“Paesi tuoi”, il primo Pavese americo-langarolo
“Paesi Tuoi” è il primo romanzo, pubblicato nel 1941, di Cesare Pavese. Lo scrittore aveva già scritto e non pubblicato “ Il carcere” (1939) e probabilmente una prima stesura de “La bella estate” (1940). Pavese darà fondo per la prima volta al più impellente dei suoi temi narrativi, quello della vita in campagna nelle Langhe e della violenza traumatica e originaria, inventandosi un linguaggio prosciugato dove il gergo locale trovava, con la mediazione degli scrittori americani che amava e che traduceva, una misura dialogata, diretta, “neorealistica”. Il libro infatti si andrà a collocare in quella che molti chiameranno “corrente neo realista”. A questo proposito Italo Calvino scrisse:
“Il «neorealismo» non fu una scuola. (Cerchiamo di dire le cose con esattezza). Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche – o specialmente – delle Italie fino allora più inedite per la letteratura.
Senza la varietà di Italie sconosciute l’una all’altra – o che si supponevano sconosciute –, senza la varietà dei dialetti e dei gerghi da far lievitare e impastare nella lingua letteraria, non ci sarebbe stato «neorealismo». Ma non fu paesano nel senso del verismo regionale ottocentesco. La caratterizzazione locale voleva dare sapore di verità a una rappresentazione in cui doveva riconoscersi tutto il vasto mondo: come la provincia americana in quegli scrittori degli Anni Trenta di cui tanti critici ci rimproveravano d’essere gli allievi diretti o indiretti. Perciò il linguaggio, lo stile, il ritmo avevano tanta importanza per noi, per questo nostro realismo che doveva essere il più possibile distante dal naturalismo. Ci eravamo fatta una linea, ossia una specie di triangolo: I Malavoglia, Conversazione in Sicilia, Paesi tuoi, da cui partire, ognuno sulla base del proprio lessico locale e del proprio paesaggio. (Continuo a parlare al plurale, come se alludessi a un movimento organizzato e cosciente, anche ora che sto spiegando che era proprio il contrario.)…..” (Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, scritta da Calvino per la sua riedizione nel 1964, quasi venti anni dopo la stesura del romanzo (1947), e che contiene un bilancio complessivo dell’autore sull’esperienza letteraria del Neorealismo.)
Paesi Tuoi è una novità, è come un sasso nello stagno della letteratura italiana, grazie ad uno stile scorciato e brutale, per cui il libro provoca non pochi attacchi da parte della cultura di regime perchè demistificava quei valori del mondo contadino e della famiglia sbandierati dall’ideologia fascista. Al contrario è esemplare e rappresentativa, la lettera di Vittorio Foa ai genitori, dal carcere di Civitavecchia, 11 agosto 1941
“Ho letto ed ho sentito dire cose entusiastiche sul libro Paesi Tuoi di Pavese. Forse lo leggerò. Leggetelo. Pare che non sia semplicemente un’imitazione di certe mode letterarie americane, ma un’opera originale e profonda sulla vita piemontese, anche se improntata a quei modi espressivi spicci e vigorosi a cui ci hanno ormai abituati Dos Passos e Steinbeck.”
Pavese nel 1946 chiarì la sua posizione sulla letteratura americana e i conseguenti riflessi su “Paesi Tuoi”, indica anche l’autore che lo influenzò in questo romanzo:
Hanno detto di me che imitavo i narratori americani, Caldwell, Steinbeck, Faulkner, e il sottinteso era che tradivo la società italiana. Si sapeva che avevo tradotto qualcuno di quei libri. Ne avevo tradotti a dire il vero, anche di altro genere, e anzi un critico una volta si dolse che invece di farmi influire da Joyce o dalla Stein avessi accolto il rozzo magistero dei primi. ….Dunque c’era in me qualcosa che mi faceva cercare gli americani, e non soltanto una supina accettazione. (Di passaggio l’americano che per il suo “tempo”, per il ritmo del narrare mi gravò sulle spalle davvero, nessuno al tempo di Paesi Tuoi lo seppe dire: era Cain).
Se Paesi Tuoi è stato collocato come un imprescindibile caposaldo della “corrente neo realista”, nondimeno nel libro “comincia a profilarsi quella poetica del mito che Pavese approfondirà con i suoi studi su Vico e che raggiungerà in seguito soluzioni più mature e consapevoli. Si può cogliere qui, più nettamente che nelle poesie, la contrapposizione, tra città e campagna, che simboleggia fin dall’inizio il dissidio vissuto dallo scrittore, combattuto tra diverse possibilità di appartenenza. Se la campagna rappresenta il mondo felice dell’infanzia, dell’evasione fantastica, del sogno, la città è invece il luogo della responsabilità degli adulti, del lavoro e dell’impegno, ma anche dell’infelicità e dell’angoscia….Solo nelle Langhe, sulle colline, Pavese si illude di trovare una pienezza di identificazione e di vita:..(Mariarosa Masoero e Giuseppe Zaccaria).
Berto (la voce narrante) e Talino, i due protagonisti di Paesi tuoi, si conoscono in carcere, dove occupano la stessa cella: Berto si trova lì per aver investito un ciclista e Talino perché accusato d’incendio doloso ad una cascina nella campagna piemontese, dove vive. Trascorsa la reclusione e scontata la pena, Talino insiste affinché Berto lo segua a Monticello, suo paesino d’origine, per occuparsi della trebbiatrice e delle altre macchine della famiglia in vista dell’imminente mietitura, e guadagnarsi così il pane. Tuttavia, il vero intento di Talino è quello di avere qualcuno che lo possa difendere dalla probabile vendetta del compaesano a cui aveva incendiato la cascina per motivi di gelosia nei confronti della sorella Gisella.
Berto lo segue a malincuore, arriva in campagna e si scontra con un mondo completamente diverso da quello cittadino:
Talino è il personaggio-simbolo “il villano” della campagna primordiale: goffo e scaltro, violento e bugiardo; Berto è il personaggio-esemplare dell’ambiente cittadino: più intelligente di Talino, sa muoversi con tranquillità in città, ma sente la propria vita come inutile, priva di valori: senza scopo e senza amici. Per questo si lascia trascinare da Talino in campagna, alla ricerca di un ambiente e di uomini diversi, di rapporti sinceri, anche se si rende immediatamente conto che è un estraneo a quel mondo contadino.
Il mondo contadino tuttavia non è il mondo felice dell’infanzia, del sogno ma un mondo primitivo, bestiale e di una violenza inaudita: frequentemente Pavese rappresenta i personaggi del romanzo come animali: all’uscita dal carcere Berto pensa ….. (Talino) “pareva tranquillo e neanche s’accorgeva, che andavamo come i buoi, senza sapere dove…”. Tantissimi sono i riferimenti al mondo animale “…erano giorni che si sfregava contro l’uscio come un gatto”, comincia ad innaffiare da lassù che pareva un cavallo”; “era allegro che sembrava il cane”; “mi guarda con l’occhio del merlo”; “Miliota con la voce da toro che ha lei”; “faceva gli occhi che sembrava un caprone”; “magari con tutte Talino aveva fatto il maiale”. Il gergo usato al culmine della tragedia è mostruoso: (Talino) “aveva fatto due occhi da bestia, dando dietro un salto, gli aveva piantato il tridente nel collo…” e sulla vittima Gisella: “l’ha scannata come un coniglio, peccato era un fisico sano, neanche i maiali resistono tanto…”.
Anche il sesso è brutale e violento: “c’era una collinaccia che sembrava una mammella”: le Langhe rappresentavano il mito del primitivo, legato ai motivi della terra-madre e del sesso. Gisella la sorella sensuale di Talino: “la meno manza delle sorelle” viene paragonata alla frutta. Questo estratto del libro descrive la vita contadina:
“Ero tanto stanco che, dormendo, mi pareva di cadere in un pozzo, e sopra si sporgevano Talino Gisella Pieretto tanta gente; io cadevo, cadevo sempre, mi pareva di cadere tutta la notte. Ero diventato vigliacco come non so cosa, e mentre cadevo allungavo la mano sotto per sentire se c’erano dei rastrelli piantati sul fondo. «Tanto se ci sono t’infilzi » dicevo nel sogno, e sentivo la vertigine e pensavo. Chi sa che rumore faccio quando cado nell’acqua.
Poi mi sveglio e non ero più io. «Anche se ti svegli, – pensavo – devi ancora salire su dal pozzo». Invece trovo tutto quieto e la collina lavata nel sole, e non un’anima in giro. Talino aveva avuto il criterio di andarsene senza svegliarmi. Mentre sonnecchiavo, sentivo qualche movimento nella stalla; poi, il caldo del sole sulle gambe. Allora mi torna in mente Gisella, e mi siedo sul materasso, e riprendo le forze.[…]
A mezzogiorno vengono a chiamarmi e si mangiò un’altra volta il minestrone di verdure, e le acciughe e il formaggio. Era così che quelle donne crescevano spesse, ma Gisella che adesso mi guardava ridendo, sembrava invece fatta di frutta. Perché, una volta finito, chiedo a Talino se non aveva delle mele, e lui mi porta in una stanza dove ce n’era un pavimento, tutte rosse e arrugginite che parevano lei.
Me ne prendo una sana e la mordo: sapeva di brusco, come piacciono a me.
— Sono le mele di Gisella, — fa Talino mentre torniamo a tavola.
— Perché? — chiedo a Gisella. — Covate le mele?
Non capivano mica. Invece il vecchio mi spiega che quando nasce una figlia si pianta un albero perché
cresca con lei.
— Quand’è nato Talino, chi sa cos’avete piantato, — dico. — O legna da bruciare o una zucca.
Salta su il gorba che mi aveva lustrato la macchina e dice: — Perché non si pianta una vigna per figlio?
Così si farebbe piú vino.
— Saremmo i padroni di tutta la collina a quest’ora, dice l’Adele.
Io guardavo Gisella e Miliota. Talino dice: — E per te, macchinista, cos’hanno piantato?
— Grane, — gli faccio, — grane e tabacco, questo sí: ma sui marciapiedi di Torino il tabacco non cresce e allora mi tocca comprarlo. Le grane le trovo per niente….”
L’attrazione di Berto per Gisella avrà un ruolo fondamentale nella tragedia che si andrà a compiere e che conclude il romanzo.
[…] Mi ricordo che Gisella guardava dritto nel grano, mentre bevevo. Guardava tenendomi il secchio a mani giunte, con fatica, come aveva fatto per Ernesto ma lui lo guardava, e con me stava invece come se godesse facendosi baciare. Quando ci penso, mi sembra così. O magari era soltanto lo sforzo, e il capriccio di avercene due intorno che bevevano. Non gliel’ho più potuto chiedere.
Ecco che saltano dal carro Talino e Gallea. Vengono avanti come due ubriachi, Talino il primo, con le paglie in testa e il tridente nel pugno.
Là si lavora e qui si veglia, fa con la voce di suo padre.
C’è chi veglia di notte e chi veglia di giorno, gli risponde Gisella. Ma lui dice: Fa’ bere, e si butta sul secchio e ci ficca la faccia. Gisella glielo strappa indietro e gli grida: No, così sporchi l’acqua. Dietro, vedo la faccia sudata dell’altro. Talino, fa Ernesto, non attaccarti alle donne.
Forse Gisella cedeva; forse in tre potevamo ancora fermarlo; queste cose si pensano dopo. Talino aveva fatto due occhi da bestia e, dando indietro un salto, le aveva piantato il tridente nel collo. Sento un grosso respiro di tutti; Miliota dal cortile che grida “Aspettatemi”; e poi Gisella lascia andare il secchio che m’inonda le scarpe. Credevo fosse il sangue e faccio un salto e anche Talino fa un salto, e sentiamo Gisella che gorgoglia: Madonna! e tossisce e le cade il tridente dal collo.
Mi ricordo che tutto il sudore mi era gelato addosso e che anch’io mi tenevo la mano sul collo, e che Ernesto l’aveva già presa alla vita e Gisella pendeva, tutta sporca di sangue, e Talino era sparito.
Vinverra diceva «d’un cristo, d’un cristo» e corre addosso ai due nel trambusto la lasciano andar giù come un sacco, a testa prima nel fango. – Non è niente, – diceva Vinverra, – è una goffa, àlzati su -. Ma Gisella tossiva e vomitava sangue, e quel fango era nero. Allora la prendiamo, io per le gambe, e la portiamo contro il grano e non potevo guardarle la faccia che pendeva, e la gola saltava perdendo di continuo. Non si vedeva più la ferita.
Poi arrivano le sorelle, arrivano i bambini e la vecchia, e cominciano a gridare, e Vinverra ci dice di stare indietro, di lasciar fare alle donne perché bisogna levarle la camicetta. – Ma qui ci vuole un medico, – dico, – non vedete che soffoca? – Anche Ernesto si mette a gridare e per poco col vecchio non si battono. Finalmente parte Nando e gli grido dietro di far presto, e Nando corre corre come un matto.
– Altro che medico, – dice Gallea che ci guardava dal pilastro – ci vuole il prete.
– E Talino? – fa Ernesto, con gli occhi fuori.
In quel momento l’Adele tornava col catino correndo e si fa largo e s’inginocchia. Mi sporgo anch’io e sento piangere e vedo la vecchia che le tiene la testa, e Miliota che piange e l’Adele le tira uno schiaffo. Gisella era come morta, le avevano strappata la camicetta, le mammelle scoperte, dove non era insanguinata era nuda. Poi la vecchia ci grida di non guardare. Mi sento prendere il braccio. – Dov’è Talino? – chiede ancora Ernesto.
Si fa avanti Gallea. – È scappato sul fienile, – ci dice tutto scuro, – gli ho levata la scala.
Ernesto voleva salire. Gallea lo tiene e lo tengo anch’io. Batto i piedi in un manico. Era il tridente di Gisella, tutto sporco sul manico ma non sulle punte. – Teniamo questo, – gli dico, – senz’un’arma Talino è un vigliacco.
Poi sentiamo di nuovo tossire. Meno male, era viva. Il fango dov’era caduta col secchio faceva spavento, così nero; e la strada fino al grano era sempre più rossa, più fresca. Vinverra ricomincia a bestemmiare coi bambini, e si guardava intorno: cercava Talino. Si alza l’Adele e dice a Pina: – tu va’ avanti -. Poi chiamano Ernesto che venga a aiutare. Io no, perché ero nuovo, e da quel momento mi cessò il sopraffiato e cominciarono a tremarmi i denti. La prendono Ernesto e Vinverra; e Miliota le teneva un braccio. La vecchia mandava via i bambini. Attraversano adagio il cortile, le avevano coperto le mammelle, entrano in cucina. Le vedo l’ultima volta i capelli che pendevano e una gamba scoperta. Poi la portano su.”
La morte di Gisella viene descritta come una sorta di sacrificio rituale. Quando Talino uccide Gisella, l’acqua del secchio portata per dissetare si rovescia e, con il sangue della vittima, impregna la terra. La tragedia si colloca al tempo della mietitura, nella calura dell’estate e nel momento di massima esplosione delle energie vitali della terra.
Chi non si scompone più di tanto, nonostante l’inaudita violenza del figlio, è il patriarca Vinverra, duro come un albero conficcato in collina, che poco dopo la tragedia ordinerà di continuare il lavoro, su quella terra arida che assetata ha bevuto e assorbito in fretta il sangue di Gisella.
Il dramma finale è la metafora dello scontro tra la natura viva, viscerale, della campagna (Talino)e la natura distaccata, calcolatrice, sorniona della città (Berto).
Il dramma finale di Paesi tuoi è il simbolo della bestialità dell’istinto umano. Il lettore assiste alla tragedia dal punto di vista di Berto, che si sente responsabile per non aver evitato la tragica fine di Gisella, ma al contempo rappresenta, il «modo di pensare» di Pavese che trova nella gelosia solo la miccia per esplodere, ma in realtà la tragedia ha cause e genesi molto più profonde: la povertà, la condizione misera della vita, l’abbrutimento dell’animo.
L’ultima spiaggia
Cesare Pavese, nato e cresciuto in collina, tra le vigne e i campi, ha avuto con il mare un rapporto difficile, urtante, come emerge con tutta evidenza dalle lettere scritte durante il soggiorno a Brancaleone (Reggio Calabria), il comune dove, nel 1935, lo scrittore era stato condannato dal regime fascista a tre anni di confino.
Pavese giunse a Brancaleone il 4 agosto del 1935, come raccontò in una missiva alla sorella Maria:
Cara Maria, sono arrivato a Brancaleone domenica 4 nel pomeriggio e tutta la cittadinanza a spasso davanti alla stazione pareva aspettare il criminale che, munito di manette, tra due carabinieri, scendeva con passo fermo diretto al Municipio.
Il viaggio di due giorni, con le manette e la valigia, è stata un’impresa di alto turismo. Ormai il nome della famiglia è irrimediabilmente compromesso: Le stazioni di Napoli e Roma le ho attraversate nel momento di maggior traffico e bisognava vedere come la gente faceva largo al sinistro terzetto. A Roma una bambina che va ai bagni, chiede al padre: ” papà , perchè nelle manette non fanno passare la corrente elettrica?” A Napoli non è mancata nemmeno la caduta sotto la croce, sotto forma di uno stramazzone – manette, valigia e tutto – preso sulla scalinata del cortile delle carceri. Allora un cireneo si è occupato della valigia.(…)
Qui ho trovato una grande accoglienza. Brave persone, abituate a peggio, cercano di tenermi buono e caro. (…) Qui, sono l’unico confinato. Che qui siano sporchi è una leggenda. Sono cotti dal sole. Le donne si pettinano in strada, ma viceversa tutti fanno il bagno. Ci sono maiali, e le anfore si portano in bilico sulla testa. (…) La grappa non sanno cosa sia. (…) La spiaggia è sul Mar Jonio, che somiglia a tutti gli altri e vale quasi il Po….
Insomma non chiedo che libri, soldi e saluti dalle amicizie. Ciau
Il mare non gli piace, come scrive all’amico Mario Sturani.
Il mare già così antipatico d’estate, d’inverno è poi innominabile, alla riva tanto giallo di sabbia smossa; al largo, un verde tenerello che fa rabbia. E pensare che è quello d’Ulisse: figurarsi gli altri.
Con il tempo e senza gli umori condizionati dalla costrizione della libertà e dalla mancanza di notizie da parte di Tina Pizzardo, la donna dalla voce roca, gli scritti di Pavese sul mare si addolciscono come in questo testo del 1938 (pubblicato nel 1948 con il titolo “Il Carcere”) in cui descrive l’esperienza del confino e della vita di mare con ironia:
“Stefano sapeva che quel paese non aveva niente di strano, e che la gente ci viveva, a giorno a giorno, e la terra buttava e il mare era il mare, come su qualunque spiaggia. Stefano era felice del mare: venendoci, lo immaginava come la quarta parete della sua prigione,una vasta parete di colori e di frescura, dentro la quale avrebbe potuto inoltrarsi e scordare la cella. I primi giorni persino si riempì il fazzoletto di ciottoli e di conchiglie. Gli era parsa una grande umanità del maresciallo che sfogliava le sue carte rispondergli: –Certamente.Purché sappiate nuotare. (Il carcere, p. 3).”
Ma altri mari si profilano all’orizzonte di Pavese, che tra il 6 novembre 1940 e il 18 gennaio 1941 scrive un breve romanzo “La spiaggia”, che viene pubblicato a puntate dalla rivista romana “Lettere d’oggi” diretta da G.B. Vicari e ripubblicato dall’Einaudi nel 1956 dopo la morte di P.
Pavese non considerò mai ”La spiaggia” un’opera riuscita: anzi ebbe a definirla, in una lettera a Giambattista Vicari, del 12 luglio 1941,«un romanzetto che poi nel corso della stesura si insabbiò e non merita certo di essere pubblicato per intero».
Ebbene quest’estate ho riletto, dopo quasi 50 anni, questo breve romanzo e l’ho ritrovato incantevole, scritto con uno stile lieve, elegante ed essenziale, rapido e conciso.
Il paesaggio muta dalle colline piemontesi alla spiaggia ligure (non identificata), anticipando i motivi più singolari della narrativa di P.
Chi racconta in prima persona è un uomo di più di trent’anni, un professore, che viene raggiunto durante l’estate da un amico, Doro, che si era sposato e aveva lasciato Torino per andare a vivere e lavorare a Genova.
A Doro è venuto il desiderio di fare una scappata in campagna nel suo paese di origine.
«In fondo a una campagna dove gli alberi apparivano piccini tant’era immensa, sorgevano le colline di Doro: colline scure, boscose, che allungano le loro ombre mattutine sui poggi gialli, sparsi di cascinali»
La gita nei luoghi natii, la sbronza con i giovani del luogo, le cantate notturne ed insolenti sotto le finestre di donne, il tafferuglio in piazza, sono pagine di amare baldorie di un paese, un mondo che sta per scomparire.
Successivamente Doro con l’amico fa ritorno al luogo di vacanza balneare dov’è la moglie, Clelia. Comincia la vita della spiaggia, l’ozio, i futili discorsi, i pigri intrighi sentimentali. Il professore, distaccato ed insieme attentissimo, sta dietro a tutti, pronto a cogliere uno stato d’animo, un’allusione, un segreto. Ma la vera protagonista è Clelia, una donna ironica, sfuggente ed intelligente, è amata dal marito Doro e corteggiata dall’amico/ingegner Guido, ma seduce anche a sua insaputa lo studente Berti. Il professore, nonostante sia legato a Doro da una profonda amicizia, ne è affascinato.
«Fin dal primo giorno avevo accennato per cortesia a scendere in acqua con lei, ma Clelia si era fermata guardandomi, con un sorriso ambiguo. – No, no, – aveva detto. Io, sorpreso, l’avevo guardata. – No, no, vado in acqua da sola. – Non c’era stato verso. Mi aveva spiegato che lei tutto faceva in pubblico, ma col mare se la vedeva da sola. –Ma è strano. – È strano, ma è così. – Nuotava bene e non era per imbarazzo. Era una sua decisione. – La compagnia del mare mi basta.Non voglio nessuno. Nella vita non ho niente di mio. Mi lasci almeno il mare. – Si allontanò nuotando senza muovere l’acqua, e al suo ritorno l’aspettavo sulla sabbia. Tornai sul discorso, e Clelia alle mie proteste aveva risposto con un mezzo sorriso. – Neanche con Doro? –chiesi. – Neanche con Doro – .»
La maggior parte dei commentatori di Pavese sostiene la tesi che lo scrittore sia misogino; ma in questo romanzo breve, come in altri libri di Pavese quali ”Tra donne sole” e ” La bella estate”, la figura femminile è quella che emerge ed è ben definita anche dal punto di vista psicologico, a differenza della maggior parte della letteratura italiana, in cui le donne sono spesso marginali e delineate in modo scialbo o poco credibile. Il racconto è fatto di piccole futilità balneari, in cui i maschi sono piuttosto volgari e indecenti:
e Guido: «Siccome tacevo, mi spiegò che anche a lui piaceva la compagnia di Clelia, ma che il fumo non è l’arrosto. – L’arrosto sarebbe? – Guido si mise a ridere. – Ci sono donne di carne, – disse, – e donne d’aria. Una boccata dopo pranzo fa bene. Ma bisogna prima aver mangiato».
Il narratore dimostra nei confronti di Clelia una partecipazione affettiva ed emotiva, di fatto Clelia è la rappresentazione della donna sublimata. La narrazione si interrompe all’improvviso ed in modo positivo, perchè Clelia rimane incinta e torna in città con il marito. E’ un finale singolare per Pavese, alla pulsione di morte prevale lo spirito di sopravvivenza – la vita.
Nel tempo l’ostilità nei confronti del mare scompare, resta tuttavia sempre estraneo al paesaggio interiore dello scrittore profondamente legato alle Langhe, la terra degli avi, l’acqua è quella dei fiumi della sua vita, il Belbo e il PO: Pavese a Gressoney, in un paesaggio montano, prova esattamente la stessa reazione che comunica a Fernanda Pivano in una lettera del 30 agosto 1942: «Ora io non ho ricordi di questi luoghi, di questa natura, di questa realtà : per me è un mondo gratuito, vuoto, oggettivo come persona veduta per la prima volta. È evidente che non ho nulla da dire su di esso.»
Sulla questione mi pare di una chiarezza abbagliante lo stesso Pavese nella poesia “Luna d’agosto” del volume Lavorare stanca (pubblicato nel 1943)
Al di là delle gialle colline c’è il mare,
al di là delle nubi. Ma giornate tremende
di colline ondeggianti e crepitanti nel cielo
si frammettono prima del mare. Quassù c’è l’ulivo
con la pozza dell’acqua che non basta a specchiarsi,
e le stoppie, le stoppie, che non cessano mai.
E si leva la luna. Il marito è disteso
in un campo, col cranio spaccato dal sole
– una sposa non può trascinare un cadavere
come un sacco -. Si leva la luna, che getta un po’ d’ombra
sotto i rami contorti. La donna nell’ombra
leva un ghigno atterrito al faccione di sangue
che coagula e inonda ogni piega dei colli.
Non si muove il cadavere disteso nei campi
né la donna nell’ ombra. Pure l’occhio di sangue
pare ammicchi a qualcuno e gli segni una strada.
Vengon brividi lunghi per le nude colline
di lontano, e la donna se li sente alle spalle,
come quando correvano il mare del grano.
Anche invadono i rami dell’ulivo sperduto
in quel mare di luna, e già l’ombra dell’albero
pare stia per contrarsi e inghiottire anche lei.
Si precipita fuori, nell’orrore lunare,
e la segue il fruscio della brezza sui sassi
e una sagoma tenue che le morde le piante,
e la doglia nel grembo. Rientra curva nell’ombra
e si butta sui sassi e si morde la bocca.
Sotto, scura la terra si bagna di sangue.
Nel dopoguerra il rapporto con il mare resta sempre difficile e contraddittorio, ma quando torna a scrivere versi, lo farà per le due donne amate, Bianca Garufi “Afrodite è venuta dal mare” (sul diario il 27 novembre 1945) e Constance Dowling. Nelle poesie a loro dedicate ricorre l’eco del mare:
Terra rossa terra nera,
tu vieni dal mare,
dal verde riarso,
dove sono parole
antiche e fatica sanguigna
e gerani tra i sassi –
non sai quanto porti
di mare parole e fatica,
tu ricca come un ricordo,
come la brulla campagna,
tu dura e dolcissima
parola, antica per sangue
raccolto negli occhi;
giovane, come un frutto
che è ricordo e stagione –
il tuo fiato riposa
sotto il cielo d’agosto,
le olive del tuo sguardo
addolciscono il mare,
e tu vivi rivivi
senza stupire, certa
come la terra, buia
come la terra, frantoio
di stagioni e di sogni
che alla luna si scopre
antichissimo, come
le mani di tua madre,
la conca del braciere.
[27 ottobre 1945]
Questa poesia fa parte delle nove poesie che compongono “La terra e la morte” di Cesare Pavese, apparsa per la prima volta nella rivista «Le tre Venezie», n. 4-5-6, Padova 1947. Seguì una nuova edizione postuma in “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, Einaudi, Torino 1951, e successivamente in “Poesie edite e inedite”, a cura di Italo Calvino, Einaudi, Torino 1962.
Negli anni del dopoguerra, gli ultimi della vita dello scrittore, Pavese soggiornerà per brevi periodi, in località balneari turistiche, ne Il diavolo sulle colline, sul filo di un ricordo balneare, il narratore esplicita il motivo per cui il mare resterà sempre per lui un elemento estraneo:
«Finiti i bagni, non aveva stretto amicizia se non col padrone di qualche bettola e con vecchi pensionati.
Io di quella spiaggetta nascosta mi ricordai a lungo: In fondo, il mare così grande e inafferrabile non mi diceva gran che; mi piacevano i luoghi ristretti che avevano una forma e un senso – insenature, viottoli, terrazze, uliveti.»
, Pavese, ormai entrato nella fase più acuta della crisi, passa alcuni giorni dell’agosto 1950 dapprima a Forte dei Marmi in casa di Adolfo Occhetto, dirigente amministrativo della casa editrice Einaudi. Il figlio Achille Occhetto (ultimo segretario del PCI) ricorda «La cosa più strana è stato quello che è accaduto quando se ne andò via. Una settimana dopo ci è arrivata una cartolina, che a noi tutti parve curiosa, anche se però, ovviamente, subito non ci pensammo. C’ era scritto: “Vi ringrazio per l’ ospitalità e auguro a tutti voi una lunga vita”. Ora: uno che è stato in vacanza non è che va via e augura lunga vita.
Poi a Bocca di Magra nella casa di villeggiatura di Giulio Einaudi, a una ragazza “Pierina” Romilda Bollati (figlia di un altro dirigente della Einaudi) di 18 anni scrive biglietti “Ogni tuo ballo è un giorno di meno nella mia vita. Me ne restano pochi. P” e almeno tre lettere in cui manifesta l’intenzione di suicidarsi, lettere strane e significative per comprendere il suo stato d’animo: “C’è una tale sproporzione di stati d’animo tra noi due che le mie stesse parole mi tornano in bocca e mi feriscono”…”Penso che sia la musica in cui tu balli a scavarmi dentro a scrollarmi il sangue a farmi fare la faccia feroce (ma è la faccia feroce di un suicida, non altro)”… e ancora “Il motivo immediato è il disagio di questa rincorsa dove, non ballando e non guidando, resto sempre perdente. Io sono, come si dice, alla fine della candela” “Tu sei giovane, incredibilmente giovane, sei quello che io ero a 28 anni quando, risoluto a uccidermi per non so qual delusione, non lo feci… La vita mi era parsa orribile, ma trovavo ancora interessante me stesso. Ora è l’inverso: so che la vita è stupenda, ma che io ne sono tagliato fuori… Posso dirti che non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo?” e infine “ Non si può bruciare la candela da due parti, e nel caso mio l’ho bruciata tutta da una parte sola e la cenere sono i libri che ho scritto”.
Poco dopo Pavese avrebbe chiuso con la vita.
Feria d’agosto e i racconti di Cesare Pavese
Feria d’agosto, pubblicato nel 1946, è una raccolta di ventinove racconti, tutti narrati in prima persona, molto suggestivi e curati nella prosa, divisi in tre sezioni, ognuna delle quali è dedicata ad un luogo e ad una diversa fase della vita.
Pavese da poco aveva pubblicato il suo primo romanzo Paesi tuoi (1941), ma aveva già scritto e non pubblicato Il carcere (1939), La bella estate (1940) e La spiaggia (1941).
Feria d’agosto è un libro di transizione, vengono messi a fuoco intuizioni critiche o prese di coscienza attinenti alla poetica e maturazione di Pavese, ponendola in rapporto con i suoi successivi sviluppi.
Il libro è diviso in tre parti: Il mare (l’adolescenza), La città, (l’età matura) La vigna, dove il divario fra uomo e ragazzo si fa dramma nel ricordo di un’età divenuta mito.
Nella prima parte, i protagonisti sono tutti adolescenti con i problemi della loro età: quando si è ancora divisi tra il gioco e la voglia di confrontarsi in contrapposizione agli adulti, quando alla persistenza di alcune paure infantili fa da contraltare una nascente baldanza, derivante dal desiderio di nuove scoperte. “È la parte dedicata al mare, un mare che incarna la voglia di crescere e di scoprire il mondo, che rappresenta una meta agognata da raggiungere per uscire finalmente dal piccolo universo in cui si è relegati e in cui usanze, riti e abitudini si ripetono rassicuranti ma al contempo monotoni.” (Enrico Caramuscio.)
Uno dei racconti brevi pavesiani più conosciuti è Il nome: due ragazzi che se ne vanno per le colline temono che la vipera venga a conoscere il nome di uno di loro, gridato dalla madre in ansia, e poi lo vada a cercare. Di questa parte abbiamo scelto “Fine d’agosto”: nel racconto c’è un riferimento autobiografico e misogino … __C’è qualcosa nei miei ricordi d’infanzia che non tollera la tenerezza carnale di una donna . E compare in modo inquietante l’ossessione dello scrittore per la donna/carne: “Ma io ormai non potevo più perdonarle di essere donna: una che trasforma il sapore di vento in sapore di carne”.
da Feria d’agosto – Cesare Pavese
FINE D’AGOSTO
Una notte di agosto, di quelle agitate da un vento tiepido e tempestoso, camminavamo sul marciapiede indugiando e scambiando rade parole. Il vento che ci faceva carezze improvvise, m’impresse su guance e labbra un’ondata odorosa, poi continuò i suoi mulinelli tra le foglie già secche del viale. Ora, non so se quel tepore sapesse di donna o di foglie estive, ma il cuore mi traboccò improvvisamente, tanto che mi fermai.
__Clara attese, semivoltata, che riprendessi a camminare. Quando alla svolta c’investì un’altra folata, Clara fece per soffermarsi, senza levare gli occhi, un’altra volta in attesa. Davanti al portone, mi chiese se volevo far luce o passeggiare ancora. Restai un poco fermo sul marciapiede – ascoltai il fruscìo d’una foglia secca trascinata sull’asfalto – e dissi a Clara che salisse, l’avrei subito seguita.
__Quando, dopo un quarto d’ora, giunsi di sopra, mi sedetti a fumare alla finestra fiutando il vento, e Clara mi chiese attraverso la porta della stanza se mi ero calmato. Le dissi che l’aspettavo e, un istante dopo, mi fu accanto nella stanza buia, si appoggiò contro la mia sedia e si godeva il tepore del vento senza parlare. In quell’estate eravamo quasi felici, non ricordo che avessimo mai litigato e passavamo lunghe ore accanto prima di addormentarci. Clara capisce tutto, e a quei tempi mi voleva bene; io ne volevo a lei e non c’era bisogno di dircelo. Eppure so adesso che le nostre disgrazie cominciarono quella notte.
__Se Clara si fosse almeno irritata per la mia agitazione, e non mi avesse atteso con tanta docilità. Poteva chiedermi che cosa mi fosse preso, poteva tentare lei stessa d’indovinarlo, tanto più che l’aveva intuito – ma non tacere, come fece, piena di comprensione. Io detesto la gente sicura di sé, e per la prima volta detestai Clara.
__Quel turbine di vento notturno mi aveva, come succede, inaspettatamente riportato sotto la pelle e le narici una gioia remota, uno di quei nudi ricordi segreti come il nostro corpo, che gli sono si direbbe connaturati fin dall’infanzia. La spiaggia dove sono nato si popolava nell’estate di bagnanti e cuoceva sotto il sole. Erano tre, quattro mesi di una vita sempre inaspettata e diversa, agitata, scabrosa, come un viaggio o un trasloco. Le casette e le viuzze formicolavano di ragazzi, di famiglie, di donne seminude al punto che non mi parevano donne e si chiamavano le bagnanti. I ragazzi invece avevano dei nomi come il mio. Facevo amicizia e li portavo in barca, o scappavo con loro nelle vigne. I ragazzi delle bagnanti volevano stare alla marina dal mattino alla sera: faticavo per condurli a giocare dietro i muriccioli, sui poggi, su per la montagna. Tra la montagna e il paese c’erano molte ville e giardini, e nei temporali di fine stagione le burrasche s’impregnavano di sentori vegetali e torridi che sapevano di fiori spiaccicati sui sassi.
__Ora, Clara lo sa che le folate notturne mi ricordano quei giorni. E mi ammira – o mi ammirava – tanto, che sorride e tace quando vede questo ricordo sorprendermi. Se gliene parlo e faccio parte, quasi mi salta al collo. È per questo che non sa che quella notte mi accorsi di detestarla.
__C’è qualcosa nei miei ricordi d’infanzia che non tollera la tenerezza carnale di una donna – sia pure Clara. In quelle estati che hanno ormai nel ricordo un colore unico, sonnecchiano istanti che una sensazione o una parola riaccendono improvvisi, e subito comincia lo smarrimento della distanza, l’incredulità di ritrovare tanta gioia in un tempo scomparso e quasi abolito. Un ragazzo – ero io? – si fermava di notte sulla riva del mare – sotto la musica e le luci irreali dei caffè – e fiutava il vento – non quello marino consueto, ma un’improvvisa buffata di fiori arsi dal sole, esotici e palpabili. Quel ragazzo potrebbe esistere senza di me; di fatto, esistette senza di me, e non sapeva che la sua gioia sarebbe dopo tanti anni riaffiorata, incredibile, in un altro, in un uomo. Ma un uomo suppone una donna, la donna; un uomo conosce il corpo di una donna, un uomo deve stringere, carezzare, schiacciare una donna, una di quelle donne che hanno ballato, nere di sole, sotto i lampioni dei caffè davanti al mare. L’uomo e il ragazzo s’ignorano e si cercano, vivono insieme e non lo sanno, e ritrovandosi han bisogno di star soli.
__Clara, poveretta, mi volle bene quella notte come sempre. Forse me ne volle di più, perché anche lei ha le sue malizie. Noi giochiamo qualche volta a rialzare fra noi il mistero, a intuire che ciascuno è per l’altro un estraneo, e così sfuggire alla monotonia. Ma ormai io non potevo più perdonarle di essere una donna, una che trasforma il sapore remoto del vento in sapore di carne.
La seconda parte della raccolta ci porta a scoprire la città. Il luogo dove si fa conoscenza, esperienza. Il luogo dove la gioventù è chiamata a confrontarsi con il mondo esterno. La grande scoperta è la notte, la solitudine delle passeggiate in città nelle sere d’estate.
L’estate
Di tutta l’estate che trascorsi nella città semivuota non so proprio che dire. Se chiudo gli occhi, ecco che l’ombra ha ripreso la sua funzione di freschezza, e le vie sono appunto questo, ombra e luce, in un passaggio alternato che investe e divora. Amavamo la sera, le nubi torride che pesano sulle case, l’ora calma. Del resto, anche la notte ci faceva l’effetto di quella breve penombra che inghiotte chi dal gran sole rientra in casa. C’incontravamo sull’imbrunire, ed era già mattino, era un’altra giornata tranquilla. Ricordo che la città era tutta nostra – le case, gli alberi, i tavolini, le botteghe. Nelle botteghe e sui banchi rivedo montagne di frutta. Ricordo il profumo caldo e le voci nelle vie. So dove cade a una cert’ora il riquadro di sole sul mattonato della stanza.
Di noi, invece, e delle nostre parole non ritrovo quasi nulla. So che mangiai molta frutta; che mi assopii tante volte abbracciato e abbracciando; che attardandomi a sera per via, godevo i passanti, i colori, gli istanti, sapendomi atteso. So che le mie mani e il mio corpo erano divenuti una cosa tenera e viva, come appunto le nuvole, l’aria e le colline in quelle sere d’estate. Tutto questo mi fu familiare, e direi quotidiano se il succedersi di quei giorni non mi paresse tuttora illusorio, tanto che a volte l’intera stagione mi riesce, a ripensarci, una sola giornata che vissi in comune. Questa giornata era dentro di me, e la compagnia che finì con l’estate le dava un senso e una voce. Quando ci lasciavamo non ci pareva di separarci, ma di andare ad attenderci altrove, come a un convegno, come in fondo alle vie scompare e riappare la collina. La vedevamo ogni sera coprirsi d’ombre, e ci piaceva tanto nella sua calma che divenne una delle cose della stanza, divenne parte della finestra e della via. Nella notte breve non scompariva, tant’era vicina. La giornata cominciava e finiva con lei. Mangiavamo la frutta guardandola. Adesso non resta che la collina e la frutta.
La città semivuota mi pareva deserta. Il gioco dell’ombra e del sole l’animava tanto, ch’era bello fermarsi e guardare da una finestra sul cielo e su un ciottolato. Sapere che oltre alla luce e all’ombra fresca c’era qualcosa che mi stava a cuore e rinasceva col sole e affrettava la notte, dava un senso a ogni incontro che avvenisse su quelle strade. C’erano gli alberi che bevevano il sole, c’erano i gridi delle donne, c’era un grande silenzio. Uscivo dalla stanza presentendo altri sentori e la frescura della sera. Potevo guardare e amare ogni cosa.
A volte, in tutt’altra parte della città, c’era una piazza che mi attendeva, con le sue nuvole e il suo calmo calore. Nessuno l’attraversava, nessuna finestra s’apriva, ma s’aprivano gli sfondi delle vie deserte in attesa di una voce o di un passo. Se tendevo l’orecchio, nella piazza il tempo si fermava. Era giorno alto. Più tardi, a sera, ci pensavo e la ritrovavo immutata.
In quelle sere l’estate non perdeva vigore, giacché sapevamo che ciascuno di noi pensava all’altro. Ogni incontro consueto mi toccava nel cuore questa certezza, muovendola appena, e la faceva traboccare. Allora s’increspava la luce, che vedevo come un giovane ricordo, quasi rientrassi d’improvviso in un’estate diversa, di là dai corpi e dalle voci, e la stanza che avevo lasciato mi fosse valsa come un’ombra che discreta mi riaccoglieva. Ogni cosa, accadendo, si faceva ricordo, perché accadeva dentro di me prima che fuori. Era come se la lunga giornata l’andassi facendo io, e perciò niente, della stanza e della sera, mi era estraneo; nemmeno il corpo che accoglieva il mio, e la voce sommessa.
Una sera le nuvole si addensarono, e piovve tutta la notte. Io attendevo a una finestra che non era la nostra, e gli spruzzi e le gocciole mi giungevano in faccia. Sapevo che l’indomani la luce sarebbe stata più viva e più fresca l’ombra, e non ebbi fretta di rientrare dov’ero aspettato. Era l’ultima pioggia dell’estate, e cambiò il colore della città. Avrei potuto attendere, al riparo, ma discesi sotto la pioggia e percorsi altre strade. Pensavo intensamente alla nostra finestra, ci pensavo e me ne allontanavo. La collina era in fondo alle strade, oscurata e avvicinata dall’ombra accresciuta. Vidi sotto la pioggia davanzali e portoni che avevo sempre visto nel sole. Tutto era fresco e vicino, e veramente stavolta la mia città era deserta. Traversai molte piazze. Quando rientrai, innamorato e pensando alle strade dell’indomani, trovai la stanza vuota, e tale fu fino a notte. Mi misi allora alla finestra.
Stemmo insieme ancora molti giorni, fin che durò la stagione, ma entrambi sapevamo che tutto sarebbe finito entro l’autunno. Così fu infatti.
Nella terza parte i brani sono prossimi al saggio o alla prosa d’arte. Pavese rivela la sua concezione “del mito, del simbolo o d’altro” : «Ora, da bambini il mondo s’impara a conoscerlo non – come parrebbe – con immediato e originario contatto alle cose, ma attraverso i segni di queste: parole, vignette, racconti. […] le cose si scoprono, si battezzano, soltanto attraverso i ricordi che se ne hanno.»
Lo scrittore scrive di ‘ricerca del tempo perduto’ e di ‘tempo ritrovato’, con un chiaro riferimento a Proust e nel racconto L’adolescenza scrive:
«Il giorno in cui ci si accorge che le conoscenze e gli incontri che facciamo nei libri, erano quelli della nostra prima età, si esce d’adolescenza e s’intravede se stessi. […] Nulla è mutato nelle cose e persone della nostra piccola esistenza, siamo mutati noi: attraverso lo stupore che ciò che della vita abbiamo veduto e sentito sia lo stesso che muove e accende le alte fantasie dei libri, abbiamo capito di ammirare: abbiamo scoperto, afferrato un mondo, il nostro mondo. […] Nessun ragazzo, nessun uomo ammira un paesaggio prima che l’arte, la poesia – una semplice parola anche – gli abbiano aperto gli occhi. Ognuno ripensi a un’ora estatica della sua fanciullezza, e troverà sotto l’entusiasmo e la rivelazione, la traccia di gusto, libresca o no, che la sua qualsiasi cultura gli ha segnato.»
I luoghi mitici in Pavese sono quelli dell’infanzia: un prato, una selva, una vigna. Dove sono accaduti fatti che li hanno resi unici una volta per tutte. Una vigna diventa “una porta magica”, “un teatro” dove “qualcosa d’inaudito è accaduto o accadrà”.
La vigna
“Una vigna che sale sul dorso di un colle fino a incidersi nel cielo, è una vista familiare, eppure le cortine dei filari semplici e profonde appaiono una porta magica. Sotto le viti è terra rossa dissodata, le foglie nascondono tesori, e di là dalle foglie sta il cielo. È un cielo sempre tenero e maturo, dove non mancano – tesoro e vigna anch’esse – le nubi sode di settembre. Tutto ciò è familiare e remoto, infantile, a dirla breve, ma scuote ogni volta, quasi fosse un mondo. La visione s’accompagna al sospetto che queste non siano se non le quinte di una scena favolosa in attesa di un evento che né il ricordo né la fantasia conoscono. Qualcosa di inaudito è accaduto o accadrà su questo teatro. Basta pensare alle ore della notte, o del crepuscolo, in cui la vigna non cade sotto gli occhi e si sa che si distende sotto il cielo, sempre uguale e raccolta. Si direbbe che nessuno vi è mai camminato, eppure c’è chi la lavora a tralcio a tralcio e alla vendemmia è tutta gaia di voci e di passi. Ma poi se ne vanno, ed è come una stanza in cui da tempo non entra nessuno e la finestra è aperta al cielo. Il giorno e la notte vi regnano; a volte vi fa fresco e coperto – è la pioggia -, nulla muta nella stanza, e il tempo non passa. Neanche sulla vigna il tempo passa; la sua stagione è settembre e torna sempre, e appare eterna. Solamente un ragazzo la conosce davvero; sono passati gli anni, ma davanti alla vigna l’uomo adulto contemplandola ritrova il ragazzo. Il sospetto di ciò che deve – che è dovuto – accadere, la mantiene la stessa e risuscita nel ricordo l’infanzia. Ma nulla è veramente accaduto e il ragazzo non sapeva di attendere ciò che adesso sfugge anche al ricordo. E ciò che non accadde al principio non può accadere mai più.
Se non forse sia stata proprio questa immobilità a incantare la vigna. Un sentiero l’attraversa all’insù, dimezzando i filari e tagliando una porta sul cielo vicino. Il ragazzo saliva per questi sentieri, vi saliva e non pensava a ricordare; non sapeva che l’attimo sarebbe durato come un germe e che un’ansia di afferrarlo e conoscerlo a fondo l’avrebbe in avvenire dilatato oltre il tempo. Forse quest’attimo era fatto di nulla, ma stava proprio in questo il suo avvenire. Un semplice e profondo nulla, non ricordato perché non ne valeva la pena, disteso nei giorni e poi perduto, riaffiora davanti al sentiero, alla vigna, e poi si scopre infantile, di là dalle cose e dal tempo, com’era allora che il tempo per il ragazzo non esisteva. E allora qualcosa è davvero accaduto. È accaduto un istante fa, è l’istante stesso: l’uomo e il ragazzo s’incontrano e sanno e si dicono che il tempo è sfumato. L’uomo sa queste cose contemplando la vigna. E tutto l’accumulo, la lenta ricchezza di ricordi d’ogni sorta, non è nulla di fronte alla certezza di quest’estasi immemoriale. Ci sono cieli e piante, e stagioni e ritorni, ritrovamenti e dolcezze, ma questo è soltanto passato che la vita riplasma come giochi di nubi. La vigna è fatta anche di questo, un miele dell’anima, e qualcosa nel suo orizzonte apre plausibili vedute di nostalgia e speranza. Insoliti eventi vi possono accadere che la sola fantasia suscita, ma non l’evento che soggiace a tutti quanti e che tutti quanti abolisce: la scomparsa del tempo. Questo non accade, è: anzi è la vigna stessa.
Davanti al sentiero che sale all’orizzonte, l’uomo non ritorna ragazzo: è ragazzo: Per un attimo, in cui giunge a far tacere ogni ricordo, si trova entro gli occhi la vigna immobile, istintiva, immutabile, quale ha sempre saputo di avere nel cuore. E non accade nulla, perché nulla può accadere che sia più vasto di questa presenza. Non occorre nemmeno fermarsi davanti alla vigna e riconoscerne i tratti familiari e inauditi. Basta l’attimo dell’incontro e già il ragazzo e l’uomo adulto han cominciato il loro dialogo che, ricco di giorni, dall’inizio non muta.”
Per Pavese questa raccolta di prose e racconti non era un punto di arrivo, ma occupava un posto nella sua ricerca letteraria, infatti scrisse nel risvolto della prima edizione di Feria d’agosto:
“ Non sempre si scrivono romanzi. Si può costruire una realtà accostando e disponendo sforzi e scoperte che ci piacquero ognuno per sé, eppure siccome tendevano a liberare da una stessa ossessione, fanno avventura e risposta. Qui, come in tutte le avventure, si è trattato di fondere insieme due campi d’esperienza. E la risposta potrebbe essere questa: solamente l’uomo fatto sa essere ragazzo.”
Postumo nel 1961, venne pubblicato il libro “Racconti” con l’aggiunta di brevi narrazioni mai pubblicate da Pavese.
L’amore postale – Pivano
Tema: Descrivete come passate le vacanze e quali sono i vostri propositi per l’avvenire
Come sono belle le nostre passeggiate in bicicletta per i dintorni di Torino! Telefono tutte le mattine appena sveglio al mio amico Nando, e ci vediamo poi alle dieci e mezzo, ora nella quale scende infallibilmente. Mi piace quando lo vedo sbucare dal portone, quasi sempre con un vestito diverso dall’ultima volta, ma i colori che in lui preferisco sono il bianco e il rosso vivo, e trovo che gli stanno tanto bene. Allora inforchiamo le biciclette, e Nando, che è più ordinato di me, si rimbocca sempre i calzoni con cura. Ci dirigiamo verso i dintorni di Torino, e pedalando con quanto fiato abbiamo in corpo parliamo soprattutto dei nostri studi, perché noi durante le vacanze riprendiamo sovente in mano i libri, e a Nando in modo speciale piace ritornare con il pensiero ai bei giorni che trascorremmo in scuola. Io frequento Nando perché so che da lui posso imparare mille cose buone: mai dalla sua bocca escono frasi sconvenienti né quelle sudicerie che purtroppo avvelenano l’anima di tanti ragazzi della nostra età. Con Nando parliamo invece di ricordi di scuola e dei nostri professori, e, pur sapendo, che non bisogna godere del male di nessuno, qualche volta facciamo grandi risate insieme, al pensiero di quei nostri compagni che, non avendo studiato durante l’anno, ora devono trascorrere le vacanze in una stanza buia a preparare gli esami di riparazione. Com’é bello essere stati promossi! Ma Nando mi fa anche delle confidenze, specialmente dopo una lunga pedalata, quando balziamo di sella sul ciglio della strada, e ci sediamo su un muricciolo al margine del bosco, che é ormai il “nostro” muricciolo. Restiamo così sul margine della strada, e bene in vista, perché che cosa direbbero i passanti se ci vedessero scomparire tra le piante? Del male bisogna evitare anche l’apparenza, e la gente é già troppo disposta a malignare. Se due ragazzi si nascondono, “ecco” dice il mondo “ne combinano qualcuna, chi sa una monelleria o anche qualcosa di più grave”. E noi abbiamo deciso, una volta per sempre, di non nasconderci e di fare ogni cosa alla luce del sole.
Ma dicevo che Nando mi fa delle confidenze e io gli faccio le mie, e questo ê uno dei momenti più belli dell’amicizia. Nando mi dice cose che mi lasciano sbalordito, perché intelligente e pieno di cuore com’è, vorrebbe tranquillizzare i suoi genitori e mettere se stesso al riparo dai pericoli della vita. Insomma, parla di sposarsi e gli pare di aver perso già troppo tempo. Io gli dico che aspetti almeno un altr’anno e finisca prima la scuola, ma Nando comincia ad affannarsi e dice che vuol fare come dice. Io so bene che tutti noi ragazzi abbiamo di queste idee bizzarre perché stiamo appunto attraversando l’adolescenza che è già un’età piena di pericoli e di tentazioni, e fortunato chi se la può cavare come ce la caviamo io e Nando! Ma l’idea di sposarmi, a me non era mai venuta. Gli domando allora sorridendo se già sa chi vorrebbe sposare e cerco di distrarlo come vuole l’amicizia, ma Nando si fa pensoso e i suoi occhi castani si abbassano al livello stradale: “È una scelta difficile, – mi dice, – si tratta di tutta la vita”. E mi espose una sua idea che mi colpì. Egli vorrebbe che nella scuola accanto ai corsi soliti, che frequentiamo ce ne fosse anche uno di fidanzamento, con un professore buono e paterno, come quello che c’impartisce le lezioni d’italiano o come il nostro signor preside, e che il programma fosse distribuito in modo che, senza distrarre gli scolari dalle altre materie, alla fine dell’anno chi si è applicato con profitto e volontà si trovasse sposato. “Pensa come sarebbe bello!” Mi dice. Non vorrebbe però professoresse, e qui lo approvo, perché le donne di qualunque condizione o età non possono che fare del male ad un adolescente. Qui devo confessare un mio pensiero, e lo faccio perché il nostro professore non si stanca di inculcarci la sincerità, soprattutto con noi stessi. Il pensiero è questo: che vorrei cambiare sesso ed essere una compagna di Nando per poterlo sposare io, tanto gli voglio bene. Ma penso che, se fossi una ragazza, non avrei l’occasione di andare con lui in bicicletta, e allora è meglio che sia così e che siamo amici. Tanto più che Nando cambierà certo idea, perché ha tanta vita ancora davanti a sé, e gli dico allora di pensare a studiare, che così compenserà la famiglia ed i professori dei sacrifici che fanno per lui, e un bel giorno saranno i suoi genitori a trovargli una moglie. Allora Nando fa le boccacce, ma è tutto contento.
Com’è bello attraversare in bicicletta la campagna! Le margherite dei prati ci ammiccano e c’invitano, la strada corre liscia tra il verde, e il cielo azzurro riflette la serenità dei nostri pensieri. Qualche volta passano altri gitanti – soldati, operai o famigliole – e sempre quando ci vedono gettano un urlo giocondo che ha il potere di far chinare Nando sul manubrio e di farlo arrossire di felicità.
Ma mi accorgo che voi non conoscete ancora Nando e, prima di concludere, voglio descriverlo. È un ragazzo simpatico e intelligente che, visto di profilo, pare già un uomo fatto, e di faccia invece è giovanissimo, perché ha due grandi occhi che si stupiscono sempre. È sempre molto pulito e ravviato, non come me che dimentico qualche volta di pettinarmi. Solamente a vederlo, io mi sento più buono e volenteroso, e prometto che per essere degno di lui sarò sempre studiosissimo e quest’altr’anno, se il diavolo non ci mette la coda, farò un esame coi fiocchi! Così potremo di nuovo trascorrere insieme le nostre vacanze e impareremo tante cose e saremo felici.
Cesare Pavese – Torino, 22 agosto 1940
Scherzoso tema scolastico, scritto da Pavese su fogli protocollo a righe coi margini, che mette in gioco le conversazioni con Fernanda (Nando) Pivano conosciuta/frequentata quella estate. Traspare l’affettività di Pavese e anche quella “sessuofoba” di Fernanda Pivano. Anni dopo, Pavese chiese a Fernanda Pivano di sposarlo, senza aver mai tentato di baciarla nè di sfiorarle la mano.
Pavese nominò per la prima volta Fernanda Pivano nel suo diario il 26 luglio del 1940 con il nomignolo di Gognin, che in piemontese vuol dire “musetto” , ma in realtà si erano già conosciuti nel 1935, quando il ventiseienne Cesare Pavese viene nominato supplente di italiano del Liceo Classico “D’Azeglio” di Torino, tra le allieve c’è Fernanda Pivano. È lei stessa a raccontare nei Diari 1917 – 1973 (editi da Bompiani) il primo incontro con quel professore «giovane giovane» . “Era diverso dagli altri: lui ci faceva leggere i canti di Dante e ce li spiegava, gli altri insegnanti ce li facevano solo imparare a memoria. Ricordo, come se fosse ieri, le lezioni su Guinizelli. Lui era talmente innamorato della trasformazione artistica di questo autore che spiegandocelo ci lasciava senza fiato. E io mi sono appassionata, in modo forse sproporzionato, agli autori che Pavese leggeva. Li leggeva ad alta voce, in modo incantevole, fino a farli entrare nel cuore.” Accusato di antifascismo, Pavese venne arrestato il 15 maggio del 1935 e poi condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro. Si incontrarono di nuovo nel 1940; sempre Fernanda Pivano nel diario scrive: “…Vivevo dalla cintura in su, anche se poi avevo schiere di pretendenti, sapete, ero bella, virtuosa, e ancora non si diceva che virtuosa era uguale a donna noiosa.
Insomma un giorno Cesare Pavese viene a trovarmi in piscina con Norberto Bobbio. Avevo un bel costumino di seta rossa, carino, che veniva da Vienna, e loro mi hanno chiesto che cosa facevo. E io: “Sono stata bocciata insieme a Primo Levi”. E giù a ridere come pazzi tutti insieme, perchè era una cosa ridicola. Da loro prendevamo voti alti, e poi vederci bocciare con dei due e tre, era una cosa strana. Allora Pavese mi ha chiesto: “Cosa avete fatto, come mai? Cosa ha scritto lei?”. E io: ” Ho detto che quando i soldati tornano dalla guerra non è vero che dobbiamo ringraziarli perchè hanno ammazzato il nemico. Ho detto che bisognava mettere dei fiori nei loro fucili, così non potevano più uccidere nessuno”. In pieno impero etiopico non era il caso di fare un tema così. E poi Pavese ha detto: “Che cosa ha fatto all’università?” Ed io: “Ho chiesto una tesi di inglese. Me ne hanno dato una su Schelli, noiosa”. E lui: “Ma perchè non l’ha chiesta di letteratura americana?”. Ed io ho fatto la domanda fatale, che mi ha fregato per tutta la vita: “Che differenza c’è?” Allora lui si è messo a ridere e mi ha detto: “Lei non sa che io sono quello che ha introdotto in Italia la letteratura americana?” E io lì come un’oca.
Quella sera lui mi ha lasciato in portineria quattro libri che erano: Addio alle armi di Ernest Hemingway, Antologia di Spoon River di Edgard Lee Masters, l’autobiografia di Sherwood Anderson e Foglie d’erba di Walt Whitman. Lui non poteva fare una scelta più precisa, più giusta. E io quella sera ho aperto il libretto dell’Antologia di Spoon River alla pagina di Francis Turner dove diceva… non mi ricordo adesso la poesia a memoria… ma insomma diceva: “Io da bambino non potevo nè correre nè giocare perchè avevo avuto la scarlattina”. Oppure: “Un giorno baciando Mary con l’anima sulle labbra, l’animo d’improvviso mi volò via…” E io mi sono innamorata di questa cosa, Dio santo. E non sapevo niente di questa antologia, però me ne ero pazzamente innamorata. E senza dire niente a Pavese, mi ero messa a tradurla. Mai, in quel momento, avrei potuto immaginare di vivere facendo il lavoro del traduttore, non sapevo neanche che esistesse questo lavoro…”.
Iniziò così la lunga amicizia tra lo scrittore e la futura traduttrice. Nel 1940 lo scrittore le dedicò tre poesie: Mattino, Estate e Notturno. Per Pavese fu anche la storia di un amore non corrisposto, anche se pare soprattutto un amore per corrispondenza, un amore sublimato. Tra le numerose lettere che Pavese scrisse alla Pivano in quegli anni, ne spicca una in cui, con acutezza e ironia, descrive se stesso:
Analisi amorosa di P.
- è senza dubbio un uomo insolito, ciò che non vuole ancora dire un uomo che valga. Ha i tratti più evidenti del raté – mancanza di una routine sociale e facilità a disancorarsi — ma ha insieme una capacità di concentrarsi su un singolo oggetto – lavoro o passione – che gli ha permesso, pur nel disorientamento intermittente, di realizzare qualche risultato e qualche sicurezza di sé. La sua tendenza fondamentale è di dare ai suoi atti un significato che ne trascenda l’effettiva portata; di fare dei suoi giorni una galleria di momenti inconfondibili e assoluti. Nasce di qua che, qualunque cosa dica o faccia, P. si sdoppia e mentre pare prendere parte al dramma umano, altro intende nel suo intimo e già si muove in una diversa atmosfera che traspare nelle azioni come intenzione simbolica. Questa, che parrebbe doppiezza, è invece un inevitabile riflesso della sua capacità di essere – davanti a un foglio di carta – poeta. Per quanto P. sia convinto che arte e vita vanno tenute nettamente distinte, che scrivere è un mestiere come un altro. come vendere i bottoni o zappare, non gli riesce di prendere la sua esistenza altro che come un gigantesco spettacolo che lui recita. Ma chi paragona la vita a uno spettacolo, solitamente sottintende che lo spettacolo non va preso sul serio, che la vita è una menata, e cose simili. A P. succede invece di recitare terribilmente sul serio, di scatenare in ogni scena importante della sua vita tanta pienezza passionale e tanto fervore di chiarezza rivelatrice, che in sostanza ha tutta l’aria di un poeta tragico che salga tra i suoi personaggi a uccidere o farsi uccidere. Ma chi dice spettacolo, dice pubblico. Qui è la tara oscena e inconfessata di P. Da studente P. in una sera di sbornie, si senti cosi trascurato e non applaudito, che per strada fra un gruppo di amici scelse di lasciarsi cadere in terra come un sacco, al solo scopo di essere lui il centro dell’attenzione. Ricordo che, rimesso in piedi e sostenuto, piangeva per la rabbia di non essere stato abbastanza « pietoso ». Ora, P., che senza dubbio è un solitario perché crescendo ha capito che nulla che valga si può fare se non lontano dal commercio del mondo, è il martire vivente di queste contrastanti esigenze. Vuol esser solo – ed è solo -, ma vuol esserlo in mezzo a una cerchia che lo sappia. Vuole provare — e prova – per certe persone quei profondi attaccamenti che nessuna parola esprime, ma si tormenta giorno e notte e tormenta queste persone per trovare la parola. Tutto ciò è, senza dubbio, sincero, e per disgrazia s’intrica con l’esigenza espressiva della sua natura di poeta. P. chiama anzi tutto ciò bisogno di espressione, di comunicazione, di comunione; e la sua mancanza, tragedia della solitudine, incomunicabilità delle anime, e via dicendo. Che potrà fare un uomo simile davanti all’amore? La risposta è evidente. Nulla, cioè infinite cose stravaganti che si ridurranno a nulla. Una volta che sarà innamorato, P. farà esattamente ciò che gli detta la sua indole e che è appunto ciò che non va fatto. Lascerà capire, innanzi tutto, di non essere più padrone di sé; lascerà capire che nulla per lui nella giornata vale quanto il momento dell’incontro; vorrà confessare tutti i pensieri più segreti che gli passeranno in mente; dimenticherà sempre di mettere la donna in posizione tale che essa lasciandolo si comprometterebbe. Questa, che è la prima elementare precauzione del libertino (il solo che applichi con impeccabilità la strategia amorosa), in P. invece si rovescia addirittura. P. si dimentica d’innamorare di sé la donna in questione, e si preoccupa invece di tendere tutta la propria vita interiore ver¬ so di lei, d’innamorare di lei ogni molecola del proprio spirito, di tagliarsi insomma tutti i ponti dietro le spalle. Cade qui a proposito la sua confessione che, quando è innamorato, lui vive nella fisica impossibilità di avvicinare altre donne – debolezza questa che nessuna donna, neanche l’amata perdona. Perché tanta ingenuità? E’ evidente: P. fa sul serio, recita sul serio, e si monta come l’attore di vecchia scuola o come quel trageda dannunziano che voleva che nemmeno la maschera dorata di un suo Atride fosse di « metallo vile ». Ecco la mania di assoluto, di simbolismo, che si diceva in principio. P. gioca ( plays ) fino in fondo la sua parte amorosa, primo per il suo bisogno feroce di usare dalla solitudine, secondo per il bisogno di credere totalitariamente alla passione che soffre, per il terrore di vivere un semplice stato fisiologico, di essere soltanto il protagonista di un’avventuretta. P. vuole che ciò che prova sia nobile-, significhi, simboleggi una nobiltà sua e delle cose; diventi un idolo, insomma, cui valga la pena di sacrificare anche la vita, o l’ingegno – che sa di avere grande. Ma chi gli chiede di sacrificare l’ingegno o la vita? Quale donna, chiede a un uomo di perdere assolutamente ogni staffa e ogni puntello, e amarla con l’intensità cosmica e inutile di un temporale d’agosto? Quale donna se non la vamp? E difatti P. ha il dono di trasformare verso se stesso in vamp ragazze che non se lo sognavano neppure. In un primo tempo, le trasforma in vamp e si fa rovinare tutto il rovinabile; poi, quando le macerie sono cadute e lui si ritrova solo, gli accade che la vamp prova rimorso e torna a cercarlo, con un gesto malinconico e materno. P. allora si vergogna e s’infuria, e ritorna alla sua solitudine. Naturale tragedia: tutti gli amori ottiene, o può ottenere, P. dalle donne, meno l’unico cui, come tutti i ratés, lui anela veramente dal fondo del cuore: l’amore di una moglie. Questo desiderio feroce di una casa e di una vita che non avrà mai, affiora in un’orgogliosa sentenza che P. pronunciò un giorno nel forte della sua nota e ormai famosa passione. « Le uniche donne che vale la pena di sposare, sono quelle che non ci si può fidare a sposare». Qui dentro c’è tutto: la vamp e la furia, la moglie e il sogno incrollabile. A questo sogno P. è, come dire, crocifisso, e niente è più patetico degli scossoni che dà per schiodarne le mani. È perché si sa inchiodato in questo modo, nell’impossibilità sia di muoversi che di ripararsi, che ogni avvisaglia di nuova passione lo fa tremare. P. ha una forte fantasia e gli basta rappresentarsi se stesso in un’immagine dolorosa – come questa – per risentirne fisicamente le torture. Solitamente accade che l’esasperata sensibilità dei tipi come P. ha però il fiato corto, e sia le fantasie che l’intera passione divampano e finiscono presto. Ma P. non è un tipo comune. Anni fa, quest’immagine della croce se la portò nei nervi per più di tre mesi continui, insieme a quella che lui chiama dello sradicamento – il senso di avere il petto e il cuore lacerato e sanguinante per lo strappo violento delle mille radici che una donna vi aveva messo. Così accade per la passione nel suo decorso, ed è del resto naturale. La stessa esigenza di simbolica nobiltà che vale nella genesi degli affetti di quest’uomo, si fa valere nella loro forza di durata e, del resto, P. getta loro inconsapevolmente tali basi, che a fatica li può distruggere l’acido stesso della loro dimostrata inutilità. Qui occorre tener presente che in P. una passione s’intrica con la sua poesia, diventa carne di poesia, e come tale gli s’identifica col linguaggio, con lo sguardo, col respiro della fantasia. In un lungo periodo, P. raggiunse una sua stoica atarassia attraverso la rinuncia assoluta a ogni legame umano, se non quello, astratto, dello scrivere. Si sentiva come intontito e chinava il capo, e cercava di scrivere. Ma di mese in mese e di anno in anno scriveva sempre meno la vita in lui si prosciugava. Diventava un fantasma. Pure P. teneva duro, perché sapeva che un franamento verso le creature, verso qualunque creatura, sarebbe stato soltanto una ricaduta, non una rinascita. Altro suo detto memorabile è « tutto o niente » – « Aut Caesar aut nihil » – P. non si ferma a mezza strada. Invece avvenne il franamento, e P. cercò di fermarsi a mezza strada, e non ci riuscì. Adesso sconta ogni istante della fittizia solitudine che si era creata. La vita si vendica con una solitudine vera. Sia come vuole la vita.
ella foto: Lo scrittore CESARE PAVESE fotografato sulla collina torinese.
NEG- 11751?
Nella minuta a questo finale è stata aggiunta per tre volte e per tre volte cancellata la frase « sia come vuoi tu».
Questa lettera porta la data del 5 novembre del 1940, Pavese confessa a Fernanda Pivano “Racconto, in questi fogli, cose vergognose, che lei capirà bene che non glieli do per nessun secondo fine. Glieli do per amicizia, perchè sono anche, e molto, Suo amico.” Aggiunse che “le docce fredde” bisogna darle soprattutto a se stessi. Di fatto è stata una maniera per giustificare e scusarsi di una lettera di qualche giorno prima che aveva inviato alla Pivano:
[Torino,] 20 ottobre 1940
Analisi amorosa di F.
Una ragazza che non conosca ancora l’amore – siamo franchi, il sesso – ha un segreto che nessuno, nemmeno lei, può penetrare. E’ come un uomo che non abbia mai conosciuto il pericolo e ignori quindi le proprie reazioni alla paura e all’entusiasmo: è una castagna chiusa. Ma è vero che F. non conosce l’« amore »? Certamente non ne conosce l’ultima istanza, ma un suo atteggiamento davanti al problema esiste, e con ciò s’intravede qualche lineamento del suddetto segreto. Dai suoi discorsi si coglie uno sforzo continuo, penoso, di raffigurarsi un’esistenza in cui il sesso non esista. Se fosse una comune ragazza « en fleur » si potrebbe dire che il suo è soltanto il brivido prima del tuffo, e pace. Ma F. non è una ragazza comune. Anzitutto ha una lunga esperienza – cercata? – di cose d’amore sociali, e – ciò che più conta – si è costruita un’esistenza dove vale il suo senso della responsabilità, dove prende posizione e fa e decide e svolge una parte non passiva. Non penso all’esistenza « mondana » che a tutte le ragazze della sua condizione tocca in sorte, ma a quella organizzativa, a quella selettiva di gusti e attività spirituali (sport, musica, lezioni), a quella affettiva (dramma familiare). Nelle sue uscite c’è una costante. Dice di sé che è mascolinizzata, dice che il padre va messo in collegio, sostiene che tra uomo e donna esiste amicizia, ragiona di casi amorosi altrui con spregiudicata chiarezza, canzona la « femminilità ». Tutto ciò non è baldanza da « fillette », per la ragione che, benché ostentato, non esclude la tranquilla confessione di altre cose notevoli: «Non tengo gatti, perché soffrirei troppo a perderli »; « Tre sono gli uomini che mi hanno voluto bene veramente»; «Sono fragile, umida, e so che qualcuno mi deve plasmare. Sarà questo quell’uomo»; ecc. C’è una seria e onesta comprensione femminile in queste frasi; non si possono liquidare come sentimentalismo scherzoso. Più del resto significativa è la confessione sui gatti. C’è qui il tentativo — e il bisogno sincero – di crearsi un « mito »: tanto che parla di chi le ha voluto bene, col tono con cui parla di queste bestie. Naturalmente scherza, ma gli scherzi – che sono istanti di distensione e insieme di « routine » – dicono più che non le frasi meditate. F. ha il terrore di attaccarsi a una creatura. È importante. Ecco intanto confermato che il suo « shrinking » non è un lezioso derivato sessuale della verginità, ma una penosa confessione di debolezza, di paura che per lei amore voglia dire perdita delle staffe, tuffo non nell’ignoto (è qui il punto) ma nel meditato calcolato fantasticato vortice della passione. Non è questa la voce dell’inesperienza, ma piuttosto consapevolezza della capacità di una dedizione assoluta. Siccome all’amore è da lei riconosciuto un valore altissimo, totalitario, si trema all’idea di cascarci. Se F. fosse una « viveuse », la sua sarebbe un’applicazione dell’exw oi>x — « habere, non haberi ». Ma F. non è una « viveuse ». O sì? E questo il problema che soltanto il gran passo potrà risolvere. Ci sono argomenti nettissimi contro quest’idea: la sua educazione anzitutto, la sua serietà interiore, il suo senso del valore totalitario di una persona, ecc. Ma ce ne sono anche in favore: la sua tendenza a fare degli schiavi (quell’aneddoto della figlia della pettinatrice di Gen. ! ), la sua vivacità intellettuale, il suo gusto del gioco, e anche proprio il senso del grande valore di sé unito a una sfiducia nella « realizzabilità » di questo valore. Come finirà F. ? Per lei, più che per un’altra, ciò dipende da chi incontrerà. Nel senso che più una macchina è complessa più è delicato il gioco delle sue risposte a un agente esterno. Una comune ragazza di famiglia si sa benissimo come finirà – potrà essere più o meno beata o infelice, ma ciò non cambierà di nulla il « senso » della sua persona, la sua figura sociale. F. no. F. potrebbe diventare una dolce padrona di casa, magari birichina o seccante, così come potrebbe farsi solitaria virago, o donna dello scandalo, o vergine – rossa o nera, non importa. Sinora, la sua soluzione che « il sesso non esiste » – mentre pure ne parla sempre – è una prima confessione di fallimento, di scontento. È evidente che F. cerca un uomo che le sappia tener testa, e che per ora – nessuno dei suoi amici escluso – non l’ha trovato. La delusione appare persino nella sua vita di casa. Suo padre è il tipico uomo che non le sa tener testa, e niente è più malinconico dello stupore che le fa […] \ La sua pena gaia e continua è di ritrovare nel ricordo – e nel presente – tutti innamorati che chiedono esclusivamente di abbandonarsi, di abdicare dalla loro virilità, di esserle schiavi. Ma F« impasse » in cui si trova, risulta dal fatto che i pochi non disposti ad abbandonarsi si sono dimostrati superficiali o violenti, […] 2. In questa vicenda la figura più enigmatica è la madre. In essa forse F. vede una prefigurazione della sua stessa possibile sorte dopo un eventuale matrimonio col « wrong man ». E la madre, non lagnandosi mai del suo stato, convince, senza saperlo, F. che dunque questa è la sorte naturale delle donne sposate; e di qua si rafforza la decisione di F. a non abbandonarsi mai a nessun uomo. Come dire: « se la mamma che è cosi buona, cosi comprensiva, cosi soggetta, è riuscita cosi poco col suo matrimonio, come potrò riuscire io che sono convinta di essere cattiva, unilaterale e ribelle? » Una semplice frase detta una sera dalla madre mi ha colpito. « Gli uomini fanno tutti le corna alla moglie ». Lo diceva con quel tono rassegnato e persuaso che è privo anche di risentimento – cosi parlava anche la mia mamma – e molto dell’inquietudine e del dissidio di F. deve nascere da questi placidi e malinconici toni della madre. Come succede a chi è affezionato veramente a qualcuno, F. confronta tutti i suoi progetti dell’avvenire all’idea che si fa della madre, e la reazione è sempre deprimente. Cosi è nata la caratteristica posa « attiva e pazzerellona » che pare il programma di F.: difesa istintiva contro l’estraneità del mondo, e specialmente del mondo maschile. Ma qui è implicito un errore che tutti questi « miti della condotta » recano con sé. Ecco: in sostanza cerca di vivere e fare di sé un personaggio che incarni la possibile figura dell’uomo che domani potrebbe amare. Lo vorrebbe spregiudicato, pazzerellone, squisito, « virile » come s’immagina di esser lei, ben sapendo che le più solide virtù (capacità di soffrire, tenerezza, comprensione, ecc.) come non mancano sotto la scorza a lei, cosi non potranno mancare sotto sotto nemmeno a lui. In questo modo cerca di placare la paura istintiva della grande passione supponendo un essere per cui la grande passione sia una virtù segreta come per lei, e il cui esterno le sia gradito come senza dubbio a lei piace un mondo sé stessa nello specchio e nell’esame di coscienza serale. Ora, l’errore implicito in tutto ciò è che F. scambia per qualità virili, delle deliziose e in lei irresistibili qualità femminili. F. crede che gli uomini siano nati per l’azione, e cerca di imitarli. Crede che siano esseri utilitari e pratici, e cerca di imitarli. Crede che tendano a organizzarsi e vivere « socialmente » e cerca di imitarli. Succede invece che i veri uomini non sono attivi ma contemplativi, non sono pratici ma sognatori dell’azione, non sono « sociali » ma — almeno i migliori — sono solitari. Potrà succedere cosi, che sposi – il più tardi possibile – un pupazzo, magari un’aquila, che non sa che cosa sia la solitudine – virtù essenzialmente maschile – e proprio per questo non s’accorge del tesoro che ha in casa.
Se ho sbagliato, mi scusi.
CP (Autografo presso la destinataria)
Con questa celebre lettera Pavese si produce in uno studio articolato sulla sessualità e sentimentalità della Pivano, “vergine virile che teme il mondo maschile”. In quella precedente, “ Analisi amorosa di P” l’autore si svela e costruisce una immagine di se stesso, si tormenta e al contempo si compiace di tormentarsi. Non sono in grado di dare un’interpretazione psicoanalitica, mi ha peraltro colpito la spiegazione di Roberto Guiducci “ ..della reale paura che Pavese ha di ciò cui maggiormente agogna. Farsi donna ed essere sposata da un uomo-donna è un pensiero scherzoso, paradossale, ma forse radicato profondamente è fonte di ansia tremenda. Si è sull’orlo di un abisso. L’abuso della femminilizzazione, l’incubo, la minaccia perenne per Cesare. “
Le paure di F.
- lascia intendere sovente di aver avuto due periodi nella sua vita, un prima e un poi, un allora e un adesso, e naturalmente non spiega di più . Ama molto dualizzare, cioè lasciar scorgere in ogni faccia in ogni periodo della sua indole e attività due momenti contrastanti, segnati da una crisi: quand’era a Genova e adesso che è a Torino, quand’era ricca e adesso che è povera, quand’era intellettuale e adesso che è attiva, quand’era sciocchina e adesso che è mascolinizzata, ecc. …..
Nonostante certe apparenti intimità F. non si confessa con nessuno (lo prova il fatto che dei suoi molti amici probabilmente tutti ricevono da lei confessioni, che fatte a uno solo sarebbero dedizione fiduciosa – fatte a molti sono soltanto conversazione « interessante »). Bisognerà quindi auscultare i suoi « discorsi a vanvera », caso mai qualcuna delle parole desse un’eco di cavità ignota. Chi, messo in sollucchero dalla facilità con cui F. abborda argomenti erotici, si fermasse su questo campo, sbaglierebbe: sbaglierebbe per la ragione che evidentemente qui F. si sorveglia, si inibisce con piena coscienza e ben poco lascia intendere della sua vera natura. La chiave – se chiave esiste – andrà cercata altrove. Per esempio, nella paura… più che spaventi, le paure di F. sono angosce. Con ciò si viene a dire che la vita interiore di F. (e ciò fin dall’infanzia) è tutta intrisa di stati d’attesa, di penosa attesa, di un « ignoto » che è insieme desiderato e respinto. Tutti e quattro gli esempi dati s’incontrano in questo che suppongono un’avidità affettiva, una tensione smaniosa verso un oggetto un’intimità un ambiente, che appaiono al soggetto tanto intense e assolute da capovolgersi, per la solita ambivalenza di questi istinti, in un vivo e diffuso terrore del loro scopo. Si parla qui naturalmente di un carattere psichico acquisito nella primissima infanzia, quando ciò che più tardi si differenzierà come istinto sessuale, vive ancora e lievita confuso nei primi conati affettivi e fantastici…È ancora necessario ricordare che, benché intellettualmente non inerte, F. ha di proposito limitato la sua vita contemplativa al godimento della musica – gusto che suppone appunto la capacità dell’angoscia, e secondo alcuni ne è il correttivo, secondo altri la sublimazione? Ora, in accordo col quadro delle sue angosce, F. confessa di aver provato fino ai dodici anni una scontrosa repulsione per ogni « estraneo ». Come mai dalla bimba scontrosa e sensitiva (ciò che rende duri e violenti è la sete di tenerezza), solitaria e fantastica, impacciata e domestica, ha potuto nascere la donna « repandue » e disinvolta, positiva e attiva, cristallina e cordiale, con cui credono di scherzare scultori, musicisti e poeti? E soprattutto come mai la bimba che s’incantava come il pollo davanti alla riga di gesso, e che oggi ancora è rimasta la vergine che rabbrividisce all’idea dello stupro – come mai proprio costei vive un ideale di socievolezza virile e non ha amici che tra gli uomini e li ricerca con baldanza e li domina senza sforzo, tanto che chi non la conosce con amore sospetta in lei la « viveuse » e la tratta in sostanza come tale? La chiave del segreto sta in una sua ingenua confessione che si ha torto a considerare semplice petulanza di signorinetta (Bobbio) o incauta scusa di « devergondée » (le rivali mondane e, pare, i musicisti). E la confessione è la banale frase, mille volte da F. ripetuta, che lei è una donna mascolinizzata. Essa viene a dire che F. tende a identificarsi con gli uomini, anzi con un determinato tipo d’uomo che evidentemente rappresenta il suo ideale. F. in questa sua vita diffusa e attiva è abbastanza ingenua da lasciar intendere che la conduce per disperazione, per assurdo, o per scelta calcolata – che torna lo stesso. È questo in sostanza il secondo periodo della sua vita, quel periodo che si contrappone, nel desiderio di F., a un non ben confessato né precisato primo periodo in cui pare facesse tutto l’opposto. Ecco spiegato perché l’idea di una data crisi e conversione alla nuova vita è inaccettabile. Quando si dice identificazione , si dice complesso psichico represso che cerca il suo sfogo in un nuovo mito della condotta. E si dice quindi sdoppiamento, non successivo ma contemporaneo. F. è tuttora la bambina delle angosce, proprio mentre vive il suo mito della dinamica praticità. Ecco come è andata. Come tutte le adolescenze di questo mondo, quella di F. si è compiuta nella penosa e umiliante consapevolezza del sesso. Poche cose sono altrettanto tristi che la sudicia, smaniosa e inesorabile scoperta del destino sessuale della carne, in quegli anni che nulla ancora dei suoi possibili compensi si conosce. Inoltre, F. non ebbe in quegli anni l’inevitabile crisi mistica che distrae dal sesso (in realtà ne è una semplice tappa) e scarica la piena delle indignazioni e delle rivolte in una dolce atmosfera del cuore e della coscienza. Non è strano che con tanta capacità di sentire l’ angoscia – lo stato tipicamente prereligioso – F. non abbia sentito almeno per un anno, per sei mesi, il trasporto religioso? Non è affatto strano e, se vorremo ricordare la sua esperienza dei dieci anni – il confessore che la rivoltò insegnandole le sudicerie – capiremo come proprio la sua angoscia sia nata e restata nella sfera sessuale, naturalmente come ambivalenza – orrore e insieme smania del contatto umano, scontroso riserbo fisico e insieme sofferenza della solitudine. Oggi ancora, che pure conosce meglio sé stessa e gli altri, F. continua a rabbrividire all’idea dello stupro – naturalmente in forme romanzesche e caricate. Questa è insieme la più antica e la più nuova delle sue angosce. Parlandone, diventa persino sincera e dimentica il mito della mascolinizzazione. O meglio, scopre di questo mito il volto vero: identificazione nata da istinto represso. Che cosa teme F. nello stupro? Scherzando, lo immagina con tutto un corteggio di orrori – rivoluzione e guerra civile -, ma io sospetto che essa lo tema allo stato puro nella sua semplice necessità fisiologica… Bisogna insistere. F. non ha paura , non teme il dolore (ricordare la faccenda degli allarmi), se anzi pensa a sposarsi pensa subito ai figli (altra prova che non è ancora riuscita a vedere nel sesso una possibile realtà voluttuosa): quello che teme è l’insulto fatto al suo narcisistico riserbo, è il violento infrangersi della sfera di angoscia solitaria che possiamo rintracciare fin nella sua avventura infantile con l’interruttore o nella sua comprensione per il metafisico orrore delle piante immobili. Un altro esempio: lo stesso orrore F. l’ ha provato per un certo bacio violento, che forse fu per lei il solo. A questo punto si comprende meglio, nella sua malinconica realtà, il movente di quell’identificazione con l’altro sesso. Un giovanotto che entri nella vita cercando sistematicamente compagnia femminile, non per farci all’amore ma per farsene un modello e risentendone l’influsso nei gusti, nelle pose, negli umori, è un omosessuale che si ignora. Potrà più tardi magari sposarsi e diventare marito e padre felice, ma ciò non toglie che in partenza egli tendesse a tutt’altro. Si sarà salvato forse senza saperlo – per un caso, per un incontro fortunato; ma sulla lama di rasoio c’è passato, e il suo destino era un altro. Bisognerà dire lo stesso di una ragazza che mostri un gusto risoluto della compagnia maschile e se ne faccia un ideale di vita asessuale. Nei due casi è cominciato un processo d’identificazione col sesso opposto, ed è ovvio come – scoppiando l’occasione che infranga le ultime inibizioni della coscienza e dell’abitudine – accadrà che il giovane femminizzato e la ragazza mascolinizzata troveranno concepibile liberare attraverso un commercio omosessuale l’istinto invertito – dato che il sesso a loro complementare sarà ormai il proprio. Va da sé che gli individui che giungono alla dichiarata omosessualità sono altrettanto rari rispetto ai tendenziali come sono rari i casi di assassinio consumato rispetto agli assassini potenziali (chi di noi non ha sognato almeno una volta di ammazzare qualcuno?) Quest’indagine – sia chiaro – non mira a scoprire in F. un destino inesorabile, ma soltanto a rintracciare in lei una tendenza, a chiarirle il possibile significato, che forse le sfugge, di un suo atteggiamento di per sé innocente. Tuttavia, l’inversione omosessuale è cosa tanto violenta che non basta a provocarla uno stato d’angoscia diffusa, ma – insegna la psicanalisi – le occorre un trauma psichico ben definito. Esiste questo trauma nel passato infantile di F. ? Tutto il problema è qui, e naturalmente potrà rispondervi soltanto F. scavando in sé stessa. Se vorrà farlo, F. dovrà ficcare gli occhi chiari — questo coraggio non le manca – nella nebulosa infantile dei suoi rapporti coi genitori. La sua attuale sistemazione familiare è, sotto questo rispetto, ambigua. Predilige la madre e osteggia il padre. Se si scoprisse che al tempo delle prime angosce F. cominciò con un attaccamento morboso per il padre […] si avrebbe chiara la ragione della sua attuale frigidità — ostentata? – verso tutti gli uomini. Ma bisognerebbe in questo caso ammettere che l’ideale maschile di F. è tuttora inconsciamente rappresentato dal padre dei suoi primi anni — ammissione azzardata, […] .
Queste lettere sono lievi come il piombo e sviano sulla natura della corrispondenza tra lo scrittore e l’allieva, in realtà ho contato più di 50 lettere pubblicate di Pavese dal 22 agosto 1940 al luglio 1945, e si può presumere che quelle inviate siano molto più numerose. Sono le lettere più belle dell’epistolario pavesiano, una fotografia degli anni della guerra vissuti nelle retrovie. Lo scambio epistolare tra i due risulta prezioso per ricostruire il disagio (soprattutto di lui) e la voglia di indipendenza di genere (di lei) in un contesto storico ben delineato: quello della censura fascista e della guerra. Traspare nel 1943, la preoccupazione di Pavese di essere chiamato alle armi:
«11 gennaio 1943 – Cara Fernanda, ricevo le due lettere, quella della malinconia, e quella su Spoon River e sul mio richiamo. Per S. R. farò tutto io qui, ma non s’illuda troppo presto perché vorranno vedere le bozze e potranno ritornare sulla decisione. Per il richiamo è una notizia del giornale, che dal 1° al 15 febbraio chiameranno tutti i laureati in congedo del 1923 e precedenti, per utilizzarli. Io, a buon conto, ho già cominciato a muovermi per sapere, primo, se sarò chiamato; secondo, se lo sarò davvero; terzo, per guarire dall’asma. Stia certa che i miei desideri coincidono coi Suoi (…)». «Mi preoccupa di più la Sua malinconia e il tono di bestia condotta al macello da Lei assunto. Perché? È sola e disagiata, ma può studiare e lavorare; non se l’intende coi Suoi, ma studiando e lavorando si prepara il modo di farsi un’indipendenza; non Le sono vicino a farle prediche, ma gliele faccio da lontano, e tanto più meditate e inesorabili, e assisto i Suoi lavori e insomma non sono in Polinesia (…)». «Pensi che qui soffro il freddo come a Mondovì. Siamo in quattro in una casa, anzi cinque, tre uomini e due donne; viviamo studentescamente; si mangia non male; io giro tutto lacero e scalcagnato, e a Torino dovrò venire certo uno di questi giorni, non fosse che per rifornirmi di abiti. Da Torino passerei a Mondovì (…)». «Faccia sì che il primo incontro avvenga tra noi due soli, perché vorrò abbracciarla e baciarla. Ho deciso. Ho trovato molti complimenti per «Il Mare» – (racconto scritto da Pavese, incluso in Feria d’agosto) – che pare abbia colpito tutta Roma, ma io vivo isolatissimo, anche perché a girare di notte su questi maledetti autobus e circolari, dove non si capisce niente, non mi pigliano certo. Cara Fernanda, si sta meglio con Lei a Torino, e anche a Mondovì. Stia allegra. Pavese».
Dalla caserma il 9 marzo scrive: Cara Fernanda, sono sempre qui in attesa di passare all’ospedale. Dopo la guerra- lampo, abbiamo ora le pratiche-lampo: ma soprattutto, ma bien-aimèe, io amo il coup de foudre… Bello è specialmente andare in libera uscita. L’altro giorno ho comperato due mandarini, dato noia alle ragazze e infine bevuto una enormità. Se, come mi auguro fervidamente, sarò presto vestito, farò un soldatino magnifico. Oh Fernanda, non c’è un mezzo per passare subito ufficiale? Pensi che bello se fossi anche ufficiale! Oserebbe ancora rifiutarsi? Intanto si ricordi di chi pensa a Lei tanto, tanto, tanto.
Cesarino
Se la carta puzza di rigovernatura non ci badi, ho lavato (male) la gavetta. Baci.
Il 17 marzo scrive di essere uscito dall’ospedale militare e di essere stato messo in convalescenza a causa dell’asma per sei mesi. Mesi cruciali perchè Mussolini venne destituito il 25 luglio dal re, si insediò il governo Badoglio e l’otto settembre ritornò Mussolini a capo della RSI.
Nella maggior parte delle lettere di Pavese, Fernanda Pivano viene spronata e incoraggiata allo «studio e diligenza». Molte lettere terminano con l’esortazione allo «studio, studio, studio» oppure con «traduca, traduca, traduca» .
Il 7 gennaio del 1943 scrive “Cara Fernanda, l’inverosimile è avvenuto. Hanno autorizzato Lee Masters….” mentre in questa lettera del 25 maggio 1943 riporta le lodi di Emilio Cecchi alla traduzione di Spoon River.
Cara Fernanda,
che Lei è cattiva ed egoista l’ho sempre saputo, ma neanche io non scherzo e quindi sono disposto a correre il rischio.
Ma parlando di cose più decenti, si è decisa o no a studiare? Si ricordi che a Roma non si viene senza sapere una lingua. […]
Sono stato da Cecchi che ha lodato molto la traduzione di Spoon River: è quindi certo che questo libro La renderà celebre. […]
Chi sono questi giovanotti che Le fanno le domande strane per entrare in conoscenza, vorrei sapere. Io non ho mai fatto domande strane alle ragazze, ed è per questo che le ragazze non mi hanno voluto nè poco nè tanto. Mi correranno dietro quando avrò settant’anni, ed io dirò con gusto: avete visto? Bisognava decidersi prima.
Cara Fernanda, quando ci si rifiuta di sposarmi, almeno si ha il dovere di risarcirmi facendosi una cultura e imparandola più lunga di me. Non aspetti a saper leggere un libro quando sarà vecchia come il bacucco e per sedurre i giovanotti non servirà più a nulla essere una raffinata intenditrice di poesia. O, almeno, sposi subito il capostazione e la smetta. […]
Fernanda, si mangia poco a casa nostra e, su cinque, tre hanno preso la tosse asinina. L’attendo anch’io, e in questa certezza La saluto caramente, non senza augurarmi che noi due siamo insieme, in una casetta di mare, entrambi con la tosse asinina, a darci i colpetti sulla schiena e confondere i nostri ruggiti. Suo.
«Pavese cercava di farmi diventare un’intellettuale» annota la Pivano nei Diari. Pavese dimostra nelle lettere di cogliere il passaggio dall’italietta del fascismo a un futuro.Prefigura il modo in cui la donna italiana, non solo Fernanda, dovrà uscire dai ruoli mediocri imposti dall’epoca e dal fascismo: «È sola e disagiata», le scrive, «ma può studiare e lavorare», le spiega.
Cara Fern,
la Sua lettera mi ha molto commosso e se potessi prenderei subito il treno per provarLe che non è vero che la circondi il gelo e l’ostilità. Ma non capisco perché si trovi tanto male proprio adesso che sa di poter lavorare nove ore al giorno e quindi pressoché mantenersi. Non ha sempre aspirato all’indipendenza? A meno che Le succeda come a tutti: una volta ottenutala, non sa più che farne. Si ritorna cioè a quanto Le ho sempre consigliato: si faccia una vita interiore – di studio, di affetti, d’interessi umani che non siano soltanto di «arrivare», ma di «essere» – e vedrà che la vita avrà un significato. Io non ho potuto muovermi anche perché abbiamo avuto i questurini in casa per parecchio tempo – una nostra impiegata è stata arrestata – e s’immagini le grane. Cara Fern, la solitudine che Lei sente, si cura in un solo modo, andando verso la gente e «donando» invece di «ricevere». (È la solita sacrosanta predica). Non che io aneli di essere quello a cui Lei dovrebbe donare – tanto più che i doni che Lei potrebbe farmi non sarebbero ancora la soluzione ma aumenterebbero il pasticcio. Si tratta di un problema morale prima che sociale e Lei deve imparare a lavorare, a esistere, non solo per sé ma anche per qualche altro, per gli altri. Fin che uno dice «sono solo», sono «estraneo e sconosciuto», «sento il gelo», starà sempre peggio. È solo chi vuole esserlo, se ne ricordi bene. Per vivere una vita piena e ricca bisogna andare verso gli altri, bisogna umiliarsi e servire. E questo è tutto. La nostra posizione qui è molto precaria. Il padrone ogni tanto fa progetti per riportare la baracca in Piemonte – che non mi dispiacerebbe. Ma intanto – tira e molla – non faccio più niente e non ho più pace. La smetta con quella stupida storia dell’assegno. Pensi piuttosto a tradurre l’Addio, e con l’assegno si comperi un monopattino. Coraggio e arrivederci
Il lavoro renderà indipendente Fernanda Pivano, non solo diventerà una protagonista della cultura, scopritrice di talenti, ponte tra l’America della Beat Generation e l’Italia e molto altro. Un futuro che prima di esistere nella realtà, esiste già nelle poche righe di uno scrittore che lievemente, ma fermamente, dà l’esortazione e la fiducia che può venire solo da un maestro. La collaborazione tra i due inizia con la traduzione dell”Antologia di Spoon River. Sono i primi anni Quaranta , la futura “Nanda” ha ventisei anni, e il libro superproibito, come lo definirà lei, glielo ha passato proprio Cesare Pavese, che si occupa dell’opera di Edgar Lee Masters dal 1930. «L’antologia» di Edgar Lee Masters risale al 1915, è destinata a diventare uno dei libri di culto in tutto il mondo, ispirata dagli epitaffi dell’ Antologia Palatina, raccontava le storie di uomini e donne di un paese del Midwest rievocati dalle loro lapidi del cimitero, tra virtù e bassezze, infelicità dei giusti e impunità del potere. Una lunga popolarità, quella di Spoon River, che ancora nel 1971 è stata all’ origine di uno dei dischi più belli di Fabrizio De André: «Non al denaro non all’ amore né al cielo». Pavese lo lesse nel 1930, incitò Fernanda Pivano alla traduzione, la Pivano fece la parte più grossa del lavoro, traducendo in modo lessicale tutti i testi per conto suo; Pavese, che da anni voleva farne un’ edizione italiana, si occupò della revisione sulla struttura e sulle scelte stilistiche, tanto che davvero la traduzione può essere definita « frutto di un lavoro a quattro mani>>. «L’Antologia» miracolosamente venne pubblicata nel 1943 con il solo nome della Pivano, grazie all’ impegno profuso da Pavese, dirigente dell’ Einaudi, che, per aggirare la censura fascista, trasformò l’Antologia di Spoon River in “Antologia di S. River”, facendo passare il testo per un’opera religiosa.
Pavese scrive alla Pivano il 26 febbraio 1943 “Spoon River è già in stampa”.
La verità venne presto a galla e le poesie che minavano le fondamenta dei principi fascisti vennero proibite in Italia. L’altro libro che nel 1940 Pavese lasciò nella portineria della casa della Pivano era: Addio alle armi di Ernest Hemingway, che Fernanda Pivano tradusse. Il testo era proibitissimo dal fascismo: un romanzo antimilitarista, antiretorico e la descrizione della disfatta di Caporetto è considerata lesiva per l’onore delle forze armate italiane. Le SS naziste, durante una retata presso la sede di Einaudi, trovano il contratto di traduzione per Addio alle armi. Commettono tuttavia un errore: il contratto è erroneamente intestato a «Fernando Pivano» e le SS arrestano Franco, il fratello di Fernanda. Appena ricevuta la notizia, lei si fionda all’Hotel Nazionale, il quartier generale nazista dietro piazza San Carlo e riesce, pur tra mille difficoltà, a chiarire l’equivoco. Scagionato il fratello, rimane in carcere per dodici ore, subendo interminabili interrogatori, continue minacce, feroci intimidazioni, in una corrida, così la definirà, «in cui io sono un povero torellino inesperto e loro matadores che da anni passavano la vita a mandare la gente nei lager» (PIVANO, 2008).
Il libro così uscì in Italia nel 1945 alla fine della guerra, ma l’episodio dell’arresto venne raccontato a Hemingway poiché, una volta finita la guerra, invita la Pivano a raggiungerlo all’hotel Concordia di Cortina. Lei all’inizio pensa ad uno «scherzo di cattivo gusto», poi si precipita sul «trenino da favola ora scomparso delle Dolomiti» (PIVANO diari) e lo raggiunge.
È il 10 ottobre del 1948: Quando mi aveva vista lì sulla porta della sala da pranzo, coperta di fuliggine e di polvere e troppo emozionata per entrare, si era alzato e aveva attraversato il salone con le braccia aperte richiudendole su di me in uno hug come quelli di cui avevo letto nei suoi racconti; poi mi aveva preso per mano e accompagnandomi al tavolo mi aveva detto in uno di quei bisbigli coi quali mascherava la sua leggera balbuzie: “Tell me about the Nazi” (raccontami dei nazisti) ((PIVANO, 2008).
La storia, l’amicizia tra Pavese e Fernanda Pivano finisce nell’immediato dopoguerra. Pavese nel diario il 26 ottobre del 1946 scrive per l’ultima volta: “Do dentro al romanzo. La Piv. si è sposata stamattina. Sono raffreddato. Bene.”
Ps Qualche pettegolezzo, è curioso il fatto che nella biografia di Fernanda Pivano, dappertutto (o quasi) si legge che nel 1949 ha sposato l’architetto Ettore Sottsass Junior, il grande amore tormentato della sua vita. Pare che quando Sottsass entrò nella casa coniugale scoppiò a piangere al pensiero che avrebbe dovuto vivere con lei tutta la vita. L’unione durò 27 anni poi lui la lasciò con grandissima infelicità di lei. Pavese invece annota la data del 26 ottobre 1946, il piccolo giallo si spiega con un precedente matrimonio, quando la Pivano sposò un ufficiale americano conosciuto lavorando alla radio e di cui la scrittrice non ha mai voluto parlare. “Che cosa le è riuscito meglio nella vita? Non mi è riuscito proprio un bel niente. Sono passata da un disastro all’altro. Diciamo che quel che mi è riuscito forse è resistere al disastro.”