pareva essere ideologica, più che generazionale: il 58% dei votanti democratici avrebbe aiutato l’Ucraina, mentre la maggioranza di elettori repubblicani e indipendenti propendeva per starne alla larga. Lo confermava un’altra rilevazione 5: i democratici ritenevano la Russia più minacciosa della Cina con uno scarto del 16%, mentre l’83% dei repubblicani pensava il contrario. A metà febbraio soltanto il 36% approvava il comportamento di Biden con Putin, ma nell’agosto 2021 quella percentuale era al 39%, segno che la crisi non ha inciso su opinioni già formate; in generale il tasso di gradimento del presidente prima delle ostilità prescindeva dagli eventi ucraini 6. 


L’opinione pubblica sembra divisa tra due istinti: il disprezzo per la Russia e la determinazione a tenersene lontani. La principale preoccupazione popolare è l’economia, con un’inflazione che non si vedeva da quarant’anni. La società è in preda a una profonda crisi d’identità, a una litigiosità che porta le persone a non riconoscersi più reciprocamente e a suddividersi in tribù. Covid, guerre culturali, disfunzionalità delle istituzioni, wokeism contro alt-right, divisione tra élite e classi popolari, Stati federati contro Stato federale, terrorismo domestico, diffusione dell’estremismo tra veterani e soldati in servizio: forse tutto questo non porterà alla guerra civile ma c’è materiale a sufficienza per distrarre la superpotenza nell’intero decennio, per impantanare i suoi processi decisionali, per impedire la coesione nazionale necessaria a ogni progetto geopolitico.


Questi impulsi inevitabilmente si riverberano nel fisiologico scontro dentro ai poteri americani. Quando la nazione inizia a suddividersi in tribù dotate di visioni del mondo diametralmente opposte, ne risente anche la scelta del rivale numero uno. Così l’America costiera a prevalenza democratica tende a demonizzare la Russia, mentre l’America interna di orientamento repubblicano tende a demonizzare la Cina. I politici seguono a ruota. Cresce la corrente vicina a Trump, incarnata per esempio dal senatore del Missouri Josh Hawley, che prima della guerra chiedeva apertamente di mollare l’Ucraina alla Russia perché inutile nel confronto con Pechino. Addirittura, la presentatrice del Daily Wire Candace Owens arriva a invitare a leggere la dichiarazione di guerra di Putin per convincersi che «i responsabili siamo noi» 7 (se non è crisi d’identità questa). A sua volta, l’amministrazione risponde accusando la controparte di essere gli utili idioti del nemico. È chiaro come rispetto alla guerra fredda manchi a una società già divisa il coagulo di un avversario unico. 


La presidenza è naturalmente portata a rappresentare le istanze popolari molto più delle burocrazie, più rigide perché rivolte agli interessi esterni. Se n’è avuta traccia nella crisi ucraina quando a gennaio Biden si è lasciato scappare che la risposta di americani e alleati ai russi in Ucraina non sarebbe stata durissima in caso di «incursione minore». Come già notato da Limes all’epoca 8, non era una gaffe, ma un segnale della propensione a trattare con Putin, nonché una traduzione ai massimi livelli dell’indisponibilità popolare a sostenere l’Ucraina a qualunque costo. La reazione degli apparati, molto più propensi alla fermezza verso Mosca, è stata immediata, imponendo al presidente un correttivo in termini di deterrenza, con l’invio di truppe in Est Europa, l’annuncio di piani per sanzioni e la sistematica diffusione d’intelligence sui preparativi bellici russi.


Un altro indizio in tal senso è venuto quando quella «incursione minore» si è poi verificata, cioè quando Putin ha riconosciuto l’indipendenza delle repubbliche di Donec’k e Luhans’k inviandovi truppe. La cerchia di Biden, dunque i suoi collaboratori politici, ha impiegato più di 12 ore per descriverla come «inizio di invasione». Nella speranza che il Cremlino intendesse chiuderla lì.


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


I tentennamenti sono proseguiti anche dopo l’attacco frontale. Per esempio sulle sanzioni e sull’invio di armamenti. Il giorno dell’inizio delle ostilità, Biden ha annunciato misure sorprendentemente blande. In seguito le ha sensibilmente rafforzate, ma in quelle ore si è esibito in un discorso mesto, del tutto privo del vigore necessario a unire un popolo in uno sforzo, benché non bellico, per piegare un avversario. Il presidente, visibilmente provato, teneva più a rassicurare gli americani che avrebbe fatto di tutto per evitare rialzi dei prezzi alle pompe di benzina.


Sarà dipeso dalla cautela prima di ottenere l’assenso degli alleati a sanzioni più dure oppure dall’attesa di verificare se gli ucraini avrebbero retto il primo impatto coi russi. Però il messaggio è chiaro: gli americani non sono più così pronti a sopportare sacrifici di «sangue e tesoro». Gli avversari prendono nota. Questo fattore probabilmente ha inciso anche nella decisione di Putin di andare all’assalto.


5. L’ultimo fattore da valutare è il mantenimento del controllo sull’Europa. Poco prima che scoppiasse la guerra, gli Stati Uniti hanno compiuto un arrocco. L’evacuazione dell’Ucraina è la prima volta in cui l’America arretra in Europa da quando ci è entrata per restarvi nel 1943. Non era mai successo sinora. A suo modo è un fatto storico. In attesa di conoscere l’esito del conflitto e di intuire lo sviluppo del confronto con la Russia, se ne possono abbozzare i contorni.


Gli Stati Uniti hanno volutamente ceduto terreno in Ucraina per consolidare le posizioni nella loro sfera d’influenza. Resisi conto che si stava scivolando verso la guerra, hanno diffuso pubblicamente e condiviso con i governi alleati una quantità spropositata d’intelligence. Li hanno sistematicamente consultati per coordinare ogni mossa successiva. Si sono astenuti da fughe in avanti curando attentamente i vari interessi nazionali nell’introdurre le sanzioni, come con l’iniziale ritrosia italo-tedesca a estromettere la Russia dallo Swift. 


Tutto ciò non per improvvisa eurofilia, ma perché i satelliti sono una delle risorse geopolitiche più importanti dell’America. Guai a nominarli Oltreoceano perché costano molto e si lamentano pure, però danno formidabili vantaggi: mobilitare risorse altrui per i propri scopi, difendersi lontano da casa, delegare interessi secondari. Andavano protetti da Putin, che ha sempre voluto dividerli fra loro e da Washington, puntando sulle diverse rappresentazioni geopolitiche della minaccia russa fra Europa dell’Ovest ed Europa del Nord-Est (più inglesi e olandesi). Il Cremlino continuava probabilmente a sperarci pure mentre sfondava in Ucraina, contando in un Blitzkrieg che avrebbe esaurito in fretta l’ondata di unione fra gli europei.


Altro motivo fondamentale: ottenere dagli europei stessi di sobbarcarsi i costi che da tempo gli americani invocano. Un primo risultato è stato subito ottenuto: sono i paesi del Vecchio Continente a pagare il grosso delle sanzioni, a impegnarsi in una costosa e rischiosa diversificazione energetica per ridurre al minimo la dipendenza dagli idrocarburi russi. Washington si aspetta poi che siano loro a contribuire a un muscoloso accerchiamento della Russia, con un notevole riarmo che inevitabilmente distoglierebbe risorse dalla spesa per la ripartenza post-Covid. Forse sarà persino disposta ad autorizzare non un esercito europeo (benché quasi certamente verrebbe definito tale) ma unità organizzate al di fuori della Nato con i paesi volontari: Francia e Polonia si candidano a guidarle. Questi Stati dovranno inoltre convivere con armamenti nucleari puntati verso di loro lungo la nuova cortina di ferro.


Carta di Laura Canali - 2021

Carta di Laura Canali – 2021


6. Che cosa vorrà ora l’America dalla Russia? In breve: finirla per poi dedicarsi alla Cina. La guerra all’Ucraina, a prescindere dal suo esito, imbaldanzisce quanti nei circoli washingtoniani invocavano la massima pressione su Mosca per indurla a una sconfitta strategica, propizia a una distensione alle condizioni degli americani. Mentre nel fallimentare negoziato del 2021-22 a dettare i tempi e a controllare l’escalation era il Cremlino, che si era messo in un angolo dal quale aveva costretto gli Stati Uniti a riconoscergli udienza e qualche concessione, oltre a esporre le fratture interne al loro campo. 


La demonizzazione di Putin rovescia i rapporti di forza. Autorizza lo strangolamento della Russia, facendola sanguinare sul campo di battaglia se la guerra si trascina oppure economicamente con le sanzioni alla Banca centrale per farle esaurire le riserve valutarie e spingerla alla bancarotta. Permette all’America di socializzare i costi del contenimento tra gli occidentali sdegnati. Disciplina alleati inaffidabili come la Germania o la Turchia. Consente di misurare il grado di fedeltà dei soci asiatici: Giappone, Australia e Corea del Sud si sono adeguati alle sanzioni, l’India no. Aggiunge un altro campo di pressione morale sulla Cina: ora Washington non perde occasione di rimproverare Pechino per non aver fatto desistere Mosca oppure di sottolineare con sguardo paternalistico che almeno inizialmente non sta aggirando le sanzioni.


Soprattutto, la riduzione ad Hitlerum di Putin sdogana definitivamente la politica del cambio di regime. Gli americani possono affermare di puntare a rimuovere il tiranno folle e sanguinario. Offrono così una via d’uscita a eventuali golpisti per negoziare una resa a condizioni meno sfavorevoli, fra cui necessariamente entrerebbe il distacco dalla Cina. (E se fosse Putin a proporre di mollare Pechino? Metterebbe in gran difficoltà Washington, incerta se stringere la mano dell’aggressore o perdere un’opportunità dorata.)


Di qui a concludere che gli americani hanno incoraggiato Putin a muovere su Kiev ce ne passa. Gli Stati Uniti non hanno voluto la guerra in Ucraina, hanno accettato la sfida. Si sono aggrappati a vantaggi oggettivi sulla Russia – superiorità informativa, controllo della narrazione, strapotenza finanziaria, rete di alleati – per compensare l’asimmetria nella propensione al ricorso alla forza. Ma il ritorno della guerra in Europa presenta notevoli complicazioni per Washington.


Innanzitutto, inevitabilmente la distrae dall’Indo-Pacifico. Le proverà tutte per volgere il fiore delle proprie forze verso la Cina facendo sì che siano gli europei a schierare le componenti terrestri necessarie ad arginare la Russia. Ma un nuovo dispositivo militare ha bisogno di tempo e attenzioni per essere imbastito, a prescindere dalla percentuale di risorse stanziate. Senza contare che Mosca ha carte per vendere cara la pelle. Schierando i missili ipersonici può creare l’equivalente moderno delle crisi degli euromissili. Attivando le armi nucleari può innescare nuove escalation. Le sue sofisticate capacità cibernetiche possono seminare il caos al di qua della nuova cortina di ferro. Gli americani hanno di che rispondere simmetricamente. Ma è sempre una questione di priorità.


Inoltre, la Cina potrebbe accogliere nella propria orbita la Russia. Per farlo dovrebbe andare contro l’ira di mezzo mondo e pure contro la sua, furente per l’azzardo putiniano. Servirebbe un incentivo potente. Per esempio, se si convincesse che, liquidata Mosca, gli Stati Uniti avrebbero finalmente le mani libere per ingabbiarla definitivamente. A Washington si inizia a discutere se evitare questo scenario telefonando a Pechino 9. Immaginiamo non per una tregua ma con una scelta: essere considerata alleata del mostro (con tutte le conseguenze del caso) o ottenere garanzie di distensione ma solo sul fronte economico-tecnologico, lasciando fuori Taiwan. I cinesi potrebbero abbozzare, almeno nel breve periodo.


Carta di Laura Canali - 2021

Carta di Laura Canali – 2021


Infine, un cambio di regime in Russia può innescare terremoti pari a quelli del crollo dell’Unione Sovietica. Uno Stato fallito armato di 7 mila testate atomiche sarebbe un incubo per tutti. A maggior ragione per un’America incapace di fare nation building in casa, figurarsi fra i cocci russi. Nel più brillante esercizio di pianificazione strategica a memoria d’americano, il cosiddetto Solarium svolto nell’estate 1953, il presidente Eisenhower approvò il piano del contenimento dei sovietici, oltre che perché era il suo preferito, spiegando che gli Stati Uniti non avrebbero avuto interesse a occuparsi delle spoglie dell’Urss sconfitta. Oggi in America non si vede in giro un Eisenhower.


Note:

1. E. Wong, «U.S. Officials Repeatedly Urged China to Help Avert War in Ukraine», The New York Times, 25/2/2022.

2. T. Finn, «Biden warns Americans in Ukraine to leave, says sending troops to evacuate would be “world war”», Nbc News, 10/2/2022.

3. «Nationwide Issues Survey», The Trafalgar Group, gennaio 2022, https://bit.ly/3M6LiU8

4. J. De Pinto, «Between Russia and Ukraine, Americans say either stay out or side with Ukraine – CBS News poll», Cbs News, 11/2/2022.

5. K. Frankovic, «Most Americans with opinions on Ukraine and Taiwan favor supporting them – even militarily», YouGov, 21/12/2021.

6. J.M. Jones, «Biden Ratings on Economy, Foreign Affairs, Russia Near 40%», Gallup, 21/2/2022.

7. Tweet del 22/2/2022, https://bit.ly/3K5cPDt

8. F. Petroni, «L’Ucraina, la Russia e la “gaffe” di Biden», canale YouTube di Limeshttps://youtu.be/ZvnJ_isEZ60

9. R.N. Haass, «The West Must Show Putin How Wrong He Is to Choose War», The New York Times, 24/2/2022.

Pubblicato in: LA RUSSIA CAMBIA IL MONDO – n°2 – 2022
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