Cambia ma resta uguale, resta uguale ma cambia.
Enigmi e certezze dell’inesorabile passaggio del tempo
Quaderno degli appunti (gennaio 1959)
Un nuovo anno è cominciato.
Riflessione: il tempo passa e, nel passare del tempo, cambia inevitabilmente il mondo (l’insieme delle cose e dei fatti che, tutti insieme, costituiscono il mondo). Più precisamente cambia una parte del mondo mentre un’altra rimane uguale; ogni cosa e ogni fatto cambiano in parte e in parte rimangono uguali.
Domanda. Quando una cosa cambia come possiamo dire che è rimasta la stessa cosa? Es. Una montagna perde un pezzo a seguito di una frana. Penso che è rimasta la stessa montagna con una parte modificata. Ma se un terremoto eccezionale riducesse la montagna a ad un cumulo di macerie distribuite nell’area circostante ad un livello massimo di dieci metri potrei pensare che la montagna esiste ancora? Penserei allora che quella montagna è scomparsa ossia che non esiste più.
Domanda conseguente. Qual è la “quantità del cambiamento” che comporta la fine, la scomparsa (la morte) della cosa che è cambiata?
Questa domanda si presenta particolarmente importante se si pensa a quella particolare cosa che ognuno di noi chiama “io” (la mia persona, Il mio essere). Anche questa cosa, come tutte le altre che costituiscono il mondo, cambia nel passaggio del tempo (ogni anno, ogni giorno, ogni istante infinitesimale in cui passa il tempo).
Il mio io cambia dunque in ogni momento; e verrà il momento in cui l’insieme dei cambiamenti prodotti dal tempo raggiungerà una quantità (e una qualità) tale per cui non si potrà più dire che quella cosa che chiamiamo “io” esiste ancora e si dovrà dire che essa è scomparsa, non esiste più: più precisamente “è morta”. Questo vale per me, e a quanto sembra, vale per ogni altro essere umano, e anche per ogni essere vivente, e anche per gli esseri non viventi come le montagne, per tutto il tempo in cui questo mondo esisterà (perché anche il mondo nel suo insieme cambia e quindi finirà di esistere).
Questo pensiero non è particolarmente allegro, anzi, se vogliamo dire la verità e definirlo con un termine appropriato, è angosciante.
Probabilmente, tutti i riti che i più diversi popoli hanno inventato per segnare l’inizio di un nuovo anno hanno lo scopo di esorcizzare la sofferenza provocata proprio dal pensiero che il tempo, passando, distrugge inevitabilmente ogni vita e ogni cosa.
I riti di cui parliamo prendono il nome di “feste”. La funzione di queste feste è soltanto quella “distrarre” la mente dal terribile pensiero sopra descritto mediante atti, gesti, manifestazioni di “allegria”.
A mio parere, queste feste ottengono un risultato contrario allo scopo che si prefiggono: invece di ridurre l’angoscia l’accrescono.
Più ci si vuole distrarre, più in realtà non si fa che pensare – consciamente o inconsciamente – che il passaggio del tempo è inevitabile. Quindi, alla fine, si soffre di meno quando non si fa festa e ci si dedica alle normali occupazioni le quali, come possiamo osservare, ci distraggono dal pensiero che il tempo passa meglio di quanto non facciano i riti e le feste.
Secondo quanto mi è sembrato di capire sulla base di riflessioni personali e di letture varie, si riesce ad ottenere un risultato più soddisfacente nel controllo dell’angoscia esistenziale (sia che si faccia sia che non si faccia festa) proprio decidendo di pensare intenzionalmente che il passaggio del tempo è “inevitabile” e “assolutamente certo”.
La sofferenza ovviamente rimane, tuttavia, una volta che si è deciso di accettare la verità del passaggio inevitabile del tempo, la nostra attenzione si sposta dal momento in cui il nostro io “finirà” al momento in cui esso è ancora “uguale a se stesso” nel tempo presente; il tempo nel quale esso vive e deve necessariamente sopportare le sofferenze più o meno gravi che la vita comporta, ma può anche gioire delle cose (poche e preziose) che in questo mondo (nel tempo presente) sono buone, giuste belle.
Comunque tanti auguri di un lungo presente felice a tutti coloro che si imbattono in queste righe.
Nell’immagine “Omnia tempus habet” Il tempo possiede (è padrone di) ogni cosa