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di Goffredo Bettini – 7 maggio 2017
La scissione nel PD è ormai una triste realtà. Non comprendo una certa euforia che serpeggia da una parte e dall’altra. Stiamo vivendo un passaggio doloroso che andrebbe affrontato con sobrietà e intelligenza: per non sfasciare anche il futuro che rimane.
Si è consumato, alla fine, l’ultimo atto di una contesa che è partita il giorno stesso della vittoria di Renzi alle primarie. Chi ha preteso, forse per troppo tempo, di rappresentare dentro il PD la tradizione della sinistra e dei comunisti italiani ha scelto da subito la strada del pregiudizio e dello scontro frontale.
A questo ha corrisposto una rapida involuzione di Renzi, che ha stretto attorno a sé un gruppo dirigente di improbabili fedelissimi e ha iniziato a costruire e ripetere un racconto ideologizzato e irrealistico (per ottimismo) sulle straordinarie imprese del suo governo.
Nel giro di pochi mesi, in un solo colpo, siamo riusciti nel PD a bruciare la parte ancora viva del pensiero dei comunisti italiani e il grande talento politico del fiorentino, con la sua spinta iniziale per un rinnovamento della politica italiana e per una sacrosanta lotta contro tutte le rendite; anche quelle presenti nella sinistra e nel sindacato.
Oggi siamo tutti più poveri. E si materializza il pericolo che molti di noi da tempo hanno segnalato: la divaricazione del PD attorno a due poli involutivi. Da una parte la costituzione di un ulteriore partito a sinistra, nato vecchio e un po’ ideologico e dall’altra parte un partito tendenzialmente personale, che, a meno non succeda qualcosa, inevitabilmente sposterà il suo asse politico al centro, raccogliendo nel futuro la diaspora berlusconiana.
Uno come me, che ha contribuito alla fondazione del PD, coordinando la sua fase costituente, non avrebbe più una casa: dopo cinquanta anni di militanza a sinistra, cominciata all’età di quattordici anni.
Che fare?
Mi ha davvero impressionato nel confronto all’ultima assemblea nazionale che nessuno, sia nella maggioranza che nella minoranza, ha posto la questione delle condizioni drammatiche in cui versa il partito. Non lo hanno fatto perché non lo potevano fare: tutti i gruppi dirigenti da vent’anni a questa parte hanno contribuito a generare l’attuale sfascio delle nostre strutture portanti.
Siamo diventati un partito lontano dalla vita vera e dalle persone. Al centro e nei territori in mano alle correnti. Elite sempre più autoreferenziale che ha lasciato una prateria a Grillo e alla destra xenofoba e aggressiva che si sta organizzando.
Combattiamo tra di noi su chi è più o meno a sinistra, brandendo contenuti in modo astratto e disincarnato. Tutto questo senza mai mettere in discussione noi stessi, per cimentarci in un campo libero e davvero democratico, dove le scelte si fanno insieme agli elettori e agli iscritti che prendono la parola, l’iniziativa e decidono. E strappano pezzi di sovranità, portandola alla base della piramide.
Solo Orlando, nel suo coraggioso e robusto intervento, ha preso di petto la questione. E Zingaretti in un bell’articolo di qualche giorno fa.
Non ci accorgiamo che noi stessi facciamo parte della crisi democratica del paese. E se non cambiamo noi, non cambierà mai l’Italia.
Ecco perché penso che l’ultima carta che ha il PD è l’entrata in campo, con autonomia e orgoglio, di una generazione in questi anni troppo silente: quella dei quarantenni e cinquantenni che possono rappresentare una sinistra moderna e riformatrice e che hanno costruito la loro autorevolezza faticando nei territori e nell’esperienza di governo.
La sinistra non è solo D’Alema, che merita comunque considerazione e rispetto e al quale (come a Renzi) sono state rivolte, da pulpiti improvvisati, parole villane e ignoranti.
Un lievito più fresco e aperto al futuro, che ha i piedi ben fondati nella tradizione migliore della sinistra, ha l’obbligo di sfidare Renzi in positivo, di completarlo, di integrarlo, di arginarlo quando è necessario e tale lievito deve avere legittimamente l’ambizione di diventare una cultura maggioritaria nel PD.
La generazione silente alla quale mi riferisco, sa bene, infatti, per avere assunto la lezione di Gramsci, che lo stato va toccato, gestito e cambiato con sapienza. Che esso non è solo una struttura di potere da conquistare con una favorevole ventata transitoria; ma è un complesso di relazioni, di forze operanti e intrecciate, di sedimenti culturali e tradizionali; di contraddizioni su cui operare. La lotta per cambiarlo dura più di una stagione fortunata o del brivido di una vittoria elettorale. Sanno, anche, che senza stato non c’è partito, seppure radicalmente nuovo; rimane solo il pulviscolo dominato dalla tecnocrazia – scientifica alla mercé dei poteri più forti.
Ecco: queste sono le ore nelle quali questa generazione dovrebbe battere un colpo, unitario e generoso, per riportare il PD alle ragioni della sua fondazione: risultato impossibile solo con gli appelli generici all’unità; ma possibile con una netta iniziativa politica.