Brancaccio: “Caro Renzi, avevano ragione i gufi”

per Gabriella
Autore originale del testo: Luca Sappino
Fonte: L'Espresso
Url fonte: http://espresso.repubblica.it/affari/2014/07/28/news/avevano-ragione-i-gufi-1.174691

Il governo deve fare i conti con una crescita più lenta del previsto. «Renzi, come Monti, ha sbagliato i calcoli». E le privatizzazioni sono state un flop. Ma una manovra correttiva «sarebbe una follia».

Intervista all’economista Emiliano Brancaccio di Luca Sappino

Il Fondo Monetario Internazionale e Bankitalia dimezzano la crescita che era stata prevista dal governo. «Non cadiamo mica tutti dal pero», rivendica all’Espresso l’economista Emiliano Brancaccio: «Avevamo più volte avvisato che le stime di Renzi, così come quelle di Letta, Monti e della stessa Commissione europea, erano irresponsabilmente ottimistiche». «Quando si attuano politiche di restrizione dei bilanci pubblici», nota Brancaccio, «il risultato prevedibile è che la domanda di beni e servizi cali e il Pil venga ulteriormente depresso». «Previsto» era pure il flop delle privatizzazioni, con Fincantieri che ha fruttato la metà di quanto annunciato dal governo.

Servirà dunque una manovra correttiva?
«Sarebbe una follia», dice ancora Brancaccio, perché «una manovra che taglia ancora la spesa pubblica e insiste con la pressione fiscale finirebbe per aggravare gli effetti depressivi della precedente».

Professore, Matteo Renzi ha detto ad Alain Friedman: «Che la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5% non cambia niente dal punto di vista della vita quotidiana delle persone». È così?
«Il livello di approssimazione di certe dichiarazioni è sorprendente. Questi temi non andrebbero affrontati in modo così superficiale. Quelle cifre fanno la differenza tra un’economia che vede crescere l’occupazione e un’economia che continua a distruggere posti di lavoro, e in prospettiva possono fare la differenza tra uno Stato solvibile e uno Stato in bancarotta».

Renzi, presentando il Def, aveva detto di aver abbassato «prudenzialmente» la previsione rispetto a quella fatta dal governo Letta. Il premier si era poi detto certo, però, che sarebbe stata più alta. In un’ intervista all’Espresso di qualche mese fa  lei manifestò un parere opposto. E così è stato. Cosa non ha funzionato?
«A quanto pare, quelli che il nostro premier chiama “gufi” hanno avuto ragione, ancora una volta. Sono ormai più di tre anni che il governo, e la stessa Commissione europea, nel prevedere l’andamento del Pil peccano sistematicamente di ottimismo. Lo fece Monti, l’ha fatto Letta e ora lo fa Renzi. La realtà è che, se ci va bene, quest’anno ci troveremo con crescita zero».

Perché le stime si rivelano puntalmente troppo ottimistiche?
«Perché in Europa si evita di affrontare un’evidenza scientificamente inconfutabile: quando si attuano politiche di austerity la domanda di beni e servizi è destinata a cadere, e con essa cade anche il livello del Pil. Persino il Fondo monetario internazionale ha dovuto riconoscere che questo effetto era stato trascurato. La Commissione europea e i governi nazionali dell’eurozona si ostinano a eludere il problema».

E gli effetti degli 80 euro?
«Quelli non si vedono perché i lavoratori dipendenti sono stati costretti, in questi anni, a erodere i loro risparmi per far fronte alla crisi. In questo scenario è illusorio pensare che gli 80 euro in più in busta paga si possano interamente trasformare in consumi. Ma soprattutto, occorre ricordare che la famigerata manovra degli 80 euro si inscrive in una politica di bilancio che nel complesso rimane depressiva. Il governo continua a sottrarre all’economia più di quanto eroghi: l’obiettivo generale della politica economica resta infatti quello di attuare un prelievo fiscale che eccede la spesa pubblica al netto degli interessi. Questo significa che i cittadini e le imprese si trovano da un lato con 80 euro in più, ma dall’altro lato registrano tagli ulteriori ai servizi e aumenti delle tariffe. E temono incrementi di altre voci di imposta. L’effetto finale sulle capacità complessive di spesa resta dunque negativo».

Potrebbe essere più utile il jobs act, di cui pure si sono perse le tracce?
«No. Ancora una volta si ignorano i risultati accumulati dalla ricerca scientifica per oltre un ventennio: le politiche di precarizazzione non accrescono gli occupati ma fanno sì, semmai, che l’occupazione diventi più instabile. I contratti precari possono al limite indurre le imprese a creare posti di lavoro nelle fasi di espansione ma poi, quando c’è crisi, quegli stessi posti di lavoro, essendo precari, vengono immediatamente cancellati».

Sarà necessaria una correzione del Def in autunno? Il governo ancora nega la manovra correttiva…
«Una restrizione ulteriore del bilancio sarebbe una follia. Tagliare ancora la spesa e insistere con la pressione fiscale non può che aggravare gli effetti depressivi delle manovre precedenti».

Il Financial Times mette l’accento sulle privatizzazioni ferme al palo. La vendita di Fincantieri ha prodotto la metà del previsto. La dismissione del 40 per cento di Poste slitterà di un anno. Sempre il Financial Times scrive che per rispettare quanto previsto nel Def, cioè per ricavare 11 miliardi con cui ridurre il debito pubblico, il governo dovrà mettere sul mercato altre quote di Eni e Enel. È una strada?
«Anche sulle privatizzazioni i cosiddetti “gufi” avevano lanciato un chiaro allarme: in una fase di crisi i prezzi di mercato degli asset sono bassi e le privatizzazoni diventano vere e proprie svendite. L’obiettivo del governo di ricavare 11 miliardi non può che essere disatteso, come già dimostra la vicenda Fincantieri».

C’è un momento migliore per farle?
«Di certo non ora. Ma io credo che bisognerebbe mettere in discussione la logica delle privatizzazioni nel suo complesso. Questo è un paese con scarsa memoria, ma basterebbe forse ricordare gli effetti del record di privatizzazioni che l’Italia ha segnato negli anni ’90. Non mi pare che quell’onda di vendite di asset pubblici abbia dato benefici al paese. Di fatto, gli unici a trarne vantaggio furono quei gruppi di interesse nazionali ed esteri che beneficiarono dello shopping di spezzoni di apparato pubblico a prezzi di saldo».

Disoccupazione, povertà relativa, crescita, debito pubblico. Tutti i valori sono peggiori di quelli registrati nel 2011, anno della lettera della Bce e della chiamata dei “tecnici”. Perché eravamo più preoccupati tre anni fa?
«Per adesso siamo meno preoccupati perché Draghi ha compiuto una mossa che cambia il quadro. Nel 2011 l’Italia e gli altri paesi periferici europei erano esposti alla speculazione internazionale. Gli operatori sui mercati finanziari vendevano, i prezzi dei titoli crollavano e i tassi d’interesse – i famigerati spread – aumentavano».

Oggi questo rischio è scongiurato?
«Per il momento sì. La differenza tra allora e oggi sta nel fatto che la Bce ha preso un impegno: proteggere i paesi in difficoltà da eventuali ondate di vendite sui mercati finanziari. In caso di vendite, la Bce compra i titoli e quindi i prezzi e gli spread rimangono stabili. Il problema è che la strategia della Bce si basa sull’idea che il suo ombrello protettivo sia temporaneo. L’auspicio dichiarato della banca centrale è che le politiche di austerity e le famigerate riforme strutturali siano in grado, a un certo punto, di rilanciare i paesi in difficoltà e di rendere quindi superflua la sua protezione. Noi stiamo invece registrando che così non sarà».

E come sarà?
«Vale tuttora la previsione contenuta nel “monito degli economisti” che abbiamo pubblicato nel settembre scorso sul Financial Times: con le attuali politiche di austerity, la divergenza tra paesi deboli e paesi forti dell’eurozona continuerà ad ampliarsi. La politica monetaria non può affrontare da sola questa divaricazione. Bisognerebbe almeno affiancare le azioni della banca centrale con un piano di investimenti pubblici mirati. Le più autorevoli ricerche economiche dimostrano che l’intervento statale può esser decisivo non solo per fini di assistenza ma anche per creare condizioni di sviluppo tecnologico e produttivo, soprattutto nei paesi più deboli, che ne hanno più bisogno. Il guaio è che in Europa i dogmi del liberismo, sebbene più volte sconfessati, tuttora resistono, e l’idea di un rilancio in chiave moderna dell’intervento pubblico resta tabù».

Quali saranno dunque le implicazioni per l’eurozona?
«Le divergenze tra paesi forti e paesi deboli dell’Unione aumenteranno. Se si continua a pensare che la politica monetaria possa risolvere da sola questo enorme problema, l’Unione monetaria europea non potrà che confermarsi insostenibile. Anche se ora sembrano tutti più sereni, i nodi verranno di nuovo al pettine e presto o tardi si tornerà a vivere il clima del 2011. Sarà una previsione da “gufo”, ma fino a ora i cosiddetti “gufi” hanno avuto molta più lungimiranza dei professionisti dell’ottimismo».

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