Camilla Ravera, la comunista e antifascista che lottò per i diritti delle donne

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Orsola Severini
Fonte: Globalist

È stata la prima dirigente politica donna in Italia, nata ad Acqui Terme nel 1889  già nel 1920 si batteva per l’aborto, la parità salariale e il riconoscimento sociale della maternità. Prima senatrice a vita della repubblica

Poco conosciuta dalle nuove generazioni, in un momento in cui le conseguenze socioeconomiche della pandemia hanno riportato la condizione delle donne italiane al centro del dibattito politico, Camilla Ravera è stata la prima dirigente politica donna in Italia, che già nel 1920 si batteva per l’aborto, la parità salariale e il riconoscimento sociale della maternità. Prima senatrice a vita della storia della Repubblica, è stata anche la prima donna al vertice di un partito: lo fu del Partito Comunista d’Italia, dal 1926 al 1928 e poi nel 1930.

Alla politica dedicò tutta la vita e, nell’impegno volto alla conquista dei diritti del lavoro, nella battaglia a sostegno dell’emancipazione femminile, affrontò, coraggiosa e indomita, la lunga persecuzione fascista: sottoposta in condizioni di salute precarie a cinque anni di carcere e otto di confino.

La lunga lotta è raccontata nella sua autobiografia, Diario dei 30 anni, in cui vengono restituiti minuziosamente episodi chiave della storia italiana del Novecento: dalle prime lotte per i diritti dei lavoratori nel 1919, all’avvento del fascismo (la Ravera si trova a Mosca mentre avviene la marcia su Roma, unica delegata donna italiana alla conferenza del Comintern insieme a Gramsci e Bordiga con il quale incontra Lenin), l’organizzazione clandestina del PCd’I, le lotte interne al partito fino all’arresto, nel 1930.

Nata in Piemonte nel 1889 in una famiglia benestante, racconta che il desiderio di impegnarsi politicamente, la sua “scelta di vita”, nasce per lei nel 1913, osservando una manifestazione di operai torinesi dalla sua finestra. Si iscrive al Partito Socialista e frequenta la Camera del Lavoro di Torino dove incontra uno dei suoi maestri di vita, Antonio Gramsci.

E proprio negli anni della sua formazione politica giovanile, nasce l’impegno in favore dei diritti delle donne: nel 1922 il neonato Partito Comunista d’Italia convoca la prima assemblea delle donne comuniste a Roma, da lei presieduta. In quegli anni, la Ravera chiede e ottiene un suo spazio su L’Ordine Nuovo dedicato ai temi dell’emancipazione femminile.

In questa tribuna, il primo articolo di Camilla Ravera tratta del sotto salariato femminile, un tema ancora tristemente attuale un secolo più tardi. In un articolo successivo, intitolato “Le madri operaie” scrive:

“In primo luogo, si tratta di riconoscere alla donna, come all’uomo, il diritto al lavoro produttivo retribuito, e il fatto che la donna madre non deve perdere il diritto all’indipendenza economica. Spetta alla società di conciliare le due esigenze, del resto non inconciliabili, poiché l’allattamento, l’allevamento del bambino, oltre ad essere il soddisfacimento del naturale istinto materno, è pure opera produttiva, e utilissima, per la famiglia umana. Non è un’iniquità sociale questa che sull’operaia sposa e madre gravi un così enorme peso di estenuazione? Ma creare, allattare, allevare i figli è opera difficile, delicata, importantissima: da sola riempie la giornata di una donna, assorbe le sue energie; ed è opera produttiva per la collettività. Bisogna che sia riconosciuta come tale dalla società, l’opera della madre.”

Con queste parole chiare Ravera mette in luce un concetto importantissimo, che la società italiana non ha ancora fatto proprio: mettere al mondo un figlio non è solo una questione privata, la soddisfazione personale della donna (come ha dichiarato qualche giorno fa Tajani), si tratta di qualcosa che beneficia alla società tutta e come tale deve essere riconosciuta, aiutata e incentivata.

Camilla Ravera parla anche di aborto in termini sorprendentemente moderni per l’epoca. Ricordiamolo, siamo nel 1920, quando scrive:

“In una breve nota riferita a una questione in corso in Francia su misure legislative riguardanti il tema dell’aborto, accennavo anche alle condizioni che generano il controllo delle nascite: Come obbligare – scrivevo – un’operaia che compie il triplice lavoro di operaia, donna di casa e madre, a non guardarsi dalla maternità?”

Durante tutta la sua militanza Camilla Ravera, unica dirigente politica donna di primo piano, poiché membro del Comitato Centrale del Partito Comunista, si concentra sulla tutela delle donne lavoratrici doppiamente sfruttate. In particolare, si interessa alle mondine, per le quali organizza una serie scioperi importantissimi durante il Biennio Rosso (1919-1920):

“Le risaiole, ad esempio, che avevo visto l’intiera giornata con il capo nel sole ardente e le gambe nell’acqua melmosa, indifese dai morsi delle sanguisughe; malamente nutrite; gettate la notte sulla paglia comune del giaciglio. E, dopo quaranta giorni di fatiche e tormenti, stipate nei carri bestiami, per il ritorno a casa: con pochi soldi, la malaria nel sangue e nel fondo dell’anima una rivolta che sgorgava nei loro canti acuti e amari. E le povere donne asservite nelle altrui famiglie per sbrigarvi il lavoro domestico, senza riposo, senza difesa, sfruttate e umiliate all’estremo.”

Nel 1921 la Ravera diventa direttrice del quindicinale Compagna dove continua a denunciare le terribili condizioni in cui versa la condizione femminile in Italia.

 

Con l’avvento del fascismo e l’inasprimento della dittatura, è una delle principali organizzatrici dell’azione antifascista e riesce a rimanere nella clandestinità (prima in Italia poi in Svizzera e in Francia) per ben otto anni. Nel 1930 viene arrestata, denunciata da un compagno doppiogiochista, sul lago Maggiore e tradotta nel carcere di Varese:

Commovente il racconto di come la sua guardia carceraria l’abbia aiutata:

“Un mattino la guardiana entrò nella mia cella in un’ora insolita […] Aveva un’aria misteriosa e ansiosa. Cavò fuori dalla tasca della sua sottanona un uovo e una bottiglietta. E rapidamente mi spiegò: teneva in casa due galline che le procuravano qualche uovo per il marito malato. Ne aveva preso uno per me, perché mi aiutasse a resistere, a conservare le forze. Dovevo berlo subito, prima che qualcuno potesse arrivare; nessuno doveva sapere di quel suo piccolo aiuto: con le minacce che le avevano fatto! Aveva origliato molte volte alla porta della stanza dove avvenivano i miei interrogatori. Per questo voleva aiutarmi. E insistette con calore affettuoso perché sorbissi l’uovo.  Poi dalla bottiglietta versò nel guscio un po’ di marsala: “Beva, desse, questo sostiene”. E scappò via per tornare al suo servizio, muta e rigida come sempre. Da quel giorno, e fino a quando fui trasferita a Roma, tornò ogni mattia con l’uovo e il marsala. Nella sua rapida visita mi diceva molte cose su di sé e di noi. Era guardiana del carcere soltanto da un anno. E lei aveva accettato quel lavoro per necessità: aveva due bambini. Sentiva vergogna di trovarsi a servire quella gente”.

 

Il racconto di Camilla Ravera continua e ci narra la terribile esperienza nelle carceri fasciste e al confino: viene mandata in un paesino della Lucania, dove il podestà vorrebbe che lei insegnasse a leggere e scrivere ai giovani analfabeti prossimi alla leva, progetto arrestato dalla polizia per timore che potesse divulgare idee sovversive ai suoi alunni.

La destituzione di Mussolini nel 1943 consente finalmente la sua liberazione e da lì inizierà il suo percorso come protagonista della vita politica e istituzionale dell’Italia democratica.

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