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di Luca Billi 13 maggio 2015
Come immagino sia successo anche a voi, nella mia – ormai lontana – vita scolastica ho incontrato alcuni bravi – e brave – insegnanti e altri decisamente meno bravi. A essere sincero il mio giudizio di allora, la mia valutazione da studente, non combacia con quello che penso adesso. Ci sono insegnanti che allora ritenevo capaci, che apprezzavo molto, e di cui ora ho un ricordo sbiadito e altri, che allora consideravo malissimo, che invece mi hanno lasciato un segno, che hanno contribuito in maniera rilevante alla mia educazione. E il verbo insegnare, etimologicamente, significa esattamente questo: imprimere un segno nella mente.
A scuola puoi imparare molte cose: alcune ti serviranno e altre no. Personalmente ne ho imparate molte a scuola, ma tante – forse di più – le ho imparate da solo, leggendo, provando a scoprire quello che avevo voglia di sapere. La scuola, dalle elementari con la maestra unica all’università, hanno contribuito a farmi diventare, nel bene e nel male, quello che sono adesso. Ovviamente a questo hanno concorso, in maniera determinante, i miei genitori e anche tante persone che ho incontrato durante la mia vita. Per me in particolare la politica è stata un’occasione di formazione importantissima e sono tanti i “segni” che mi sono stati impressi dalle compagne e dai compagni che ho avuto la fortuna di incontrare. So che per altri hanno avuto questa funzione lo sport o l’ingresso nel mondo del lavoro, perché l’educazione passa, fortunatamente, per molte vie.
Qualche anno fa mi sono occupato di scuola anche nella mia attività politica e amministrativa e mi sono fatto un’idea, forse banale, ma di cui sono profondamente convinto: la buona scuola la fanno i buoni insegnanti. Poi occorrono edifici scolastici adeguati, sono utili i supporti, specialmente quelli offerti dalle nuove tecnologie, sono indispensabili ovviamente le risorse, ma la scuola è fatta prima di tutto dagli insegnanti. E quindi la politica, quando si occupa di scuola, dovrebbe prima di tutto affrontare questo tema, dovrebbe partire dagli insegnanti.
L’istruzione è un settore troppo importante per ragionare solo in base alla simpatia con cui si guarda al governo che di volta in volta propone la riforma “epocale” della scuola. Così sarebbe semplice: io detesto il governo e quindi detesto la riforma della scuola che questo propone. Non basta neppure dire che la riforma di renzi renderà la scuola elitaria o che è poco democratica, perché affida ai dirigenti scolastici un potere arbitrario.
Credo che – soprattutto noi che detestiamo questo governo e che, per una buona serie di motivi, critichiamo questa riforma – dovremmo ragionare sul tema fondamentale della valutazione degli insegnanti. Nelle scuole, in tutte le scuole – di ogni ordine e grado, come si diceva una volta – devono esserci dei meccanismi di valutazione e devono esserci le persone per farli valere. Naturalmente questi meccanismi devono essere trasparenti e oggettivi, ma devono esserci e possono dare luogo a differenze, anche di retribuzione, in base al merito. E se questi giudizi sono sbagliati o se producono differenze arbitrarie bisogna punire i dirigenti che ne sono responsabili. Anche mandandoli a fare un altro lavoro, perché questo è molto importante e richiede persone capaci, molto capaci.
La scuola italiana soffre di quello che soffriamo tutti noi che lavoriamo nella pubblica amministrazione, ma ovviamente, essendo una delle funzioni fondamentali di una società democratica, questa sofferenza è ancora più grave e ha conseguenze più pericolose. Nella scuola italiana all’inamovibilità si aggiunge la routine e in più gli insegnanti sono sottopagati: da questa situazione, da questa miscela perniciosa, non può nascere una buona scuola. Nella scuola italiana non abbiamo coltivato l’uguaglianza, ma l’appiattimento; e dall’appiattimento nasce solo il declino. La scuola – come la politica – è lo specchio della società e, visto che nella nostra società si coltiva l’irresponsabilità, non possiamo far finta di credere che nella scuola viga il principio di responsabilità, nonostante gli sforzi, ormai eroici, con cui tanti insegnanti continuano a svolgere con coscienza il proprio lavoro. Io critico la cosiddetta riforma di renzi proprio perché non affronta, non vuole affrontare, questo nodo.
Proprio perché teniamo alla scuola, alla pubblica istruzione – come noi “novecenteschi” continuiamo ostinatamente a chiamarla – la valutazione non deve essere considerata uno strumento di controllo e di punizione, non può essere legata solo alla competitività, magari scimmiottata dai criteri del mercato. La valutazione, nelle forme e nei modi che possono essere sperimentati – a partire dall’autovalutazione e da esperienze virtuose che già ci sono, nonostante il turbinio delle riforme che si sono succedute in questi anni – deve servire a far crescere l’idea di educazione, al di là di ogni retorica del merito. Come ho detto prima non credo che gli studenti abbiano gli strumenti per valutare i loro insegnanti o meglio non credo sia giusto che le loro valutazioni siano determinanti: francamente questo non sarebbe un passo in avanti nella loro crescita pedagogica. Naturalmente gli studenti devono essere protagonisti della scuola e credo possano esserci strumenti per trovare nuove forme di cooperazione e di collaborazione tra studenti e insegnanti, con obiettivi mirati scuola per scuola, classe per classe, studente per studente, sulla base delle diverse condizioni di partenza e non del risultato da ottenere.
Fidiamoci degli insegnanti, diamo loro le risorse per studiare, paghiamoli come meritano, lasciamoli lavorare nella loro sacrosanta autonomia, rispettiamoli per il lavoro che fanno, poi valutiamoli, in maniera trasparente. E se non sono in grado di fare un lavoro così delicato, mettiamoli a fare altro. E così i bravi insegnanti potranno continuare a lasciare il loro segno – positivo – sui loro studenti; che poi sono i nostri figli, sono quelli a cui dovremo affidare – speriamo il prima possibile – questo scalcagnato paese.