Il bicameralismo non allunga i tempi

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Silvio Benvenuto
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di Silvio Benvenuto – 7 ottobre 2016

Le discussioni sulla seconda camera sono state sempre presenti nel dibattito politico Sin dal 1946 quando soprattutto a sinistra non mancavano perplessità nei confronti di un Senato che nello stato liberale, essendo di nomina, limitava la sovranità popolare. Una serie di motivi inducono a pensare che il nuovo organismo non andrà a regime prima del 2022.

Quando nell’apposita assemblea si discusse quale costituzione dare all’Italia, esclusa a priori l’ipotesi di un sistema presidenziale, che non aveva appoggi, anche se nel seguito degli anni sarà propugnata da differenti orientamenti politici, e, quindi, ci si orientò da subito verso il sistema della democrazia parlamentare, la storica camera dei deputati era stata soppressa da tempo, dopo che, con la legge 18 gennaio 1939, n. 129, era stata al suo posto istituita la camera dei fasci e delle corporazioni, a sua volta formalmente sciolta con il decreto-legge n.705 del 2 agosto 1943. Il senato, invece, era sopravvissuto all’evento del 25 luglio 1943, in attesa di un provvedimento che ne sancisse la soppressione, tanto che il re, nel periodo del governo Badoglio, nominò il suo presidente nella persona dell’ammiraglio Thaon di Revel, che era stato ministro della marina nel governo Mussolini, anche se in più occasioni si era schierato contro le leggi fasciste. Peraltro con il decreto legislativo 27 luglio 1944 n. 159, fu istituita un’alta corte di giustizia chiamata a decidere la decadenza dei senatori regi che in qualche modo avevano contribuito a mantenere il regime fascista. L’alta corte di giustizia dichiarò decaduti dalla carica 278 senatori, respingendo la decadenza di altri ottanta. Tuttavia la corte di cassazione in sede civile accolse numerosi ricorsi avverso le predette decadenze, soprattutto perché ritenute prive di adeguata motivazione. Nell’imminenza dell’insediamento dell’assemblea costituente, con decreto legislativo presidenziale n. 48 del 1946, fu, però, disposta formalmente la cessazione del senato dalle sue funzioni con effetto dal giorno 25 giugno 1946. Il senato regio cessò poi definitivamente a seguito della legge costituzionale n.3 del 1947.

Il dibattito sulla forma parlamentare dello stato fu oggetto in assemblea costituente (sia in sede della seconda sottocommissione e della commissione dei “75”, sia in assemblea plenaria) di lunghe, approfondite e appassionate discussioni alle quali parteciparono molti autorevoli giuristi e i principali uomini politici del tempo. Peraltro il dibattito si concentrò originariamente sul tema se si dovesse adottare il bicameralismo, e quindi dar vita a due anziché una camera sola. Contrari al bicameralismo, in linea di principio, almeno inizialmente, erano i partiti di sinistra, non tanto per i tradizionali principi del democratismo radicale, quanto perché la seconda camera evocava storicamente un consesso formato da persone nominate dall’alto con il compito di frenare e limitare l’espressione della volontà popolare. In sede di assemblea costituente le critiche più stringenti erano state quelle di Nobile che argomentò, in particolare, che “una seconda camera si potrebbe ammettere solo se lo stato italiano fosse uno stato federale” e che “ se le due camere sono d’accordo, la seconda è superflua, se non sono d’accordo la bicameralità è dannosa… , assurda se ha gli stessi compiti della prima, come se in un’azienda industriale vi fossero due consigli d’amministrazione”. Peraltro ben presto si affermò, senza apprezzabili contrasti, il principio del bicameralismo, cui si era orientata anche la commissione di studi che era stata istituita dal ministro per la costituente Nenni e che dal suo presidente prese il nome di “commissione Forti”. Tale principio fu fatto proprio dall’assemblea costituente a seguito di espresse votazioni sul punto, sia in sede di seconda sottocommissione e di commissione dei “75”, sia in assemblea plenaria.

Sul versante dei fautori del bicameralismo, l’acceso dibattito si focalizzò sul tema se la seconda camera dovesse essere elettiva, essere formata in modo da “rispecchiare le varie forze economiche, sociali, culturali e delle attività lavorative in genere” e se l’elezione dovesse avvenire su base regionale. Sulla spinta soprattutto dei rappresentanti della Democrazia Cristiana la seconda sottocommissione aveva fatto propri i predetti principi, ma come già era stato osservato (G. Ferrara), “inventare un meccanismo di incanalazione della rappresentanza nella strutturazione della seconda camera che fosse, a un tempo, espressivo degli interessi delle categorie economicoprofessionali, di derivazione regionale , elettivo -politico” risultava un’operazione simile alla quadratura del cerchio. Ciò spiega come il dibattito in assemblea costituente risultò estremante intenso e variegato dal punto di vista politico e a volte finanche piuttosto confuso sotto il profilo più strettamente giuridico. Peraltro chi voglia approfondire questo punto può fare riferimento al volume pubblicato dal servizio studi del senato nel 1989, con prefazione di Giovanni Spadolini, dal titolo “ La nascita del senato repubblicano “.

Come è noto, alla fine si decise che il senato (in un primo tempo definito “camera dei senatori”) avesse compiti uguali a quelli della camera dei deputati e che, anch’esso, fosse eletto a suffragio universale diretto. Le uniche differenze riguardarono, con riferimento al senato, la durata (6 anni, anziché 5 come per la camera dei deputai , ma una legge costituzionale del 1963 portò anche la durata del senato a 5 anni), l’elettorato attivo e passivo (allora rispettivamente a 25 e 40 anni), l’elezione “a base regionale”, la presenza di alcuni membri a vita, di diritto gli ex presidenti della repubblica, cinque nominati dal presidente della repubblica (ma il principio dell’elezione su base regionale si tradusse in concreto nel mero e solo fatto che la regione era intesa come semplice elemento territoriale). Giova ricordare che la proposta appassionatamente sostenuta di una camera formata da rappresentanti del lavoro e delle attività produttive, finì per trovare una soluzione di compromesso con l’istituzione, formalmente inserita nella carta, del consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel).

Questo organo di “ rilevanza costituzionale” soprattutto negli ultimi anni ha finito per ridursi sostanzialmente a un centro di studi sui problemi del lavoro e dell’economia e a una sede di incontro di dirigenti sindacali, in genere non più titolari di funzioni operative, tanto che è maturata una larghissima condivisione nel mondo politico e sindacale che ormai si tratta di una struttura inutile e costosa. Pertanto la sua cancellazione dall’ordinamento, come ha previsto la riforma costituzionale da ultimo approvata dalla due camere e che sarà sottoposta a referendum, non ha trovato apprezzabili contrasti. Ma giova ricordare che nelle prime legislature il Cnel aveva svolto importanti funzioni, tanto che il presidente del consiglio designato nel 1970, Emilio Colombo, nell’esporre alle camere il suo programma aveva dichiarato “il governo ritiene.. necessaria ed urgente la modifica della legge sul Cnel, un organo la cui attività, che tende ad esprimere razionali punti di incontro su temi specifici fra le forze del lavoro e della produzione, deve essere ancora più valorizzata”.

Fra le funzioni importanti allora svolte meritano di essere in particolare ricordati i pareri, che sotto la guida di un eminente lavorista, Francesco Santoro Passarelli, resero possibile l’attuazione della legge “ Vigorelli”, n. 741 del 1959, che sia pure in via transitoria, provvisoria ed eccezionale, estese erga omnes i contratti collettivi di diritto comune, non avendo trovato attuazione il meccanismo previsto a questi fini dalla seconda parte dell’art. 39 della Costituzione.  Già subito dopo l’entrata in vigore della costituzione il dibattito sul sistema parlamentare adottato riprese nella varie sedi (dottrinali, politiche, giornalistiche) in maniera sterminata, a testimonianza del fatto che da più parti tale sistema era ritenuto, anche alla luce delle vicende storiche politiche, inadeguato, se non radicalmente difettoso (al riguardo giova riferirsi, per un esposizione molto completa e precisa su tale dibattito fino al 1990, al libro edito dal servizio studi del senato dal titolo ”La riforma del bicameralismo in senato -1990-”, anch’esso con introduzione di Giovanni Spadolini ).

Ma anche dopo il 1990 l’intensissimo dibattito non si attenuò ed ebbe anche le più autorevoli sedi politiche e parlamentari: basta ricordare in materia i vani lavori di ben tre commissioni bicamerali (Bozzi, De Mita-Iotti, D’Alema), gli studi di tanti ministri investiti delle riforme, i programmi politici di tanti governi, i messaggi alle camere da parte di presidenti della repubblica. Il dibattito naturalmente coinvolse in primo luogo anche la stessa scelta di un parlamento bicamerale. Ora poiché la riforma della costituzione approvata nel 2016 conferma il sistema bicamerale, non è il caso di ritornare sull’argomento, anche se non pare inutile accennare ad alcune delle più frequenti e rituali critiche rivolte al bicameralismo che attengono anche al modo in cui il bicameralismo è stato revisionato con la recente riforma del senato adottata dal parlamento. Per prima l’affermazione che l’esistenza di due camere causerebbe un’eccessiva perdita di tempo. Orbene già nel 1967 l’allora segretario generale del senato dimostrò, con un calcolo rigorosamente matematico, in una relazione tenuta al seminario di studi parlamentari presso la facoltà di scienze politiche di Firenze, che il bicameralismo anziché allungare i tempi per l’approvazione delle leggi, li riduce. Ma ancora più puntuale avverso questa critica è l’osservazione che il nostro non è certamente il paese che ha bisogno di incrementare ancor più la già tanto prolissa e ingarbugliata attività legislativa, ma semmai di ridurla, migliorandola nella sostanza e nella forma. Senza considerare poi la funzione di garanzia e di raffreddamento che svolge la duplicità dell’esame parlamentare.

Piuttosto inconsistente è poi l’affermazione che con i problemi di bilancio pubblico che ha l’Italia, andrebbe evitato il “lusso” e l’onere di dovere sostenere la spesa di una seconda camera. Al riguardo va preliminarmente osservato che ,stando al bilancio del 2014, il senato ha speso oltre mezzo miliardo, di cui 79 milioni per il costo dei senatori e 145 milioni per il costo del personale. Sono indubbiamente cifre di una certa consistenza, ma che vanno valutate tenendo conto che non si tratta dei costi di un ufficietto pubblico o di un dopolavoro cui poter applicare la logica della spending review, ma di una struttura fondamentale che attiene al funzionamento della democrazia, secondo il metodo e i principi che si sono espressi ed affermati in tutti i paesi della civiltà occidentale. Senza considerare, poi, che, a seguito della riforma costituzionale approvata, di cui si dirà di seguito, il senato non sarà certamente a costo zero: i nuovi senatori non percepiranno l’indennità parlamentare, ma ad essi, che provengono da tutte le regioni italiane, dovranno pur sempre essere rimborsate le spese per partecipare ai lavori nella sede di Roma. Le spese per il personale poi potranno certamente essere ridotte, trattandosi di un consesso non più formato da 315 parlamentari (oltre ai pochi senatori a  a vita), ma soltanto da cento, tuttavia, dovendosi assicurare il corretto funzionamento dell’organo, per il quale il costo non è molto comprimibile, il risparmio di spesa non si prospetta eccessivo. E quanto sopra si è detto a proposito dei costi si può anche affermare facendo un raffronto con quanto costa provvedere al funzionamento della seconda camera negli altri paesi della comunità europea.

Ben altro risparmio si sarebbe realizzato se, come da tante parti era stato proposto, il numero dei membri della camera dei deputati fosse stato ridotto a cinquecento. Ma ora è il caso di soffermarsi, per quanto riguarda il senato, sul contenuto della riforma costituzionale approvata e che sarà sottoposta a referendum. Innanzitutto giova sottolineare che la riforma non si è fatta sedurre dalle proposte di coloro che avrebbero voluto la soppressione tout court del senato. Una ipotesi che sarebbe stata anomala e stravagante ben più che lasciare intatto il bicameralismo paritario (c.d “perfetto”), sulla cui eliminazione ormai era maturata una generale convinzione. Come è noto tutti i principali paesi dell’occidente e, in particolare, quelli della comunità europea hanno i sistemi bicamerali. La riforma approvata stabilisce quindi che, conformemente a quanto previsto nei predetti paesi, come la Francia, la Germania, la Spagna, la Gran Bretagna eccetera, la seconda camera, che ordinariamente si definisce la “camera alta”, abbia funzioni ridotte, e comunque differenti, da quelle attribuite all’organo tradizionalmente espressione della sovranità popolare e, in primo luogo, sia priva del potere di concedere o revocare la fiducia al governo. Prima ancora che sui contenuti delle funzioni da attribuire al nuovo senato, lo scontro politico si è soprattutto focalizzato, invece che su tale più importante argomento, sul tema se i componenti dell’organo dovessero la loro nomina ad una forma di elezione diretta ovvero indiretta, tema che, detto per inciso, non potrebbe mettere a profitto le esperienze di altri paesi europei per questo aspetto lontani dal nostro, basti pensare alla storica Camera dei Lord nel Regno unito, alle particolari tradizioni delle amministrazioni locali in Francia, al fatto che la Germania è, a differenza dell’Italia, uno stato federale.

Nel corso dell’assemblea costituente era a tutti chiaro che se fosse stato prevista l’attribuzione alle due camere di poteri e funzioni eguali, era inevitabile, pena il rischio della paralisi politica, che esse fossero elette con sistemi elettorali sostanzialmente eguali, e così, come si è detto, fu la scelta del costituente (anche se nella presente legislatura si verifica l’anomalia di un senato eletto con un sistema sostanzialmente proporzionale, mentre la camera dei deputati è stata eletta con l’incostituzionale legge del “porcellum”) . Dopo un duro braccio di ferro politico, soprattutto all’interno del Pd, la legge di riforma ha trovato una soluzione di compromesso, che da qualcuno è stata definita di “quasi elezione”, per cui il senato è composto da 95 membri (oltre a cinque che possono essere nominati dal presidente della repubblica, e che restano in carica solo sette anni, anziché a vita come in precedenza), di cui 74 consiglieri regionali e 21 sindaci.

L’art. 2 della legge costituzionale che prevede la composizione del senato, frutto di quel compromesso di cui si è detto, risulta piuttosto stramba e non è certamente un capolavoro linguistico e di drafting. Al comma 5 si stabilisce che i senatori, definiti al primo comma “rappresentativi delle istituzioni territoriali”, sono eletti in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri delle istituzioni territoriali, ma poi al comma successivo si stabilisce che: “Con legge approvata da entrambe le camere sono regolate le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del senato della repubblica tra i consiglieri e sindaci, nonché quelle per la loro sostituzione, in caso di cessazione della carica elettiva regionale o locale. I seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun consiglio”. A parte poi il fatto che non è difficile prevedere che la legge che dovrà dare attuazione alle citate norme non sarà di agevole stesura, giova osservare che alla prevista scadenza della legislatura (del 2018, salvo eventuale scioglimento anticipato), la maggior parte delle regioni rinnoverà i consigli solo dopo questa data, per cui non potendo il nuovo senato funzionare per metà, sarà gioco forza che i senatori dovranno essere in un primo tempo nominati dai consigli regionali in carica, per cui, tenendo conto delle scadenze elettorali dei consigli regionali, si desume che la nuova composizione del senato potrà andare a regime solo nel 2022. Il ruolo, ovviamente ridotto, conservato al senato per quanto concerne il procedimento legislativo è stabilito dall’art. 10 della legge costituzionale di riforma che riscrive la disciplina che risultava dal precedente art.70 della carta. La partecipazione collettiva e quindi paritaria del senato con la camera dei deputati, è conservata solo per alcune materie. In particolare, meritano di essere espressamente ricordate le leggi di revisione della costituzione e le altre leggi costituzionali i referendum popolari, e le altre forme di consultazione previste dall’art 71 della carta, le leggi che determinano l’ordinamento e le funzioni fondamentali dei comuni e delle città metropolitane e le norme di principio sulle forme associative dei comuni, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’unione europea, le norme sui casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore. Al di fuori di questi e degli altri pochi casi previsti dall’art 10, i disegni di legge approvati dalla camera dei deputati sono trasmessi al senato, ma questo può solo proporre in tempo breve modifiche, mentre l’ultima parola spetta alla camera dei deputati con qualsiasi maggioranza.

In sostanza l’intervento del senato sulla legislazione riservata alla camera dei deputati si riduce essenzialmente ad un parere che può essere del tutto disatteso senza alcuna motivazione per cui non è stato necessario neppure individuare, come è previsto in Germania, uno strumento quale le “commissioni miste”, formato da membri delle due camere, Il Bundestag e il Bundesrat, per cercare di comporre le eventuali divergenze. Per quanto riguarda le materie di interesse regionale, la cui disciplina si trova nell’art 117 della costituzione, malgrado la definizione del senato di rappresentante delle istituzioni territoriali, soltanto per le materie di cui al quarto comma del citato articolo è previsto che la camera dei deputati può non conformarsi alle modifiche proposte dal senato a maggioranza assoluta dei suoi componenti, pronunciandosi, a sua volta, nella votazione finale a maggioranza assoluta dei suoi componenti.

Sostanzialmente si può dire che la partecipazione del senato al procedimento legislativo è stata notevolmente ridotta non solo per quanto riguarda le materie riservate in via esclusiva alla camera dei deputati, ma anche per quanto riguarda le procedure attraverso le quali il senato possa introdurre, in caso di disaccordo con la camera dei deputati, un confronto che non si riduca ad un mero parere consultivo, pur restando coerente con la logica complessiva della riforma costituzionale che la parola ultima, nel caso non sia possibile risolvere il conflitto, spetti alla camera dei deputati. Fra l’altro la procedura soltanto un po’ più garantista sopra ricordata a proposito dell’art. 117 della costituzione non si è ritenuto di estenderla anche ai disegni di legge indicati nel quarto comma dell’art. 81 della costituzione, che concerne l’approvazione del bilancio e del rendiconto consuntivo dello stato.

Per quanto riguarda le funzioni non legislative, nell’esame finale presso il senato è stato previsto che anche quest’ultimo concorra alla nomina dei giudici costituzionali (tre nominati dalla camera dei deputati, due dal senato). Nel complesso però non può dirsi, esaminate le altre funzioni non legislative attribuite al senato, che sia stata assicurata allo stesso quella forte ed estesa funzione di controllo, che la maggioranza di coloro che hanno sempre sostenuto la necessità di rivedere il bicameralismo politico paritario, ritenevano che fosse indispensabile adottare, per compensare l’esclusione del senato dalla funzione politica che si esprime con la votazione sulla fiducia al governo e la sua notevolmente ridotta partecipazione al procedimento legislativo. Soltanto a mero titolo esemplificato possono citarsi alcune funzioni che da più parti, anche da parte dei favorevoli allo schema complessivo della riforma, ritengono che sarebbe stato necessario attribuire al senato: il parere vincolante sulle nomine dei dirigenti posti al vertice dello stato e alle “authority”, la nomina di parte dei membri del consiglio superiore della magistratura, l’allargamento dei casi in cui il senato può disporre inchieste parlamentari previste solo su materie di pubblico interesse concernenti le autonomie locali.

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