Fonte: La Stampa
L’attacco di Hamas ha segnato una svolta nello storico conflitto tra Israele e Palestinesi. Si tratta di una vera e propria azione di guerra, che travalica, per organizzazione e dispiegamento di forze, i suoi caratteri ancora propriamente terroristici. Conflitto in atto dal 1947, come noto, ma se guerra, nel senso tradizionale, vi è stata, questa è stata condotta fino a ora da una parte soltanto, come per l’invasione del Libano del 1982; lo scontro si è svolto sempre nella forma tipicamente asimmetrica di quello tra Stato e eserciti regolari contro “movimenti”, le diverse Intifada, o parti e gruppi “estremisti”. Oggi l’asimmetria rimane solo tra forze militari, per il resto sembra si sia giunti a una lotta tra Stati. Questo rende del tutto illusoria l’idea che il conflitto possa venire “incapsulato”.
Ciò vale per questa tragedia come per quella, ovviamente di natura del tutto diversa, ucraina. Soltanto decisioni che derivino da intese tra grandi potenze possono permettere di pensare a vie d’uscita. Ma proprio il “disordine globale” sembra rendere questa prospettiva nient’altro che una speranza. Qualsiasi nuova road-map, a partire dall’arresto della guerra, può essere oggi realisticamente tracciata soltanto se gli Stati Uniti vorranno in qualche forma riaprire la strategia che portò prima a Camp David e poi alla firma dell’accordo transitorio di Oslo 2 nel 1995. È del tutto evidente che se invece si ritiene qualsiasi accordo ormai impraticabile, non vi è alternativa alla guerra – e a una guerra infinita, a meno di non mirare all’impossibile, e cioè all’annullamento della nazione palestinese.
Si deve riconoscere che sono crollati i pochi fattori che sostenevano quegli accordi, in base ai quali iniziò l’autogoverno palestinese nella fascia di Gaza. Alcuni dei protagonisti di quella fase, tra cui Rabin, assassinato da un estremista religioso ebraico, sono morti, altri non si sono mostrati all’altezza del loro compito, come Arafat, che morì nel 2004, e l’intero gruppo dirigente dell’OLP, incapaci di contrastare Hamas, delegittimati sempre più agli occhi del loro popolo per corruzione e incompetenza, e isolati sul piano internazionale a causa di colossali errori, come l’appoggio all’Iraq nella prima guerra del Golfo. È chiaro che la matassa poteva essere sbrogliata soltanto se presa da questo bandolo: formare una Autorità palestinese ferma sul principio, da realizzarsi gradualmente, “sicurezza in cambio di terra” e in grado di mostrare che il riconoscimento del diritto dello Stato di Israele aveva assunto valore storico, strategico.
Parallelamente, dall’altra parte – e in questo senso proseguirono gli accordi di Oslo -, occorreva favorire il processo di formazione di una vera sovranità statuale palestinese, inesistente fino a quando si fosse ridotta a una serie di enclaves divise tra loro da strade divisorie, e Israele, cioè un altro Stato, avesse mantenuto il controllo di commercio, forniture, flusso dei lavoratori, spazio aereo. Inutile ricordare le condizioni della popolazione a Gaza, denunciate per anni da tutte le organizzazioni umanitarie internazionali, e destinata oggi a subire un altro, atroce esodo, condotta alla disperazione. Zeev Sternhell, storico dell’Università ebraica di Gerusalemme, disse: solo una mente malata può sperare che l’occupazione possa portare alla pace. Le occupazioni portano alla guerriglia infinita. Altrettanto delle ideologie irrealistiche, buone forse a tenere a galla falliti gruppi dirigenti, ma soprattutto ad affossare i propri popoli. Un dirigente di Hamas ha detto: combatteremo Israele fino al giorno del Giudizio – poteva dire: condanneremo i palestinesi alla miseria e alle sofferenze fino a quando saremo tutti morti. È altrettanto irrealistico e causa inesorabile di sciagure pensare che lo Stato di Israele possa venire distrutto, che credere che possa restare “in pace” una nazione privata di ogni reale sovranità.
Ma Oslo è morto, sentenziò già Sharon nel lontano 2002, e da allora non ha fatto che continuare a morire. Vuol dire che l’ostilità non conosce più limiti? Che l’inimicizia ha fagocitato tutto? Anche se così fosse per i diretti contendenti, questo non potrebbe valere per noi, poiché questa guerra può avere incalcolabili conseguenze sul destino di tutti. La storia pone anzitutto agli Stati Uniti una domanda concreta: conviene ai suoi attuali disegni geo-politici mantenere tra Israele e palestinesi una situazione che, lasciata a sé stessa, potrebbe concludersi soltanto in base al “classico” principio: “i confini del mio Stato sono definiti soltanto dai limiti della mia forza” e al suo interno non tollero altri Stati ma al più solo dei ghetti? Dovrebbe risultare chiaro da ogni nostra azione che combattiamo Hamas o Hezbollah proprio perché la loro strategia annulla ogni possibilità di pace ed è contraria agli interessi della nazione palestinese, interessi legittimi, che la comunità internazionale deve di nuovo ribadire, e proprio in questi tragici frangenti, fondati sul diritto alla dignità e sovranità. Gli Stati Uniti sono oggi impegnati nel ridisegnare un Nomos della Terra nel confronto sempre più pericolosamente ravvicinato con imperi in evidente decadenza e altri invece in crescita con potenzialità difficilmente calcolabili. Che una faglia così decisiva come quella che corre tra Israele e Palestina resti aperta, con i conseguenti terremoti che può sempre suscitare in tutto il Medio-oriente, appare contraria ai loro interessi, a ogni linea di Realpolitik. Gli unici soggetti in grado di far riprendere la strada della trattativa sono loro, piaccia o no; la Russia è fuori gioco, la Cina da lontano assiste al moltiplicarsi delle difficoltà dell’Occidente, l’Europa anche assiste, ma per impotenza.
Il grande politologo Raymond Aron rispondeva a chi gli domandava perché non avesse mai fatto politica: «Perché voglio pensare». Con tutto il cuore dobbiamo augurarci che la leadership politica americana sia oggi in grado di smentirlo.