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di Luca Billi 7 settembre 2016
La Spagna è senza governo dalla fine del 2015, la situazione politica è molto incerta e a dicembre di quest’anno potrebbero esserci nuove elezioni – le terze – che non è detto risolvano l’impasse politica in cui si trova quel grande paese. Tra il giugno 2010 e il dicembre 2011 il Belgio è stato senza governo: 535 giorni, il periodo più lungo per un paese europeo. Si tratta evidentemente di vicende molto diverse l’una dall’altra, legate alla storia, alla politica e anche alle particolari caratteristiche di questi due paesi. Però la cosa merita una qualche riflessione e pone una domanda: è possibile uno stato senza governo?
Ovviamente ora in Spagna – come sei anni fa in Belgio – un governo formalmente c’è, perché non è possibile che in uno stato moderno ci sia un tale vuoto di potere, neppure per un tempo molto breve, però si tratta di un governo dimissionario, senza alcuna legittimazione politica, che rimane in carica per gli “affari correnti”, come prescrive la formula usata in Italia. E poi ovviamente c’è la pubblica amministrazione, che continua a funzionare indipendentemente dal governo in carica, o anche se il governo non c’è: in Spagna vengono regolarmente riscosse le tasse, funzionano come sempre le scuole e gli ospedali, vengono erogate tutti i mesi le pensioni, ogni giorno vengono celebrati i processi, e così via. Tutte le funzioni fondamentali di uno stato moderno vengono tenute attive: si tratta di una macchina così complessa e così ramificata che è impossibile da fermare. Per fortuna. E soprattutto prosegue la vita dei cittadini di quel paese. La Liga è cominciata come ogni anno e Barcelona e Real sono già in testa alla classifica. In questi otto mesi in Spagna gli indicatori economici hanno segnato dei risultati positivi: come se il paese funzionasse meglio senza governo. Allora possiamo fare a meno del governo? Qualcuno immagina che sia possibile, che forse sia perfino auspicabile.
Governare, la cui etimologia risale – attraverso il latino gubernare – al greco kybernan, significa propriamente guidare la nave. Otorino Pianigiani induce a una qualche enfasi nella definizione di questo verbo:
condurre, tra gli scogli e le secche, fra le tempeste ed i venti contrari, salva in porto la nave.
L’etimologista senese, nato a metà dell’Ottocento, sa che i viaggi per mare sono perigliosi e noi con lui, ma proviamo per un attimo a escludere gli ostacoli e i pericoli e il governare si riduce all’atto di tenere la rotta: una volta individuato il porto, il capitano ha questo obiettivo, comunque fondamentale.
Il problema quindi è capire qual è la rotta: qui sta il punto. Noi da anni ne seguiamo una, ci hanno detto che là c’è il porto a cui dobbiamo arrivare e quindi che dobbiamo tenere ben saldo il timone in quella direzione. E infatti i capitani che si sono succeduti al timone hanno seguito fedelmente questa rotta e ormai il viaggio è così segnato che, anche se per certo periodo manca il capitano, è come se la nave sapesse da sola quale rotta seguire. La nave non lo sa naturalmente, siamo tutti noi marinai, fino all’ultimo mozzo, che sappiamo che quella è la direzione e quindi non facciamo nulla per deviare la nave.
Ecco io più passa il tempo e più mi convinco che il problema non è chi prende in mano il timone e che forse è perfino ininfluente che un timoniere ci sia o meno, e, allo stesso modo, con la stessa cocciuta convinzione, mi convinco che sia la rotta a essere sbagliata. Completamente. E che dobbiamo fare di tutto per cambiarla, scegliendo un altro porto.
Perché – ormai avremmo dovuto capirlo bene – il porto d’arrivo di questa nostra nave è il capitalismo, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la sperequazione nella distribuzione delle risorse, la distruzione dell’ambiente e delle risorse naturali. Per tracciare la rotta abbiamo smesso di seguire le stelle, ma osserviamo gli indici delle borse, i bilanci delle multinazionali e delle banche. Per qualche tempo io ero uno di quelli convinti che il modo in cui guidavamo la nave verso quel porto avesse una qualche importanza, che ci fosse un modo giusto e uno sbagliato di tenere la rotta e ovviamente facevo di tutto affinché prevalesse quello giusto. Invece mi sbagliavo io. Forse stavamo evitando i pericoli più gravi, certamente abbiamo impedito che qualcuno cadesse in acqua durante le tempeste – un obiettivo di cui andare comunque fieri – ma non abbiamo detto che la nave andava fermata e portata verso un altro porto.
In questi giorni siamo impegnati in una battaglia che in tanti consideriamo importantissima a favore delle istituzioni democratiche di questo paese. Forse drammaticamente decisiva, perché se vince il sì la reazione capitalista sarà spietata e questo paese tornerà indietro di decenni nel campo dei diritti economici e sociali. Ma la vittoria così auspicata del NO riuscirà solo a rallentare il cammino della nave, temo neppure a fermarla. Figurarsi se riusciremo a cambiare rotta.
Molti di noi sono cresciuti politicamente, avendo in testa le parole di Enrico Berlinguer sulla democrazia come
il valore storicamente universale sul quale fondare un’originale società socialista.
Vedendo quello che sono diventate le democrazie in gran parte del mondo quella convinzione vacilla. In questi ultimi giorni si è svolto in Cina – dove peraltro c’è al governo una dittatura – il summit dei venti paesi economicamente più importanti del pianeta. C’era anche, spaesato e senza saper bene cosa dire, il capo del governo spagnolo: era nella foto di gruppo, dietro agli altri, perché è alto. Gran parte di questi venti paesi sono formalmente democrazie. E’ una democrazia la Turchia di Erdogan, che vieta le rappresentazioni delle opere di Shakespeare, che ha licenziato oltre quarantamila dipendenti pubblici, che ha messo in carcere migliaia di professori universitari, che nega ogni diritto alle minoranze del suo paese. E’ una democrazia il Brasile, in cui è avvenuto un golpe parlamentare che ha destituito dalla presidenza una donna che aveva resistito alle dittature militari. E’ una democrazia – la più grande del mondo – quella che c’è negli Stati Uniti, che nel prossimo mese di novembre dovrà scegliere tra due candidati come Hilary Clinton e Donald Trump, ossia tra la padella e la brace, due esponenti della faccia peggiore e più feroce del capitalismo. Sono democrazie i paesi europei in cui ci sono, dalla Francia alla Germania, dall’Italia alla Gran Bretagna, partiti fascisti che partecipano alle elezioni e che vedono crescere di anno in anno i propri consensi. Dobbiamo essere consapevoli che non c’è democrazia dove c’è il capitalismo e visto che il capitalismo sta trionfando in tutto il mondo non possiamo più parlare di democrazia, tanto meno possiamo considerare questa democrazia un valore universale.
So bene che un secolo fa fu esiziale per la sinistra europea il dibattito se partecipare o meno alle elezioni, se sedere nei parlamenti “borghesi”: il capitalismo armò il fascismo e spazzò via tutto. Eppure quel dubbio rimane ancora, perché ormai abbiamo capito che questa questa nave senza pilota ci porterà al naufragio.