di Antonio Gaeta 4 maggio 2015
Nel sostenere la grandiosa esposizione di culture, che nell’interpretazione degli organizzatori dovrebbero fornire il propellente dello sviluppo alimentare in gran parte delle economie mondiali, il governo Renzi con la contestuale approvazione della nuova “legge truffa” elettorale sembra avere assicurato al suo governo (e, quindi, a se stesso) i fasti che storicamente si accompagnano all’ascesa di un “grande” della Storia. Anche la vergognosa manipolazione dei media sembra voler condizionare il giudizio favorevole di molti. Tuttavia, Matteo Renzi non si é accorto di calcare le orme su cui si fondano i principi ispiratori della cosiddetta “eurodestra”: quella che vuole l’abolizione della UE.
Simone Pierani nel supplemento a “Il Manifesto”, dedicato all’eredità della Resistenza durante gli ultimi 70 anni, ha evidenziato il tentativo della Russia di Putin di porsi a capo di un vasto movimento euroasiatico di stampo nazionalistico, che ha come principale ideologo Alexander Dugin.
Questo “interventista” di formazione fascista é riuscito a catalizzare l’attenzione di un folto stuolo di intellettuali e politici soprattutto russi, ma anche dei Paesi UE, grazie alla fusione di idee tradizionalmente appartenenti alla sinistra con idee tradizionalmente appartenenti alla destra nazionalista.
Oltre alle teorizzazioni sulla società post-liberale, che, grazie all’affermazione dei principi gerarchici, potrebbe essere in grado prima di arginare e poi di diluire i tradizionali valori democratici, fino ad ottenere la loro scomparsa, gli studiosi di Dugin scoprono nei suoi scritti concetti tipicamente di “sinistra”, come l’anti-globalizzazione, la cura del territorio e dell’ambiente di vita umano.
Tuttavia, sono l’anti-atlantismo e la contrapposizione al dominio capitalistico USA gli elementi che uniscono più saldamente le teorie politiche di sinistra con quelle della nuova destra euroasitica. Dugin, infatti, ipotizza la formazione di un blocco di potere in funzione anti-USA, che egli definisce “Impero Euroasiatico”: formazione istituzionale di tipo federale, che vedrebbe come Stato-guida la Federazione Russa di Vladimir Putin.
Tutto ciò sembra avere alcune somiglianze con il malcelato tentativo in atto all’interno della UE (e fortemente sostenuto dal nostro 1′ ministro) di abolire la dialettica democratica, sviluppatasi durante il XX secolo in Europa, per sostituirla con una tecnocrazia al servizio del capitalismo dei grandi oligarghi europei. L’EXPO di Milano in questa strategia costituisce un laboratorio, che dovrebbe favorire la maggiore incisività socio-economico-culturale dell’Europa nei confronti del resto del mondo, sebbene trincerata in un neo-liberismo di stampo autoritario.
Nell’articolo dedicato alle differenze tra istituzione liberale e istituzione nazionalistica, intitolato “La funzione dello Stato popolare europeo” (La Nuova Atlantide, 18.02.15) sottolineai come entrambe siano caratterizzate dalla forma di produzione capitalistica. Tuttavia, nella concezione nazionalistica assume grande importanza il contenitore “etnico-territoriale”, che impone anche i confini dell’espansione economico-culturale. Nella concezione liberale, invece, le etnie e i loro territori scompaiono, per lasciare il posto solo allo sviluppo del capitalismo: quello nato e cresciuto nell’Europa Occidentale ma fondato sulla privatizzazione dei capitali, aventi confini molto variabili, in rapporto con l’accettazione e il sostegno dei parenti oltre atlantico.
Sappiamo che il capitalismo USA vede limitazione delle proprie potenzialità lì dove si affermano altre culture e relative potenze economiche. Nei confronti di queste prevale sempre la volontà di scontro militare, sebbene a suo tempo il Vietnam e, comunque, la Storia di Cuba e oggi quella del Donbass abbiano dimostrato che tale scontro quasi mai paga.
L’idea dell’unione euroasiatica nasce, infatti, soprattutto dal tentativo di porre un argine alle ingerenze nascoste e palesi dei governi USA.
Tornando alle basi di riferimento della grande rassegna alimentare di Milano, si scopre che esse sono soprattutto quelle che affondano le loro fondamenta nelle culture millenarie delle etnie euroasiatiche e dei relativi territori. Le Americhe e l’Africa, infatti, sono state sempre spossessate di qualunque propria capacità di iniziativa economica, collegata con le origini etniche di tutti gli antichi popoli sottomessi, schiavizzati oppure eliminati. Pur sotto la sapiente regia delle multinazionali e quella sempre più autoritaria del governo Renzi, di fatto i principi ispiratori dell’EXPO di Milano non sono lontani da quelli fondati sul primato dei popoli euroasiatici, rispetto agli USA. Basti pensare alla grande produzione di cereali, che ha sostenuto tutte le civiltà sia europee sia asiatiche ! Basti pensare alla capacità europea di colonizzazione soprattutto agro-alimentare di interi continenti, come l’America Latina e l’Africa !
Il ricorso dell’EXPO di Milano a pratiche di sviluppo alimentare, che contraddicono quelle in larga diffusione condotte dalle grandi multinazionali del cibo, fa anche capire che il tentativo di tradurre ogni tipologia di produzione agro-alimentare in tipiche forme capitalistiche (ovvero che prescindono dal sapere più profondo dei popoli, delle etnie e dei relativi territori), é destinato a fallire. Questo non soltanto per le implicite contraddizioni tra snaturamento delle inestricabili sintesi etnico-culturali-territoriali e le naturali collocazioni delle forme di produzione rispettose dei principi di solidarietà e di cooperazione tra etnie, culture e territori diversi !
Il metodo ampiamente impiegato dalle multinazionali é quello ereditato dal “colonialismo”. Esso, quindi, é basato sulla distruzione del sapere millenario delle popolazioni autoctone, per sostituirlo con processi produttivi, che perdono finalità umane, per divenire perversi e didtruttivi ingranaggi, al solo servizio del grande capitale.
Tuttavia, il fragile e opportunistico pensiero ispiratore dell’EXPO (con il quale madestramente il 1′ mistro italiano cerca di stupire il mondo e soprattutto la UE, illudendolo delle grandi potezialità possedute dall’Europa occidentale), al pari dell’ideologia euroasiatica di Alexander Dugin, é destinato presto a fallire anche per un altro motivo. Esso, infatti, non tiene conto del diverso approccio con cui i dirigenti pubblici cinesi promuovono la tumultuosa espansione internazionale dell’economia di un continente nel continente asiatico: la Cina ! Questo approccio é fondato sul sostegno delle iniziative dei singoli Paesi in via di sviluppo e delle loro imprese autoctone.. La Cina ha subito il “colonialismo” e, quindi, sa cosa significa !
Di fatto questo Paese-continente, che ospita 1/3 della popolazione mondiale, é la dimostrazione che rispetto all’imperialismo capitalistico occidentale ogni popolo si può non solo affrancare, ma persino contrapporre, fino a diventare l’economia fagogitante di tutte le altre economie mondiali. La Cina, infatti, é già la 1′ economia del mondo, il 1′ attore del commercio internazionale, il 1′ detentore dei risparmi: circostanza che consente il più elevato tasso d’investimenti, sia nazionali sia esteri. Inoltre, la Cina é il 1′ finanziatore dei progetti dei Paesi in via di sviluppo, nonché il 1′ mercato delle materie prime. Tutto questo parla di un inarrestabile movimento di carattere non solo economico ma anche socio-politico-culturale, che presto si tradurrà in possesso della moneta di riferimento internazionale, scalzando il primato del dollaro.
Non dimentichiamo che alla guida del fenomeno cinese c’é un sempre più forte partito comunista, che fagocita alcune idee del liberismo economico, per integrarle in un sistema gobale, nel quale il partito (ovvero l’intellettuale collettivo) detta le regole e le direzioni di ogni fondamentale decisione, che resta comunque pubblica e che, come tale, non si presta alle grandi speculazioni dei grandi oligarghi privati.
Un’ “era del capitale cinese” (come la definisce la Deutsche Bank) é ormai all’orizzonte. Quale futuro, dunque, per l’Unione Europea, che annaspa nella stagnazione socio-economico-culturale, prodotta dall’ideologia liberista e tardo-colonialista ? Il solo programma commerciale cinese definito “Nuova via della seta” potrebbe dimostrare sia alla UE sia ai fautori di un “Impero Euroasiatico” che un programmatore economico realmente pubblico (ovvero non oggetto di condizionamenti privati) può essere in grado di invadere il nostro confuso e frammentato continente, con produzioni in ogni campo, in grado di annientare qualsiasi idea di sviluppo non fondata sulla guida pubblica dell’Economia.
C’é da porsi, dunque, l’interrogativo in cosa possa e debba consistere una “guida pubblica” dell’economia e non solo di questa. Cosa, dunque, potrebbe fare la UE, per non restare tra l’incudine dei trattati voluti dagli USA (soprattutto Ttip) e il martello della progressiva affermazione dell’economia cinese ? Il gruppo di studiosi raccoltosi intorno al cosiddetto “Euromemorandum” é stato ricco di spunti e di suggerimenti, che parlano una lingua comune: quella dell’intervento pubblico in economia.
Essi scrivono, ad esempio, che facendo tesoro delle esperienze passate, una nuova politica industriale (e non solo) europea potrebbe essere basata su strumenti come le attività pubbliche di ricerca, come lo sviluppo e l’innovazione produttiva, gli investimenti pubblici, tesi a sviluppare le produzioni innovative mission-oriented, nonché l’aumento delle commesse pubbliche. Inoltre, una nuova politica economica europea potrebbe affrontare specifici obiettivi di avanzamento tecnologico, in campi come l’efficienza energetica, le energie rinnovabili e la prevenzione sanitaria, per evitare di gonfiare le spese necessarie alle cure delle malattie, a fronte di una diminuzione del PIL (dovuta all’improvvisa invalidità di manodopera qualificata) e della conseguente riduzione delle imposte dirette a carico dei lavoratori danneggiati.
Diversi progetti di finanziamento potrebbero essere immaginati, come suggerisce la Confederazione sindacale tedesca (Dgb), riservando il 2% del PIL della UE a investimenti pubblici, che potrebbero avvalersi anche dei tanti fondi UE già esistenti, per lo sviluppo regionnale (FERS) e per la qualificazione della manodopera (FES) a tutti i livelli, con finalità di integrazione e, quindi, creazione e sviluppo del “Made in UE”. A tale scopo detti fondi potrebbero essere gestiti da una nuova Agenzia pubblica europea, che potrebbe anche raccogliere altri fondi, provenienti da imposizioni fiscali sulle ricchezze dei privilegiati ovvero dalle imposte pubbliche sulle transazioni finanziarie private.
Ulteriore incentivo alla sviluppo economico-produttivo potrebbe derivare da una profonda riforma fiscale, che introduca un’unica tassazione a carico delle imprese europee, per evitare la competizione tra gli stati membri della UE.
Su quest’ultima considerazione, però, si rivela tutta la inadeguatezza delle attuali classi politiche nela gestione del potere sia nei singoli Paesi aderenti all’Unione Europea, sia nell’ambito delle istituzioni della stessa UE.
Ciò che manca alle largamente condivisibili proposte del gruppo Euromemorandum é l’approfondimento su come riuscire a dotare la UE di una unica e omogenea classe dirigente, in grado di unificare l’Europa, rendendola un solo Stato, sia pur federale ! Credo sia evidente che questo “miracolo” possa nascere solo grazie all’affermazione di un’unica forza politica, capace di unificare tutta la Sinistra europea !
Su questo il dibattito é molto carente anche tra le nuove formazioni della sinistra europea. In molti loro aderenti é radicata la convinzione che cambiando il proprio Paese, si riesca a cambiare anche la UE. Tuttavia, questa convinzione sconta 2 grossi limiti. Il 1′ é quello che lo strapotere delle forze liberiste può facilmente schiacciare i tentativi in atto in singoli Paesi di far emergere nuove idee per l’Europa. Sappiamo, ad esempio, delle enormi difficoltà del governo Tisipras in Grecia e dell’accanimento mediatico contro Podemos in Spagna.
Il 2′ é quello che non affiancare all’azione nel Paese di appartenenza un’azione in tutta la UE, rischia di far permanere anche le nuove forze politiche di sinistra negli angusti confini mentali del nazionalismo.
Non si tratta di ipotizzare nuove “Internazionali socialiste”, ma molto più realisticamente di dotarsi di strumenti comuni, per incidere in tutti i Paesi della UE, favorendo la nascita e lo sviluppo di un’unica forza politica europea antagonista allo strapotere liberista. Questo é assolutamente necessario, affinché le rispettive popolazioni comprendano i danni arrecati loro dal liberismo economico, che incide in tutta la UE. Tutte le forze politiche della sinistra post ’68 e della nuova potrebbero favorire la nascista di un’unica organizzazione politica, che abbia come programma quello di “Cambiare l’Europa, per cambiare ogni singolo Paese !”
Si tratta dell’ipotesi esattamente inversa rispetto a quella più volte dichiarata dal nostro 1′ ministro Matteo Renzi, che sopravvaluta le forze dell’Italia.
“Cambiare l’Europa” può costituire un programma, che fortifica ogni nuova forza di sinistra, attualmente faticosamente impegnata in assoluta solitudine, nel cercare di porre un argine ai danni procurati dal neo-liberismo economico, emergente in versione nazionalistica e, comunque, autoritaria.
“Cambiare l’Europa” può costituire il terreno di crescita di una nuova classe politica, vaccinata rispetto al pericolo trasformista, che sempre si caratterizza grazie alle amicizie in ambienti dominati dagli oligarghi del grande capitalismo privato.. Ovvero stabilire il principio che le attuali “pubbliche amministrazioni” siano in realtà “munus” privati, pagati con il sistema delle tangenti. Quindi, esse non incarnano la vera “res publica” !
Per ovviare questa situazione “Cambiare l’Europa”, deve significare l’istituzione di un’agorà europea, in cui le nuove forme di gestione della “res publica” e dei “beni comuni” sono sottratti allo statalismo partitocratico e sono affidati alle piccole comunità locali, a quelle di area agricolo-forestale, nonché di quartiere urbano, così come alle collettività dei lavoratori, che permettono il funionamento aziendale. Questo anche come esempio di valore del lavoro, che testimonia la assoluta maggiore importanza in ogni processo produttivo della forza-lavoro rispetto al capitale.
“Cambiare l’Europa” deve significare abolire ogni eredità di tipo colonialistico, attuata da qualsiasi Paese UE e da qualsiasi multinazionale !
“Cambiare l’Europa” può significare la costruzione di un net-work, capace di giungere in ogni angolo più remoto del nostro piccolo continente, per smascherare ciò che si cela dietro le altisonanti parole degli aspiranti capi-popolo, tutti pronti a soffiare sul fuoco del populismo e del nazionalismo anti-europei.
“Cambiare l’Europa”, infine, può significare una prassi istituzionale in grado di togliere al potere centrale gli strumenti autoritari, che impongono regole economiche calate dall’alto: ovvero una nuova prassi politica che possa consistere nella raccolta dei risultati locali, frutto delle singole esperienze di eccellenza tecnologica e innovativa, fondata sul principio ”open sorce”, reso attuabile dalla crescente incidenza di tutti i ceti sociali e soprattutto delle classi lavoratrici, appartenenti a tutte le aeree UE e relativi campi ideativi, formativi e produttivi. In questo ogni sia pur piccola esperienza locale può fare da scuola a tante altre, per aprire un ampio confronto in ogni ambito produttivo d’Europa.
Questa strada permetterebbe l’affermazione di un potere pubblico, che squalificherebbe ogni forma di liberismo, di autoritarismo e di nazionalismo socio-politico-economico, nonché il superamento delle esperieze socialiste e comuniste nel XX secolo e, quindi, costituire lo strumento di confronto con lo sviluppo ripetutamente aggiornato (ma anche depurato dallo statalismo e dalla corruzione) dell’unica esperienza, che oggi si manifesta sotto forma di impetuosa crescita socio-economico-culturale mondiale in atto nel corso del XXI secolo: quella cinese.