Fonte: Il Manifesto
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Un vento di euforia soffia in Europa. La liquidità attivata dal Quantitative easing favorirà l’erogazione di prestiti alle imprese, la parallela svalutazione dell’euro le esportazioni verso le aree del dollaro, la diminuzione dei prezzi del petrolio abbatterà i costi di produzione e di trasporto. A questa straordinaria combinazione di fattori espansivi, in Italia, si dovrebbero aggiungere gli effetti delle misure di deregolazione del mercato del lavoro e dei forti incentivi alle imprese perché assumano avendo la certezza di poter licenziare dopo con grande facilità. Qualcuno arriva a prevedere una possibile «bolla di lavoro», tutti prevedono la ripresa.
In realtà la globalizzazione dei mercati, la dualizzazione del mondo in aree che marciano con ritmi di crescita fortemente differenziati e la fine della tendenza allo sviluppo lineare di lungo periodo, hanno reso obsoleti i modelli previsionali e non a caso essi sbagliano sempre di più e sempre per aver sopravvalutato la crescita prevista. Ma astenersi dalla tentazione di dare i numeri è difficile perché essi, nella società della comunicazione in tempo reale, stanno diventando sempre più importanti. Non tanto per misurare «a posteriori» gli effetti delle scelte politiche fatte, ma perché essi svolgono due funzioni precise: servono ad influenzare i comportamenti dei consumatori e degli imprenditori, a «creare fiducia»; servono, soprattutto, a creare consenso.
E’ per questo che si vede in giro una grande voglia di gridare alla ripresa prima che essa si manifesti, per giustificare le scelte fatte, far digerire la riduzione dei diritti come prezzo necessario da pagare, avere, così, mano libera per proseguire sulla strada intrapresa. Insomma è cominciata una vera e propria guerra dei numeri nella quale un aumento del Pil del + 0.1% — solamente «previsto» e quindi con un margine di errore da –0,1 a +0,3 — diventa ripresa ed un aumento di 11 mila occupati, pur in presenza di un’ulteriore diminuzione di quelli giovani, diventa «la svolta buona». E siamo solo alle prime schermaglie di un bombardamento quotidiano che si farà sempre più martellante.
Come affrontare questa nuova fase? Innanzitutto, penso, facendo un’operazione verità sui numeri dell’economia.
Da quando è cominciata la crisi l’Italia ha perso il 9% del Pil. Tra i 28 paesi Ue è quella che ha perso di più superata solo dalla Croazia che ha perso il 10,6%. Ma la crisi è stata acqua sul bagnato: negli anni precedenti, dal 2000 al 2007, la crescita italiana era stata del +8,5%, quella media europea era stata due volte tanto (+17,1%). Quindi un declino che viene da lontano: venti anni fa il Pil italiano era pari al 14,6% di quello dei 28 paesi Ue, oggi è pari all’11.7%. Il nostro Pil per abitante oggi è inferiore dell’8% rispetto a quello di quindici anni fa ed è tornato al livello di venti anni fa. E parliamo di reddito medio dando per implicito che, essendo nel frattempo aumentate le disuguaglianze, alcuni avranno visto aumentare i loro redditi, altri, di conseguenza, crollare.
Naturalmente gli effetti di questo declino economico si sono proiettati sull’occupazione: durante la crisi è diminuita in Italia del –3,5%, il doppio di quanto è accaduto in Europa (–1,8%). E che dire dei tassi di occupazione? Prima della crisi era inferiore a quello medio europeo di 6,6 punti, adesso lo è di 8,5 punti. Quello femminile era inferiore di 11,5 punti, adesso il divario è salito a 12,3 punti. Quello dei giovani fino a 24 anni era inferiore di 12,5 punti, adesso lo è di 15,9 punti. I giovani occupati sono oggi il 16,3% in Italia ed il 32,2% in Europa. C’è, perciò, un divario enorme con l’Europa. C’era anche prima, ma è ulteriormente aumentato con la crisi. Questo vale per l’Italia, ma anche per gli altri paesi del Sud Europa.
L’Europa di oggi è molto meno Europa di dieci anni fa e mentre nel mondo le disuguaglianze tra paesi tendono a diminuire perché le grandi aree prima arretrate crescono più dei paesi sviluppati, questo non accade per i paesi del sud dell’Europa.
Un fenomeno analogo si è registrato, poi, all’interno del nostro paese. Gli occupati al centro-nord sono, negli anni della crisi, rimasti stazionari, quelli al sud sono diminuiti da 6 milioni e mezzo a 5 milioni novecentomila. In sostanza tutta la flessione di occupati si è concentrata nel mezzogiorno d’Italia. L’Italia si è allontanata dall’Europa, il mezzogiorno si è allontanato dall’Italia.
A queste disuguaglianze territoriali si sono affiancate quelle generazionali. Gli occupati giovani erano, nel 2007, 1 milione 500.000, sono adesso solo 900 mila. Naturalmente non tutti sono colpiti allo stesso modo e le disuguaglianze, così, si propagano con un effetto moltiplicatore di segno opposto a quello teorizzato da Keynes. Anche per questo le persone a rischio povertà sono tornate ai livelli di dieci anni fa. Ci siamo soffermati solo su fenomeni quantitativi, ma non dobbiamo dimenticare, come dice il Rapporto Bes– Istat 2014, che «nel campo della salute col protrarsi della crisi aumentano le malattie del sistema nervoso, peggiora lo stato psicologico, si deteriorano abitudini importanti per una migliore salute…e, nel campo sociale, si registrano ricadute negative come la riduzione della partecipazione ad attività culturali, la partecipazione sociale, il peggioramento delle relazioni sociali».
Questa è la situazione sociale ed economica dell’Italia di oggi. Proiettando nei prossimi dieci anni le previsioni di crescita dei diversi paesi europei se ne ricava che le distanze dall’Europa continueranno a crescere e che saremo ancora lontani dai livelli di venti anni fa. Non so se così l’Europa andrà, come ripete Stefano Fassina, a sbattere, noi certamente sì perché l’Italia si sta muovendo all’interno di compatibilità e logiche che non ci permetteranno di fare il salto necessario per avvicinarci, invece di allontanarci, dall’Europa.
Ed allora torniamo ai numeri ed arriviamo alla sinistra, sociale e politica. Diciamocelo crudamente: stiamo subendo una pesante sconfitta. La generosa resistenza a difesa dei diritti è stata piegata, l’assetto istituzionale e politico marcia verso tendenze accentratrici che, in nome dell’efficienza, contrastano con l‘idea di democrazia partecipata per la quale abbiamo lottato, l’idea di «Piano del Lavoro» della Cgil per affrontare diversamente la crisi non ha trovato ascolto.
Se la dimensione dei problemi è quella descritta abbiano davanti a noi due scenari. Il primo è cercare, come si dice nella sinistra Pd, di ridurre il danno, il che significa limitarci a combattere una battaglia a colpi di decimali, ridurci a gufare o tifare a giorni alterni. Il secondo è fare la mossa del cavallo, compiere un enorme salto di qualità, alzare il livello del confronto, imporre un confronto sul futuro del paese. Per fare questo dovremmo costruire una piattaforma per lo sviluppo, per il lavoro, per i diritti, per il reddito, una piattaforma che contempli anche una redistribuzione del lavoro ed un reddito di cittadinanza attiva per andare incontro alle situazioni più disagiate. Una piattaforma unificante e mobilitante, capace di creare uno schieramento politico e sociale il più ampio possibile, e di mobilitare i soggetti sociali interessati superando le barriere divisorie del lavoro che fu. Una piattaforma capace di guardare all’Europa, cercando alleanze con i paesi che hanno le nostre stesse difficoltà e con le forze politiche progressiste per una nuova politica europea di investimenti pubblici coraggiosa. Un compito enorme possibile solo se si sviluppa coinvolgendo i soggetti, se si avvicinano ed uniscono le mille facce del lavoro di oggi, di chi lo possiede, di chi lo cerca, di chi non ci prova più, di chi lo cerca per necessità vitali e di chi per realizzarsi e, soprattutto, nord e sud, giovani e non, uomini e donne.
Se il compito è questo dovremmo innanzitutto riconoscere che da soli siamo tutti assolutamente inadeguati. Se il compito è questo dobbiamo farlo tutti, ciascuno a partire da sé, ciascuno aprendosi agli altri, tutti con l’entusiasmo ed il coraggio che la scelta richiede. Se il compito è questo dovremmo concentrarci innanzitutto sui contenuti della piattaforma e la Cgil, tutta, ha molto da dire in proposito.
da il manifesto, 25 marzo 2015