Fonte: attac italia
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di Marco Bersani 21 marzo 2015
Non è consentito chiudere gli uffici postali nei piccoli centri se non vengono rispettate le distanze in rapporto alla popolazione e se la scelta non viene adeguatamente motivata in relazione ai disagi che arreca. Così si è pronunciato il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1262, depositata l’11 marzo scorso, che ha accolto il ricorso del Comune di Torre Orsaia in Campania, contro la chiusura dell’ufficio postale della frazione di Castelruggero, motivato da Poste Italiane spa con l’antieconomicità della gestione. La decisione della sesta sezione si fonda su due motivi, il primo dei quali è legato al criterio di distribuzione degli uffici nella distanza massima di accessibilità al servizio espressa in chilometri percorsi dall’utente, fissato dal Dm 7 ottobre 2008.
Inoltre, secondo il Consiglio di Stato, l’espressione “accessibilità al servizio” utilizzata dal Dm “non può prescindere dall’effettiva e normale percorribilità delle strade di accesso agli uffici postali in termini di reale e conveniente fruibilità da parte dei cittadini”. Ovvero, non solo le strade devono essere percorribili in condizioni di sicurezza materiale ma devono essere altresì servite da mezzi pubblici, “in maniera che l’accesso non sia condizionato dalla disponibilità di mezzi privati”.
La seconda considerazione riguarda le motivazioni su cui è basata la chiusura dell’ufficio postale, che nel caso specifico hanno avuto riguardo al solo profilo economico e gestionale. Poste Italiane, afferma il Consiglio di Stato, non può fare spending review sulle spalle dei piccoli Comuni, determinando disservizi e disagi soprattutto alla popolazione anziana e a quella priva di strumenti tecnologici, perché le chiusure devono tenere conto della dislocazione degli uffici postali, con particolare riguardo alle aree rurali e montane, ma anche delle conseguenze che la relativa presenza produce sull’utilità sociale.
Di fatto, una piccola lezione di cosa voglia dire servizio pubblico a chi da tempo -Governo e CdA di Poste Italiane- ha in mente solo l’obiettivo della privatizzazione, da preparare con adeguati tagli di quelli che vengono definiti “costi”: il personale e gli uffici “non produttivi”.
La buona notizia fa il paio con la decisione annunciata in questi giorni da Poste Italiane, di sospendere l’attuazione del piano industriale, che dal prossimo 13 aprile avrebbe dovuto comportare la chiusura di 455 uffici postali sul territorio nazionale e alla riduzione dell’orario di apertura in altri 608. La protesta dei piccoli Comuni ha dunque ottenuto un primo, seppur parziale, risultato.
La vicenda dimostra ancora una volta come siano i Comuni uno dei luoghi di precipitazione della crisi e dello scontro sociale imposto dalle politiche di austerità, che, a colpi di patto di stabilità interno, di tagli previsti dalla spending review e di privatizzazioni, vogliono mettere a repentaglio la loro storica funzione pubblica e sociale per trasformarli in luoghi di mera facilitazione dell’espansione degli interessi finanziari finalizzati a mettere le mani sul patrimonio pubblico, sul territorio e sui servizi pubblici.
La prevista privatizzazione del 40% di Poste Italiane porterà nelle casse dello Stato 4 miliardi, grazie ai quali il nostro debito pubblico calerà drasticamente dagli attuali 2160 miliardi a 2156 (!). Senza contare che l’utile annuale prodotto da Poste (1,2 miliardi), da quel momento frutterà allo Stato 700 milioni. Un’evidente nonsenso, che suscita una domanda spontanea: Poste Italiane va privatizzata perché occorre ridurre il debito pubblico, o la trappola ideologica del debito pubblico serve a privatizzare Poste Italiane?
Dalla rubrica settimanale “Nuova Finanza Pubblica” su Il Manifesto del 21 Marzo 2015