Fonte: La stampa
Cacciari: “Patetica l’opposizione unita senza un programma, non basta Bella Ciao”
Una piazza non fa primavera. E Massimo Cacciari vede in quella del campo largo i limiti esiziali di una federazione senza federatore né programma. «Non basterà cantare Bella Ciao in nome dell’antifascismo a contrastare il governo» dice. Il tempo poi, è poco.
È il giorno delle opposizioni in piazza. Possiamo azzardare un parallelo con il fronte popolare anti Le Pen, tutta la sinistra francese, da Glucksmann a Mélenchon?
«La situazione è molto diversa, lì si tratta dell’ultimo disperato tentativo di fermare l’irresistibile ascesa di Marine Le Pen, una politica che deve ancora accreditarsi e la cui evoluzione è dubbia. Qui abbiamo l’opposizione in piazza contro un governo che, piaccia o no, non ha certo, a livello internazionale, i tratti del Rassemblement National. Meloni ha una posizione consolidata sul piano europeo e sta giocando una partita importante da protagonista, se andrà in porto la riconferma di Von der Leyen sarà anche grazie a lei. In Francia assistiamo a un richiamo contro il pericolo della destra di cui siamo stati testimoni più volte al secondo turno delle presidenziali, quella messa insieme emergenziale dei cocci della democrazia repubblicana al suono della Marsigliese avrà effetto, come ha già avuto effetto. In Italia, dove il campo largo sfida una premier in carica che non è Le Pen e che si è distinta in tutti i modi dal suo passato fino a guadagnare una credibilità internazionale, non funzionerà: pensare che qui da noi bastino l’antifascismo e Bella Ciao è patetico».
Nella prospettiva del campo largo pesa più quello che unisce Pd, M5s, Avs, Più Europa e socialisti o alla fine prevarranno le differenze?
«Il problema non sono le differenze o le similitudini ma il programma. Quel che limita il campo largo è l’assenza di strategia. In campagna elettorale non abbiamo sentito una sola parola su come affrontare le crisi economiche e finanziarie imminenti, come gestire la crescita del debito quando ormai è chiaro che il paracadute della Bce funzionerà sempre meno, come trattare le vere emergenze del Paese, il regresso spaventoso del welfare, la sanità, la scuola, Non abbiamo sentito nulla se non slogan. La debolezza delle opposizioni non è il loro essere disuniti ma il fatto che nessuno di loro abbia un programma, un progetto. Sono divisi, sì, ma sul nulla».
Nel cantiere delle opposizioni unite dovrebbero entrare anche Renzi e Calenda?
«Dopo la figuraccia delle ultime elezioni, bisognerebbe smettere di parlare di Renzi e Calenda. Facciano quel che vogliono. Il discorso qui riguarda un’area verde e di sinistra più il Pd e i 5 Stelle. Ma una federazione la fai quando hai un federatore: dalla competizione per l’egemonia e dalla dialettica politica deve emergere qualcuno o non si combinerà nulla».
L’ultima volta buona fu l’Ulivo e federatore era Prodi. Serve un Papa straniero?
«Prodi non veniva da fuori ma dalle correnti più forti di una certa Dc, era un pollo allevato in batteria. Da fuori non sono venuti neppure Berlusconi o Renzi. Chi viene da fuori dura lo spazio di un mattino, come Grillo. Oggi non ci sono più i ceti politici che portarono a Prodi, gli eredi di una tradizione culturale e politica di spessore, altro che Schlein e Conte, con tutto il rispetto. Se manca la diagnosi è difficile trovare la terapia. Schlein ha iniziato un’autocritica. Il metodo è buono, deve trovare il programma, deve spiegare quali riforme pianifica, in base a quali trattati lavora alla pace, quali compromessi e quale politica internazionale autonoma vuole portare avanti in Europa, giacché la differenza tra livello europeo e livello nazionale non ha più senso. Uno dei meriti della Meloni è aver capito che per combinare qualcosa doveva abbandonare i toni sovranisti ormai obsoleti».
Le opposizioni dovrebbero imparare dalla maggioranza Meloni, capace di coabitare con le sue tante divergenze?
«Al netto delle differenze, specie tra Pd e 5 Stelle, le opposizioni, superata la fase renziana, potrebbero trovarsi. È una situazione opposta a quella del centrodestra, dove convivono contraddizioni più profonde, a partire da due linee di riforma antitetiche come il premierato e l’autonomia, la prima che accentua i tratti centralistici del nostro assetto istituzionale e l’altra che va verso il decentramento. Eppure il centrodestra governa. È vero che, prova ne siano gli ultimi trent’anni, il collante del potere a destra è da sempre fortissimo. Ma di fatto mentre loro stanno insieme malgrado le differenze la sinistra non si trova malgrado le molte cose in comune».
Citava il metodo di Schlein, che ha scommesso sulla pluralità, sia per quanto riguarda i dem sia per il campo largo. Questo l’accredita come potenziale federatrice?
«La sua linea sul piano metodologico è l’unica possibile, Schlein deve riuscire a trovare con i 5 Stelle l’accordo su chi debba essere il primum inter pares. Non basta mettere dentro Tarquinio e il suo opposto, quello non è pluralismo ma arlecchinismo. E il primum inter pares deve avere un programma. A destra si è passati da Silvio Berlusconi, che da primum inter pares aveva trovato una virtuosa mediazione con la Lega di Bossi e con la destra meridionale, a una coalizione con contraddizioni più esplosive come il premierato e l’autonomia. La sinistra avrebbe gioco facile a fare leva su questo per far esplodere il governo ma non lo fa perché non ha un programma, oltre ad aver abbandonato ogni vero discorso federalista».
Il campo largo si fraziona sulla politica estera. Eppure gli italiani sembrano votare pensando più all’economia domestica che alla guerra.
«L’opinione pubblica non avverte il nesso tra la dimensione delle grandi tragedie internazionali e le nostre miserie quotidiane, ma il nesso è cogente. Bisognerebbe che i politici lo spiegassero, che riconducessero a dimensione politica la soluzione dei conflitti. Su questo però non manca solo l’unità tra le forze d’opposizione, manca una linea netta anche all’interno dei singoli partiti».
Pensa che Elly Schlein possa fidarsi di Giuseppe Conte?
«Se le regionali vanno male il campo largo è morto. Ma rischia anche prima, se non affronta unito le sfide finanziare della fine dell’anno. Vedremo l’epilogo nel giro di pochi mesi. Vedremo intanto se, a Commissione nominata, si riuscirà a porre fine alla tragedia ucraina, da lì può riprendersi l’economia europea, perché andando avanti con un’economia di guerra e l’aumento del debito non ci sarà alcun margine per la politica di welfare».