di Alfredo Morganti – 1 agosto 2016
David Axelrod “è stato letteralmente l’inventore di Barack Obama”, dice il Corriere della Sera intervistandolo. Lui ricambia l’omaggio, spiegandoci quali siano le dinamiche politico-comunicative che entrano in gioco quando si apre uno scontro tipo quello di Hilary contro Trump. “La gente – dice – vota pensando al proprio interesse e per il candidato che considera il più adatto a difenderlo. […] Da candidato non devi convincere necessariamente tutti che sei grande. Tutto va visto in rapporto al contendente”. Due insegnamenti, dunque. Il primo: il voto è per interesse. L’assenza di un sistema dei partiti, l’assenza di mediazione politica e culturale (ossia di egemonia) spinge direttamente al mero calcolo personale o di classe. Il secondo: non devi convincere l’elettorato in genere, non devi cercare il consenso democratico generale, ma rapportare le tue scelte, i tuoi discorsi, i tuoi atteggiamenti di campagna elettorale al solo candidato che ti si contrappone. Non c’è il ‘popolo’ dinanzi a te, se non in termini molto generali, ma solo il tuo contendente. Non lo batti con programmi politici generali, né con un ‘discorso alla nazione’, piuttosto cercando i suoi punti deboli, colpendolo quando è in difficoltà anche sul piano personale, rendendo efficace la tua boxe nei confini del tuo ring.
L’assenza di politica produce insomma comunicazione-politica. L’assenza di partiti dà tutto il potere ai guru. La personalizzazione e la mediatizzazione cancellano il popolo dall’orizzonte, tutto è ristretto al ring, tutto è scontro personale, anzi personalizzato. Il popolo è il pubblico che fa il tifo pensando alle proprie scommesse. Axelrod, da bravo guru, da inventore del candidato, lo confessa candidamente. Dopo la strapazzata mediatica di questi anni, della politica restano solo contendenti che si attaccano personalmente, mentre i programmi stanno sullo sfondo, nascosti, sussurrati, ridotti a lista di interessi brutali da riconoscere alle categorie più forti. Queste ultime sono tutto ciò che resta del ‘popolo’, ossia frammenti sparsi e corporativi di un pessimo sociale. È, in fondo, la politica ridotta a ballottaggio, a volti, a donne e uomini che attendono una ‘nomina’, sperano di entrare in qualche listino bloccato, e che per questo perdono di vista persino l’etica. Roba vecchia, l’etica. Certo, ci sono quelli che ai principi non rinunciano, ma restano minoranze, spesso derise, perché incapaci di capire che c’è solo una cosa da tenere in considerazione, la leadership, anzi il leader e i clan di interesse costituiti per l’occasione intorno a lui. Il resto è chiacchiera, anzi è vuoto desiderio di sconfitta, una specie di onta che la vecchia politica porta con sé, mentre la nuova, anzi la nuovissima, vuole l’uomo (o la donna) vincente, vuole battere sul ring il contendente, vuole bucare il video, occupare i social, vuole solo studiare la tecnica giusta per sconfiggere l’avversario. Tecnica, solo questa. La politica, i partiti, il popolo non c’entrano. Anzi entrano poco e male nello schermo tv, e annoiano consumatori e politici smart, che non sanno di etica ma poi, guarda un po’, ci fanno sempre la morale.