di Raniero La Valle
La “cifra” della riforma
Con gli auguri di Natale vi segnalo, pubblicandolo sul sito di chiesadituttichiesadeipoveri.it, il discorso alla Curia di papa Francesco, che si potrebbe definire epocale, nel senso di un passaggio da un’epoca all’altra che la Chiesa non può affrontare facendo solo finta di cambiare alla maniera del Gattopardo, che Francesco evoca come monito. Il discorso del 21 dicembre non è come gli altri discorsi alla Curia perché corregga i suoi errori e si lasci riformare. È il discorso della riforma della Chiesa, ma così profonda che parte dall’evento originario di Dio che “ha preso un corpo umano e lo ha fatto proprio per sempre”, secondo le parole molto realistiche del mistico egiziano moderno Matta el Meskin citate dal papa, e giunge fino all’interrogativo drammatico del cardinale Suhard prima del Concilio se si fosse all’ora dell’“Agonia della Chiesa”, fino al lamento del cardinale Martini su una Chiesa in ritardo di due secoli, fino alla svolta del Concilio Vaticano II e all’annunzio dirompente del Dio della misericordia, nonviolento e tanto giusto da non scartare nessuno di papa Bergoglio. Nel discorso c’è una frase non nuova, ma che suona come il grido che suggella una intera storia e apre a una storia nuova e tutta diversa: “Fratelli e sorelle, non siamo nella cristianità, non più!”. La fede non è più un presupposto scontato del vivere comune, anzi è proprio il contrario. Dunque tutto dipende dalla testimonianza della fede, e non dal suo “deposito” come per prima deve capire la Congregazione “per la dottrina della fede” e quella “per l’evangelizzazione dei popoli”, compresi i popoli che passavano per essere già evangelizzati.
Ma la cosa riguarda ancor più il nuovo Dicastero per lo sviluppo umano integrale, perché l’integralità dello sviluppo non vuol dire solo che, ben oltre l’economico, va promosso tutto l’uomo, ma che vanno promossi tutti gli uomini, tutti gli uomini e le donne, tutti integralmente umani. Perché la novità è questa (forse la meravigliosa eresia di cui accusano papa Francesco) che “l’umanità è la cifra distintiva con cui leggere la riforma (della Chiesa)”. L’integralità infatti è che “l’umanità ci accomuna in quanto figli di un unico Padre”, “l’umanità chiama, interpella e provoca, cioè chiama a uscire fuori e a non temere il cambiamento”.
Usciamo dunque anche noi: l’umanità frammentata e divisa, anche per le cattive rappresentazioni di Dio, deve e può diventare una cosa sola. E questo è il Natale.
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Alla Curia Romana. Il Papa: «Oggi l’Occidente non è più cristiano. Ascoltare il grido dei migranti. Per Dio nessuno è straniero»
Il primo è più importante compito della Chiesa è l’evangelizzazione. A maggiore ragione oggi, in una società post cristiana dove non è più possibile distinguere come accadeva in passato tra due versanti: da una parte un mondo di credenti nel Risorto, dall’altra una realtà ancora da evangelizzare.
Nella tradizionale udienza dalla Curia Romana per gli auguri natalizi, il Papa si è soffermato sulle ragioni e le radici della riforma della Chiesa che sta portando avanti. Punto di partenza la consapevolezza che ormai «non siamo nella cristianità, non più». Significa che «le popolazioni che non hanno ancora ricevuto l’annuncio del Vangelo non vivono affatto soltanto nei Continenti non occidentali, ma dimorano dappertutto, specialmente nelle enormi concentrazioni urbane che richiedono esse stesse una specifica pastorale».
Detto in altro modo, più perentorio, «non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata». Un cambiamento d’epoca che richiede anche un riposizionamento del modo di pensare e, sotto il profilo più strettamente pastorale la necessità di ripensare la tradizionale distinzione tra la Congregazione per la Dottrina della fede e quella per l’evangelizzazione dei popoli.
Allo stesso modo occorre rivedere l’atteggiamento nei confronti di un realtà informativa e culturale sempre più digitalizzata, in cui l’immagine prevale sull’ascolto e sulla parola scritta. Una sfida alla quale la Chiesa ha inteso rispondere con il nuovo Dicastero per la comunicazione. Oggi infatti «non si tratta più soltanto di “usare” strumenti di comunicazione, ma di vivere in una cultura ampiamente digitalizzata che ha impatti profondissimi sulla nozione di tempo e di spazio, sulla percezione di sé, degli altri e del mondo, sul modo di comunicare, di apprendere, di informarsi, di entrare in relazione con gli altri».
Una prospettiva in virtù della quale «rispetto ai servizi diversificati, prevale la forma multimediale», il che implica, a livello di risposta, «una conversione istituzionale e personale per passare da un lavoro a compartimenti stagni – che nei casi migliori aveva qualche coordinamento – a un lavoro intrinsecamente connesso, in sinergia».
Ma nella lunga e densa analisi di papa Francesco una ampio capitolo è dedicato naturalmente anche agli ultimi, agli scartati, agli emarginati. O per meglio dire al dovere di mettere, alla luce del Vangelo, l’uomo nella sua interezza al centro di ogni azione pastorale. Per questo è nato il Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale. Uno sviluppo che «si attua nel servire i più deboli ed emarginati, in particolare i migranti forzati, che rappresentano in questo momento un grido nel deserto della nostra umanità». La Chiesa è dunque chiamata «a ricordare a tutti che non si tratta solo di questioni sociali o migratorie ma di persone umane, di fratelli e sorelle che oggi sono il simbolo di tutti gli scartati della società globalizzata. È chiamata a testimoniare che per Dio nessuno è “straniero” o “escluso”. È chiamata a svegliare le coscienze assopite nell’indifferenza dinanzi alla realtà del Mar Mediterraneo divenuto per molti, troppi, un cimitero».
Sottolineature, prospettive, sfide, progetti, che nell’analisi di papa Bergoglio sono altrettante occasioni per far riagganciare la Chiesa alla società di oggi, per farle recuperare il ritardo «di duecento anni» denunciato dal cardinale Martini in un passaggio, citato da Francesco, dell’ultima intervista rilasciata prima di morire. La Curia Romana infatti non è e non deve essere «un corpo staccato dalla realtà, anche se il rischio è sempre presente, ma – ha sottolineato il Pontefice in chiusura di intervento –va concepita e vissuta nell’oggi del cammino percorso dagli uomini e dalle donne, nella logica del cambiamento d’epoca». La Curia Romana infatti – «non è un palazzo o un armadio pieno di vestiti da indossare per giustificare un cambiamento. La Curia romana è un corpo vivo, e lo è tanto più quanto più vive l’integralità del Vangelo».