Capitalismo infelice

per Gabriella
Autore originale del testo: Marco Ruffolo
Fonte: repubblica

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CAPITALISMO INFELICE  – di LUIGINO BRUNI – ed. GIUNTI

Che tristezza il capitale
di Marco Ruffolo

La religione del lavoro sostituita da quella del consumo. Il dono che è diventato un tabù. L’infelicità come passione dilagante.
L’economista Luigino Bruni traccia un’analisi spietata di questo primo scorcio di Terzo Millennio. Ma con l’aria che tira ovunque, cosa mai potrà salvarci? Una nuova forma di cooperazione. Forse
Viviamo in un mondo in cui la gratuità del dono è un tabù impronunciabile e allo stesso tempo il più profondo dei desideri umani. La sua estromissione dalla nostra vita, o la sua sostituzione con finti surrogati, ci rende prima o poi infelici.
Infelici come questa forma esasperata di capitalismo del Terzo Millennio che ha sostituito il lavoro con il consumo; che ha chiuso tutti gli spazi di libertà a quell’essere “malato di infinito” che è l’uomo; che infine ha costruito intorno a sé, per perpetuarsi, una nuova religione idolatrica. Smascherare questa idolatria, che fa appello alle nostre passioni più profonde solo per aumentare vendite e profitti, è il compito che si è dato Luigino Bruni nel suo ultimo libro Capitalismo infelice. Professore di Economia alla Lumsa di Roma, Bruni è il coordinatore del progetto “Economia di Comunione”, ideato ventisette anni fa da Chiara Lubich, fondatrice del movimento dei Focolari. Progetto nato nelle favelas di San Paolo e che ha visto un migliaio di imprese condividere i profitti con i poveri e con i giovani. Una goccia di gratuità in un oceano di business fine a sé stesso che ha esiliato il dono dalla nostra vita.
“Ma come in tutti i tabù, anche il divieto del dono — scrive Bruni — nasce dal suo desiderio più profondo. Nulla desideriamo più del dono. Nulla è più libero e trasgressivo”.
Cosicché, uscito dalla porta principale, l’istinto della gratuità rientra da quella di servizio. Lo rintracciamo tutti i giorni nella passione che investiamo nel nostro lavoro. In altre parole, lavorando diamo qualcosa di più di quanto ci viene chiesto dal contratto di lavoro. Doniamo. Questo le imprese lo sanno molto bene: sanno che per motivare i propri lavoratori a dare il meglio di sé non possono basarsi solo sulla meritocrazia e sull’incentivo, devono anche fare appello ai loro investimenti affettivi, a valori come stima, riconoscimento, lealtà, senso della comunità. Ed ecco che il nuovo capitalismo sente il bisogno di verniciarsi di sociale, e non solo nei confronti dei lavoratori ma degli stessi consumatori, che non vengono più spinti al culto individualistico del prodotto da acquistare ma coinvolti in quello che Bruni chiama “marketing narrativo”, un serbatoio di racconti che emozionano.
Il limite, tuttavia, è che questi valori da condividere non diventano mai obiettivi ma restano mezzi per fare profitti, e quindi il gioco degli investimenti affettivi, della grande famiglia aziendale, non può durare a lungo. Inevitabilmente le aspettative dei lavoratori e degli stessi manager rimangono insoddisfatte, generando soprattutto nei secondi insicurezza, disistima, “burn out”, ossia esaurimento emotivo da lavoro.
Il gioco non è valso la candela, le passioni sono state manipolate.
Dopo una visione così negativa del nostro sistema economico, Bruni ci spiazza nell’ultimo capitolo, una autentica dichiarazione d’amore per il lavoro: “quando lavoriamo la nostra intelligenza-creatività-amore si esalta, si sublima”.
Starà a noi renderlo più umano, meno controllabile, meno agganciato alla pura ricerca del profitto. Ma sbaglierebbe chi pensasse che siccome il lavoro è soltanto un mezzo per avere reddito, è su quest’ultimo che bisogna fondare la nostra cittadinanza. Il lavoro è molto di più che uno strumento per fare quattrini: è il cemento della cooperazione umana, è l’occasione per far fiorire i nostri talenti, è la dignità del do ut des, della reciprocità, che Bruni distingue nettamente dalla meritocrazia e dall’incentivo. Le imprese che capiranno questo, “organizzazioni più bio-diversificate, meno livellate nelle motivazioni”, saranno anche quelle che dureranno di più.



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