di Alfredo Morganti – 21 dicembre 2016
In Italia assistiamo a un fenomeno curioso. Da una parte il sociale presenta zone di grande disagio e di sofferenza certificate anche dall’Istat oltre che dal voto – dall’altra la politica sembra avvilupparsi attorno al (non so come altro chiamarlo) ‘politicismo’. Due situazioni che producono un reciproco allontanamento, una parallela divaricazione testimoniata dalle quote crescenti di astensionismo elettorale e dalla sfiducia verso la politica e le istituzioni più che serpeggiante. Vien da sé che la parte politica dovrebbe soprattutto porre attenzione a quella sociale per escogitare un indirizzo capace di affrontare positivamente quelle sofferenze e quel disagio. Non è semplice, perché bisogna mettere in conto un mutamento degli assetti di potere (nelle istituzioni, nel Paese, nel tessuto sociale, nella proposta culturale) non facile da conseguire a breve. Ma tant’è.
E invece il ceto politico lo vedo soprattutto impegnato a riposizionarsi, con movimenti laterali, orizzontali, piatti, ma mai e poi mai verticali, ossia capaci di affondare il colpo verso le aree di sofferenze e di sempre più forte contestazione persino antisistema. Questo è politicismo: un atteggiamento che privilegia l’accordo politico allo sguardo ampio e fattivo verso il referente sociale. A sinistra il politicismo è davvero un peccato mortale, perché non immagino sinistra incapace di affrontare di petto il nodo delle disuguaglianze e delle ingiustizie, contentandosi invece di un accordo politico e personale, o della creazione di una nuova area o di una nuova corrente o, peggio, di un nuovo ‘campo’ largo (come si dice oggi).
di Alfredo Morganti – 20 dicembre 2016
Ma che cos’è un ‘campo’? Di fatto è uno spazio dove caracollano dirigenti politici, rappresentanti istituzionali, notabilato locale di provenienza spuria alla ricerca di intese, convergenze, patti, progetti comuni. Il ‘campo’ è l’area dove si muove un ceto politico sradicato alla disperata ricerca di un futuro. All’interno del ‘campo’ ci si riorganizza, si ritessono alleanze e accordi, ci si stringe l’un l’altro in vista di una nuova fase. Ci sono ‘campi’ democratici, progressisti… Il ‘campo’ appare laddove sbiadisce l’organizzazione, dove il partito politico muore, dove i dirigenti e i deputati e i consiglieri comunali o i Sindaci rappresentano alla fine solo se stessi, al più qualche circoscritto tessuto sociale o topografico, e fanno briga tra loro. I ‘campi’, i riposizionamenti producono convegni, riunioni, strette di mano, dibattiti, chiamate alle armi dei ‘volontari’ di base, viaggi in una città o nell’altra per una giornata discussione.
I ‘campi’, i convegni, le riunioni sono frequentati soprattutto da ceto politico o pseudo tale, non ci vedrete i normali cittadini dentro, né i precari, né i disoccupati, tanto meno gli operai oppure il ceto medio in genere, affaccendato in altro, magari a sbarcare il lunario. Se frequentate i convegni alla lunga vedrete sempre gli stessi tipi, lo stesso partito dei sindaci, gli stessi peones, lo stesso popolo dei ‘campi’ ogni volta ricombinato, anche creativamente. È questa ars combinatoria a raccontarci la miseria di questi anni politici, nati dal fracasso (come gli anni sessanta, pardon settanta, della Marini) e sopravvissuti a tutte le guerre, ma proprio a tutte, e adesso privi di nerbo, idee, forza, carattere, passione, sangue (e forse pure di vene). E in questo guazzabuglio politicista, dei partiti (non marchi, non direzioni in streaming, ma partiti) non c’è più traccia. Davvero.