Fonte: La Stampa
Mai nella storia i massimi imperi si sono trovati contemporaneamente in crisi. Al punto da temere tutti per la propria esistenza. Condizione intollerabile per chi dalla nascita coltiva una grandiosa idea di sé. I colossi fiutano il pericolo prima degli altri. L’aria rarefatta che si inala alle vette della potenza eccita la sensibilità al declino. Ne fa ossessione. Facile perdere il controllo. E finire fuori strada, trascinando con sé rivali, soci e passanti. Se poi i protagonisti dispongono di armi definitive, tanto evolute da potersi rivoltare contro chi presume di maneggiarle, scatta l’allarme generale. Con l’inevitabile guerra delle narrazioni. Crolla il principio di realtà. Nulla è certo, tutto è credibile. La comunicazione intossicata disinforma financo i decisori che la producono. Per i mestieranti dell’analisi geopolitica che siamo, recuperare il filo degli eventi, stabilirne la gerarchia e concepirne lo svolgimento futuro è quasi impossibile. Il quasi è di incoraggiamento.
Questa è, se vi pare, la Guerra Grande. Una sola certezza: è appena cominciata e nessuno può immaginarne la fine. Nemmeno l’inizio è fuori discussione, acclarato che la sgangherata marcia su Kiev avviata da Putin il 24 febbraio 2022 si voleva preludio alla parata della vittoria, non alla prolungata guerra d’attrito fra America e Russia in ripida scalata verso lo scontro diretto. E tuttavia a quel chiodo sulla parete dobbiamo fissarci per uno sguardo dall’alto sul sisma che sta ridistribuendo il potere su scala planetaria. Guerra Grande, appunto, disegnata dai tre protagonisti – Stati Uniti, Cina e Russia – in due teatri principali. Con la prima coppia di antagonisti in frizione sempre meno fredda nell’Indo-Pacifico, mentre russi e americani si affrontano lungo i bordi dell’Eurasia occidentale, fra Mar Nero e Baltico, epicentro Ucraina.
Un giorno la guerra in Ucraina sarà sospesa. Non finita. Scontro di civiltà fra Occidente e Russia; conflitto di emancipazione di una nazione in sviluppo da un impero in decadenza ma indisponibile ad abdicare al suo status; sanguinosa partita fra mafie e oligarchie russe e ucraine in un contesto regionale instabile: basta evocare le principali dimensioni della guerra in Ucraina, con radici che affondano al 1914 se non molto più indietro, per escludere la pace dall’orizzonte vicino.
La sospensione non ripristinerà lo status quo ante. Anzitutto perché Mosca e Kiev divergono su quale sia: precedente all’annessione russa della Crimea, come insistono, in sintonia con la maggioranza degli Stati, Zelensky e la diplomazia americana, oppure all’invasione del 24 febbraio, tesi cara a Kissinger, altri «realisti» occidentali e fazioni dello Stato profondo a stelle e strisce incardinate nel Pentagono. Poi perché la tregua deriverà dalla convinzione di entrambi che dissanguarsi in tante mini-Verdun non abbia senso una volta stabilito che nessuno potrà prevalere totalmente. La linea di provvisoria partizione, lungo la quale allineare osservatori internazionali (professione che si annuncia ricca di futuro per i giovani in cerca di occupazione), non riprodurrà nessuna delle due versioni. La diplomazia non può sovvertire la sentenza delle armi. Al massimo, addolcirla per stabilizzarla.
Se questa fosse la tregua, a quale scenario postbellico preluderebbe? L’analista britannico Samir Puri prevede che ne scaturirebbe l’equivalente ucraino delle due Germanie. Certo, «la divisione è prospettiva orribile per l’Ucraina». Dominic Lieven, aristocratico britannico originario di una famiglia di principi balto-germanici, storico dell’impero russo e delle vicende ucraine, è diretto: «Il mio scenario ideale – naturalmente non si avvererà – è che l’Ucraina riconquisti ogni pollice del suo territorio nei confini del 1991, promuova plebisciti in Crimea e almeno nel Donbass orientale e se, come probabilmente accadrebbe, al voto vincessero i russi, si liberasse di quella gente (…) e di quelle terre». In chiaro: «Se gli ucraini dovessero in qualche modo riprendere la Crimea, questa sarebbe semplicemente una fonte infinita di pericolo e di conflitto. È chiaramente contro l’interesse dell’Ucraina riconquistare la Crimea. (…) Nel tuo territorio tu vuoi cittadini per quanto possibile fedeli al tuo Stato. L’ultima cosa che vuoi è una minoranza costantemente insoddisfatta, con un vicino alla lunga inevitabilmente più potente alla tua frontiera orientale, eccitato dalla loro presenza. (…) Il Donbass orientale è la più grande rust belt d’Europa, nella quale si combatte da un sacco di anni. Non penso proprio che l’Ucraina guadagni molto dal recuperare territori di tal genere. Oggi nell’Ucraina orientale la maggior parte della popolazione è probabilmente pro-russa, altrimenti se ne sarebbe andata».
Di sicuro la tregua non è alle viste. Non in Russia, dove Putin spera di poter sfondare il fronte per imporre all’Occidente le condizioni di un cessate-il-fuoco che ne sancisca la rinnovata egemonia sui «fratelli» ucraini. Meno ancora in Polonia e fra i popoli dell’avanguardia antirussa estesa tra Scandinavia e Mar Nero. È la falange ultrà. Ben rappresentata nel Forum delle libere nazioni della Russia, votato alla «decolonizzazione» della Federazione putiniana. Parola dell’ex ministro degli Esteri polacco, Anna Fotyga: «Dissolvere la Federazione Russa è molto meno pericoloso che abbandonarla ai criminali». Tali sono non solo Putin e la sua banda di «terroristi», ma i regimi russi d’ogni tempo e colore. Quindi, primo sconfiggere la Russia, poi scomporla in «Stati liberi e indipendenti». E poi?