di Alfredo Morganti – 26 giugno 2017
Sui tempi lunghi, sulle prospettive, sulle strategie epocali, sui massimi sistemi, sui principi inconcussi, sugli sguardi articolati siamo tutti fenomeni. Non c’è uno che non sappia cosa fare in generale. Peccato però, come diceva Keynes, che nel lungo periodo saremo tutti morti. Il vero deficit è, semmai, sui tempi corti, sul ‘che fare’ vero e proprio (oggi, domani) non le lunghe traversate. Nonostante il tatticismo e il politicismo dominanti, si è molto ritrosi a decidere sull’odierno, sul futuro prossimo, sul breve lasso. Calcolando che più il domani è vicino, più ci tocca la melma del quotidiano, questa ritrosia ad affrontare il ‘che fare’ potrebbe anche essere sinonimo di incapacità o poca voglia di impegnarsi in un presunto lavoro ‘sporco’, allontanando ogni contaminazione da sé, in nome della risposta più facile e più sfuggente, quella sul lungo periodo. Che somiglia tanto a una dilazione.
Perché la politica non è mica ‘studiare’ una soluzione per gli anni a venire, non è mica mettere a punto un’identità stabile (ammesso che queste due parole – identità e stabile – siano così pacifiche) e nemmeno sviluppare dotte analisi. La politica è un lavoro, che ha tempi corti e lunghi, che non conosce soste, che opera anche sulle contingenze, che deve proporre risposte e ipotetiche soluzioni già oggi, se non ieri. Non per metter fretta, ma perché i tempi non li decidiamo noi, e comunque si distendono lungo un arco molto vasto, che va dall’oggi al secolo prossimo. Esser lenti, com’è giusto che sia, non vuol dire esser ciechi o poco interessati all’attimo. La lentezza è una cultura, non un fatto. E non c’è niente di peggio che scambiare le proprie idee od opinioni per la necessaria contromossa da fare al proprio avversario – o immaginare la saldezza del proprio pensiero come un aspetto concreto della vita quotidiana: entrambi sono legittimi, ma non sono la stessa cosa, per quanto sarebbe bello fosse così.
Faccio un esempio. La parola ‘centrosinistra’ non va più bene? Non ha appeal, non fotografa forse più gli attuali nostri stati d’animo? Bene, che fare? Semplicemente, banalmente, proporre tout court la parola ‘sinistra’ in tutta la sua magnifica solitudine, quale baluardo, perno esclusivo della nostra azione politica? E dunque restare appesi a un lutto, patire la mancanza, e niente più? E se avesse ragione Massimo D’Alema nell’intervista al blog ‘L_Antonio’, per il quale ‘nel nostro Paese la sinistra non è autosufficiente”? Affermazione provocatoria, opinabile, certo, ma che dà da pensare? Ricordo che anche il compromesso storico nasceva in parte dalla stessa convinzione, ma che non era segno di debolezza, semmai di forza, di forte consapevolezza dei limiti e delle effettive potenzialità storiche. E se alla sinistra toccasse il ruolo di ‘volano’, di meccanismo che avvia tutti gli altri, e proprio nel senso della trasformazione, della lotta alle disuguaglianze, della tutela al lavoro, dell’estensione del welfare, dell’attenzione maniacale alla scuola, alla sanità e allo sviluppo della democrazia? E se la forza della sinistra dovesse essere messa al servizio di un cambiamento conseguente, nell’alleanza con forze di diversa ispirazione o collocazione, ma certo (sempre D’Alema) sulla base di una forte innovazione politico-programmatica rispetto al recente passato?
Mi chiedo pure: e se persino la sinistra non fosse oggi di facile identificazione, ma fosse un territorio vasto e mutato, e dunque dovesse essere classificato come plurale, multiforme, instabile e perciò necessitasse in primis di una forza gravitazionale (un partito grande, accogliente, democratico, una massa critica consistente e gravitazionale) che la unificasse almeno sul piano pratico? E se, poi, dire ‘sinistra’ non fosse sufficiente almeno quanto dire ‘centrosinistra’, come la metteremmo? Vedete quanto ci vuol poco ad allungare il brodo dei tempi e a restare incartocciati nelle domande fondamentali? Un attimo, anche qui. Torno a bomba: che fine fa la contingenza? Quali scelte compiere, e che fare oggi? E quali nomi scegliere, quali suggestioni, quali simboli, e come pensarli accanto a quelli della nostra storia e della nostra tradizione? E se il nodo fosse solo il programma, i contenuti, le idee? Magari solo in senso pragmatico? E gli ideali, e i valori, e i principi? Vedete, è tutto così maledettamente difficile e articolato, che talvolta capisco perché ci si rifugi in qualche recinto culturale o di principio, piuttosto che immergere gli stivali nella melma di oggi, col rischio probabile di affondare.