Fonte: L'Espresso
di Alessandro Gilioli – 3 febbrato 2018
In questo periodo si porta molto la Bonino.
Nel senso che leggo sui giornali diverse dichiarazioni di voto per lei e il suo partito, specialmente da parte di giornalisti e intellettuali di sinistra.
Frequentando per lavoro e per amicizie in prevalenza lo stesso giro, ho di persona e sui social lo stesso segnale: amici e colleghi di sinistra che votano Bonino o pensano di farlo.
Nel paese reale – cioè fuori dal giro di cui sopra – non sembra che ci sia altrettanto entusiasmo: secondo l’ultimo Euromedia i Radicali italiani sono all’1,5 per cento, per Emg all’1,6, Demopolis li include semplicemente in “altri partiti sotto il 3 per cento”.
Niente di strano: è la consueta forbice tra giornalisti-intellettuali-scrittori-professionisti delprimomunicipio da una parte, e il resto del mondo dall’altra. Questione di complessità notevole che non affronto qui.
Quello che mi interessa è il meccanismo per cui questi amici o colleghi o altro scelgono Bonino, o ne sono tentati. La dinamica psicologica, che mi permetto di ipotizzare. Senza altre basi che le chiacchierate con loro e la lettura delle loro argomentazioni.
E a mio avviso la questione parte, banalmente, dal Pd.
Il Pd era – nelle intenzioni – il grande contenitore del centrosinistra e della sinistra nel quale potevano coabitare anime diverse, dai lib-lab ai postmarxisti, dai cattolici dossettiani ai laicisti materialisti, passando per i socialdemocratici, gli ambientalisti, il sindacato – e altro ancora.
Questo nelle intenzioni: un grande ombrello, se volete, o comunque una comunità plurale che trovava la sua identità nell’avversione a un nemico comune (il berlusconismo) e in fase costruens nella governance sociale e redistributiva dell’economia di mercato (sempre nelle intenzioni).
Sia quel che sia, tutto questo oggi non c’è più: il Pd è un partito singolare (nel senso di contrario a plurale), autocratico e uniformato. Non è una sintesi di spinte diverse. La linea politica è solo quella del leader, che abbiamo visto implementarsi nei suoi tre anni di governo, con le sue riforme realizzate (tipo Jobs Act) o schiantatesi (Boschi sulla Costituzione). Anche lo stile è solo quello del leader: iperdinamico, vincista, energico, sfrontato, bullo, narcisistico, cannibale.
Oggi nel Pd o mangi quella minestra o salti da quella finestra.
Diversi hanno scelto la finestra, mentre quelli rimasti hanno decisamente mangiato la minestra. Tra questi ultimi, in Parlamento, quelli ricandidati: una falange compatta, con schieramento a testuggine come nell’antica Roma. Fuori dal Parlamento, i fan acritici, gli entusiasti a prescindere, gli adepti da setta. In ogni caso, tutti intellettualmente irregimentati da un capo.
Un capo di cui tuttavia i miei amici, colleghi e conoscenti di sinistra un po’ si vergognano. Perché non se la sentono di far parte di una falange a testuggine. Perché magari amano la laicità di pensiero la pluralità di spinte politiche. O perché non gli va di farsi uniformare in una fazione personale. O, infine, perché non si riconoscono del tutto nelle scelte politiche e nello stile del suddetto capo.
Ecco che allora, di fronte all’incubo di dover scegliere 4 marzo, trovano la scappatoia, lo stratagemma. Il rifugio. Nella Bonino: persona di ottima reputazione per le sue battaglie civili, oltre che per la sua caparbia e onestà intellettuale.
Parlare male della Bonino è difficile, insomma. È quasi lesa maestà.
Quindi dire “voto Bonino” è assai più figo (o semplicemente più accettabile socialmente) che dire “voto Renzi”. Nessuno degli astanti ti si incazza, né ti prende in giro. Si acquisisce un’aura di assai maggiore rispettabilità. Sui social, si scansano flame furibondi. Se poi sei giornalista o scrittore, eviti di perdere la maggior parte del tuo pubblico.
Ma, sia chiaro, la conversione pro Bonino non è solo questione di convenienza: non sto dubitando dell’onestà intellettuale di chi a sinistra si è boninizzato. È anche o soprattutto questione di vergogna (per la falange) e di disperazione (in vista del 4 marzo). Votare Bonino è visto un po’ come un votare il centrosinistra senza però entrare nella setta.
Detto tutto questo, seppur immerso anch’io nella disperazione in vista del voto, vorrei dire che il 4 marzo non voterò Bonino – pur avendo scelto qualche volta anch’io i radicali in passato, nel mio estremo poligamismo elettorale, specie in qualche elezione locale.
Non voterò Bonino e aggiungo che invito seriamente i miei amici, conoscenti e colleghi a rifletterci un po’, su questo rifugio, su questa scappatoia, il 4 marzo.
Intanto, se questi miei amici sono d’indole pragmatica, per l’esito effettivo della loro scelta: i voti dati alle liste tra l’1 e il 3 per cento non eleggono candidati di quelle liste, ma vanno solo a ingrossare i partiti della stessa coalizione che superano il 3. È uno dei tanti barbatrucchi del Rosatellum, che consentirà al Pd di avere un gruppo parlamentare molto più ampio dei suoi consensi. Secondo i sondaggi attuali, attorno al 27 per cento pur prendendo il 23. Comunque, chi crede di votare i Radicali in realtà, con questa legge, vota il Pd: la falange a testuggine.
Ai miei amici e colleghi di sinistra di carattere meno pragmatico e più idealista (quelli che votano ciò che li rappresenta, indipendentemente dall’esito determinato dal Rosatellum) consiglio invece di studiare un po’ le posizioni di Bonino in materia economica.
Perché – stupenda vessillifera dei diritti civili – Bonino ha idee molto diverse in termini di diritti sociali, di economia. Tema sul quale Bonino è molto vicina a Monti, a Schäuble, alla famosa Troika. Insomma a quell’ideologia economica che in Italia è stata chiamata, appunto, “montismo”. E questo forse non è irrilevante, nel 2018, andando a scegliere il nostro futuro in un contesto in cui il “montismo” (ben oltre Monti, s’intende) ha fatto danni così profondi. E ha provocato reazioni così irrazionali. Del resto, lo dice lo statuto stesso dei Radicali Italiani, che si autodefinisce “movimento liberista” nel suo primo articolo fondativo.
Questo è il “rifugio Bonino”, amici di sinistra. Un voto di fatto – per i suoi effetti pratici – a Renzi; e idealmente, in materia economico-sociale, al liberismo e al “montismo”, se ci ricordiamo cos’era: quella cosa che imponeva il fiscal compact e il pareggio bilancio in Costituzione, il falso mito della flessibilità che nasconde la tragica realtà del precariato eterno, l’età pensionistica tra le più alte d’Europa. E nel tempo libero accusava i giovani disoccupati di essere choosy e sfigati.
L’importante è saperlo, o ricordarselo, poi ovviamente ognuno faccia le scelte che crede.
Buon week-end.