Bersani e Pisapia vogliono ricostruire l’Ulivo delle origini. Io ho nostalgia di Martinazzoli

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Pierluigi Castagnetti, Gian Franco Ferraris,

di Gian Franco Ferraris – 16 giugno 2017

Da anni assistiamo alla politica urlata, alla propaganda fine a se stessa e anche oggi che si vive un difficile passaggio dove la pochezza del ceto politico è speculare alla grave crisi della società italiana, ho nostalgia di Mino Martinazzoli, un vero galantuomo ma soprattutto un politico lungimirante che nella seconda Repubblica si sentiva un apolide e che ha sempre rivendicato il ruolo del centro nella dialettica politica del Paese.
Oggi senza riflettere molto, noti uomini politici ritengono che la risposta alla crisi attuale sia il ritorno alla Sinistra oppure al centrosinistra delle origini (l’Ulivo), mentre per gran parte dell’opinione pubblica i termini centrosinistra e sinistra corrispondono a una diabolica macchina di gestione del potere, del Pd e non solo. La cosa è esplosa con l’alleanza tra Matteo Renzi e i residui degli apparati dell’ex PCI che da un quarto di secolo hanno abbandonato i valori che hanno caratterizzato la sinistra dalle origini, ma la deriva era iniziata molti anni orsono, perlomeno dalla svolta della Bolognina.
Martinazzoli, al contrario, riteneva che centro e sinistra dovevano conservare la propria identità, allearsi ma non confluire in un’unica formazione politica.
Anche lo stile di Martinazzoli era inconfondibile, fedele a due concetti essenziali “la mitezza della politica e il limite della politica”.

A Martinazzoli è stato consegnato all’inizio degli anni ’90 il cadavere della DC, tentò senza successo l’impresa disperata di tornare al Partito Popolare senza successo nella indifferenza generale.

Sono passati 25 anni e almeno a me sorge naturale la domanda: non è stato un grave errore politico confondere il centro con la sinistra? l’Ulivo, la Margherita, la Quercia, sono state piante e fiori malati senza identità che non hanno prodotto frutti positivi per l’Italia e il Partito Democratico è stato un processo chimico nocivo – un abominio politico.

La stessa cosa vale per il sistema elettorale. Venticinque anni fa c’è stato l’innamoramento per il maggioritario ma a ben vedere i risultati sono stati pessimi: decadimento della classe politica e frattura profonda tra il ceto politico e i cittadini. Di fatto, i partiti erano per gli italiani la riproduzione della famiglia, il partito ricopriva il ruolo protettivo della mamma e con il maggiortario il cittadino italiano si è scoperto solo di fronte all’incapacità dello Stato di affrontare i problemi atavici e nuovi del Paese.

Il problema è che cosa può fare la politica oggi e temo che con le nostalgie del passato, sia l’Ulivo delle origini, siano i partiti della prima Repubblica, non si possa trovare una soluzione, una via d’uscita.

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Questo il ricordo di Pierluigi Castagnetti in occasione della visita a Brescia del Presidente Sergio Mattarella.
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Mino Martinazzoli, una testimonianza esemplare
di Pierluigi Castagnetti

V anniversario della morte di Mino Martinazzoli
(Brescia 6 settembre 2016)

Non è la prima volta in questi cinque anni che mi capita di ricordare Mino Martinazzoli qui a Brescia, e sempre l’ho fatto con una certa circospezione, perché qui ci sono i suoi amici più cari che lo conoscevano meglio di me e perché questa città è considerata a ragione la capitale di quel cattolicesimo democratico che ha avuto nei Montini, nei Bazoli, nei Trebeschi, in Teresio Olivelli, nel sindaco Boni, in Franco Salvi e da ultimo Martinazzoli i suoi esponenti di punta.

Ma oggi sono ancora più imbarazzato a parlarne di fronte a Lei, signor Presidente della Repubblica, che di Martinazzoli è stato amico vero e collega, in parlamento e in diversi governi e, dunque, potrebbe darne una testimonianza ben più significativa della mia.

Cercherò di attenermi al titolo che il sindaco Delbono ha voluto dare a questo mio intervento: “Il valore e l’attualità dell’impegno nelle istituzioni. Mino Martinazzoli: una testimonianza esemplare”.

E partirò da un’affermazione proprio di Martinazzoli: “Non ho scelto la politica per vocazione e non considero la politica una professione. Ho vissuto la politica come un servizio – richiesto e insieme dovuto – verso la comunità”.

Parole oggi un po’ desuete, che andrebbero esaminate una a una. Un servizio “richiesto” e “dovuto”. A lui piaceva accostare parole apparentemente contradditorie per dire la complessità della vita e della politica. Come quando, interloquendo con il filosofo concittadino Emanuele Severino, definirà l’impegno politico dei cristiani insieme “doveroso e impossibile”: “Doveroso perché siamo di questo mondo, impossibile se immaginiamo di non poter accettare la linea della mediazione che è propria della politica, soprattutto in democrazia” (ne parla anche nella bella autobiografia scritta con Annachiara Valle, a cui farò ancora riferimento).

Ma torno a quel pensiero iniziale sul servizio politico “richiesto e dovuto”, perché è stato oggetto di un’interessante analisi letteraria e psicologica da parte di un altro amico caro, pure lui di questa provincia, il prof. Gabriele Calvi che, dopo aver dissertato sulla differenza fra simpatia, empatia e carisma, e aver scartato l’immagine di “capo carismatico” storicamente troppo ambigua, ha definito Martinazzoli “il miglior capo empatico apparso nella vita pubblica italiana nel corso degli ultimi decenni”, non prima di aver formulato
l’ipotesi che “Mino Martinazzoli abbia deciso di dedicarsi alla vita politica non sulla base di complicate elucubrazioni, né di convinzioni dottrinali, bensì per il modo in cui ha sempre concepito il rapporto con le altre persone, avvertendo in tutti – come in se stesso -il bisogno di amicizia, di affetto, di solidarietà e di aiuto: insomma sentendosi pari agli altri, fratello fra fratelli, umanamente e cristianamente”.

Ma gli stimoli all’impegno politico sono stati anche di altro tipo, esclusa la casualità, che amava rivendicare con un po’ di civetteria.

Al riguardo è significativa la testimonianza che lui stesso dà della singolare risonanza che ebbero nel suo animo di giovane poco più che quindicenne le parole del primo comizio a cui ha assistito, nella campagna elettorale per la Costituente del 1946, del candidato bresciano Stefano Bazoli, “che non ripetevano la concitazione di altre sterminate parole. Erano pacate e impegnative. Tendevano alla complessità, pittosto che alla semplificazione. Presumo risultassero deludenti per ascoltatori inclini al comizio come spettacolo. Non è dubitabile che, anche in questo modo, Stefano Bazoli manifestasse la sua cifra originale; non una civetteria, ma il consapevole rifiuto del conformismo”.

Pare di vedere un autoritratto del Martinazzoli dell’età matura. Ancor più se si considera che da una recente pubblicazione si apprende che il Bazoli per primo introdusse nel lessico politico il controverso valore della “mitezza”, assunto assieme a quello del “limite” come paradigma della concezione martinazzoliana della politica.

In questo clima, che taluni definiscono come il “clima del ’45” che sollecitava all’impegno, Martinazzoli entra a 25 anni nell’amministrazione del suo Comune, Orzinuovi, come indipendente nelle liste della Dc, con l’incarico di assessore alla cultura.

Ci sono alcune sue belle pagine che descrivono il piacere e l’emozione di doversi occupare di cose apparentemente “piccole”, come l’illuminazione pubblica, che coincidono sorprendentemente con la causa del primo impegno amministrativo di Luigi Sturzo, che come sappiamo fu proprio quella dell”illuminazione del popolo”, appunto (Francesco Failla,“I lampioni di Caltagirone”, 2016, Bologna, EDB).

In seguito il passaggio alla Provincia nel 1960, al parlamento nel 1972, al governo nel 1983, la segreteria della Dc nel 1992, il ritorno a Brescia nel 1994, sindaco della città nello stesso anno e – da ultimo – per servizio e per una simpatica “pazzia”, quella da lui definita come la “corsa contro la morte” delle regionali del 2000.

Ma l’esperienza che rievocava con maggior piacere era quella di ministro, in particolare di Guardasigilli. Montanelli lo definì “il miglior ministro di Grazia e Giustizia dai tempi di Togliatti”.

Gli piaceva stare in parlamento, lavorare in parlamento e gli piaceva governare, non tanto per assecondare un’aspirazione di potere, ma per misurare la capacità di tradurre in scelte concrete il frutto di tante elaborazioni, spesso raffinate ma mai astratte.

Lo gratificava il confronto con insigni giuristi come Carraro, Bettiol, Terracini, Vassalli, Gallo, ancora presenti in Senato e, in seguito, con i professori Conso, Elia e Irti fuori dal parlamento.

Nel dibattito parlamentare si trovava particolarmente a suo agio, proprio per la capacità di interlocuzione con tutti i colleghi senza discriminazione. Un giorno l’on. Natta lo interruppe dicendogli: “Lei parte con il vantaggio di avere una fiducia preventiva e una grande stima”.

L’amore per le istituzioni l’aveva succhiato dal seno del cattolicesimo politico bresciano, e accentuato dopo l’incontro di due grandi maestri che segnarono la sua maturità politica: Sturzo e Moro.

Di Moro, in particolare, divenne discepolo – dopo un iniziale scontro ai tempi dell’affare Lockeed, quando era presidente della Commissione inquirente per i procedimenti di accusa – e interprete; il “miglior interprete”, dirà un altro discepolo fedele come Leopoldo Elia.

Introducendo i suoi discorsi parlamentari Martinazzoli osserverà che: “In sede parlamentare il discorso di Moro riflette le responsabilità istituzionali di volta in volta ricoperte; non stupisce quindi che appaia meno libero, meno fluido, talora meno efficace. Il Moro singolare creatore di linguaggio, incline a inserire nella propria argomentazione formule ellittiche che riassumono i passaggi decisivi… E tuttavia non ci troviamo di fronte a uno sdoppiamento ma ad una forma di complementarietà. Non si potrebbe capire il Moro “politico” senza il Moro in qualche misura istituzionale. L’uno si alimenta dell’altro in un costante rimando”.

Nell’introduzione ai discorsi parlamentari di Mino, usciti proprio in questi giorni a cura della Camera dei Deputati, che ho avuto l’onore di curare assieme all’amico Paolo Corsini, mi sono permesso di rilevare che “sembra quasi di cogliere in un angolo di questo affresco – come faceva Caravaggio – un suo piccolo autoritratto”.

Quando glielo si faceva rilevare si scherniva, anzi si irritava, non accettava un paragone che riteneva infondato e irriguardoso verso il grande statista, architetto sapiente dei passaggi più difficili della vita della Repubblica, eppure – situate doverosamente le due figure nel proprio tempo storico – non mi sembra eccentrico un loro accostamento.

Diversi sono gli elementi che giustificano un ricordo unitario, in questo mese di settembre, del centesimo anniversario della nascita di Moro e del quinto della morte di Martinazzoli.

C’era fra i due più di un’affinità elettiva, nella cultura dello Stato, nell’idea del “farsi umano dello Stato” e nella costatazione che “lo Stato non è altro dalla società, è semplicemente la sua regola”, nella convinzione che la “mediazione” fosse la regola della politica, nella consapevolezza infine che la politica debba essere servizio.

Quando a Martinazzoli venne affidata la missione “disperata” di salvare la Dc, si identificò nella dichiarazione di Moro resa al momento dell’accettazione nel 1959 dell’incarico di segretario del partito “senza gioia e con trepidazione profonda”, e ancor più con il commento dello stesso Moro al tempo di una sua dolorosa emarginazione politica alla fine degli anni Sessanta: “Quando mi ridaranno il partito, mi affideranno un cadavere”.

Di Moro apprezzava lo sguardo storico, l’intelligenza dei tempi, la capacità di costruire processi, la pazienza dei percorsi accidentati, la determinazione nella difesa dei punti di avanzamento, la rivendicazione del valore dell’autonomia dei laici credenti nelle scelte della politica.

Toccò infatti proprio a lui, nel 1962 al congresso di Napoli, difenderla, come accadde dieci anni prima a De Gasperi nelle elezioni al Comune di Roma: “L’autonomia è la nostra assunzione di responsabilità, è il nostro correre da soli il nostro rischio, è il nostro modo personale di rendere un servizio e di dare, se è possibile, una testimonianza ai valori cristiani nella vita sociale”.

Questa grandezza di Moro era per Martinazzoli un riferimento costante, soprattutto nei momenti drammatici e per lui largamente solitari del passaggio ineludibile, eppure duramente contrastato all’interno del partito, dalla Democrazia Cristiana al Partito Popolare.

Ammirava in Moro l’autorevolezza morale, appunto, che lo faceva punto di rassicurazione e di identificazione per tutto il paese, nei momenti più difficili e inquietanti della sua storia.

Ogni comunità, anche la più apparentemente disincantata e distratta, sente l’esigenza – in taluni momenti della propria vicenda umana – di riconoscersi, non in un capo carismatico che pretende attraverso la seduzione e il dominio di esercitare un controllo, ma in un’autorità morale.

Mi consenta di aggiungere, signor presidente della Repubblica, che le scene di questi giorni in cui abbiamo visto il popolo del terremoto stringersi attorno alla sua figura ci hanno rifatto vivere su un altro piano rispetto a quello strettamente politico, l’emozione dell’unità del paese di cui si sente anche oggi grande bisogno.

Ma Martinazzoli leggeva in Moro anche la fermezza con cui pretese di difendere l’onore di una storia, di una tradizione politica costruita – in un tempo ancora molto ideologizzato e conflittuale – su un disegno di coesione sociale, di centraltà anche se non più di centrismo, propedeutico a progressive inclusioni e integrazioni democratiche.

Diciamolo con chiarezza: Martinazzoli era aperto alle innovazioni politiche che i tempi richiedevano – e l’ha dimostrato con le alleanze di centro-sinistra fatte proprio a Brescia e in Lombardia prima che altrove – ma non era disponibile a rinunciare all’identità della sua storia politica (e polemizzò duramente con chi gli succedette alla guida del Ppi, compreso chi vi parla): in questo senso si considerava interprete e prosecutore della strategia di Moro.

La sua posizione politica al riguardo è rimasta ferma sino alla fine: alleati sì, estinti mai.

Un giorno, in uno dei miei vani tentativi di convincerlo almeno della giustezza del passaggio dal Ppi alla Margherita, gli lessi una testimonianza singolare di Nilde Jotti in cui riferiva di una confidenza resale dal conterraneo Giuseppe Dossetti a proposito del suo prossimo annuncio di ritiro dalla vita politica: “Più passa il tempo – le disse allora Dossetti – e più mi accorgo che su certe questioni dell’organizzazione della vita economica e dello Stato le vostre posizioni hanno profonde radici di verità; ma io penso che se voi riusciste ad imporre le vostre ragioni, i valori ai quali io credo sarebbero mortalmente feriti e siccome sono legato a questi valori – ricordo ancora, aggiungeva la Jotti, l’espressione latina che usò: usque ad effusionem sanguinis – io mi ritiro”.

Mino, tra il divertito e l’irritato, sorrise e replicò: “Ma io non ho la vocazione al martirio e, dunque, non arriverei all’effusione del sangue, la mia posizione era ed è politica, e perciò dico no. Non ho bisogno di aggiungere che mi ritiro, perché già l’ho fatto”.

Ad Annachiara Valle aggiunse: “Continuo ad essere convinto che, anche se io non lo vedrò, tornerà un tempo meno inclemente per questo seme della nostra storia che non può essere diventato infecondo. Dovranno passare molte cose… Dovranno arrivare delle generazioni che risentano queste cose come cose nuove”.

Eppure lui ci aveva provato a fare germogliare quel seme. Senza volere attardarci sulle condizioni storiche “disperate”, come lui le definì, che portarono una personalità come la sua, collaudata per lo più in esperienze di governo e parlamentari, priva di una propria corrente e un peso congressuale qualsiasi, a guidare il suo partito, vale comunque la pena indagare conclusivamente e brevemente le ragioni che lo portarono ad accettare quella sfida.

Innazittutto era consapevole di non potersi sottrarre, per un senso di appartenenza convinta a una storia politica, poi per una sorta – più emotiva che razionale – di solidarietà non certo verso chi giustamente doveva espiare responsabilità giudiziarie, ma verso chi veniva chiamato a rendere conto con costi smisurati e ingiusti di colpe politiche che riguardavano – seppur in modo diverso – un’intera generazione.

Vi era poi in lui la percezione dell’esaurimento di un compito storico largamente assolto dalla Dc sino alla caduta del Muro di Berlino, evento periodizzante la storia del secolo, ma vi era anche la convinzione di non poter disertare rispetto a chi si candidava in Italia semplicemente a ereditare un potere senza avere idea precisa di come altrimenti gestirlo, al punto che, dopo l’assassinio di Moro, era andato definendosi uno strano bipolarismo fra la politica e l’antipolitica: “La politica – dirà – sono i partiti che ci sono oggi, l’antipolitica sono i partiti di domani”.

Ancora: non poteva disertare rispetto alla necessità di ricostituire un sostrato morale della nostra democrazia. “Tangentopoli non era la causa, semmai la modalità con cui esplodeva la crisi democratica”, era solito osservare. Ma sarebbe stato inaccettabile che quella “lebbra” (così definiva la corruzione) fosse combattuta e sanata senza il contributo dei cattolici.

Infine sentiva una responsabilità verso l’Europa, su cui io sono solito richiamare l’attenzione, essendo stato testimone di diversi colloqui che in quel tempo Martinazzoli ebbe con Wielfrid Martens (presidente del Ppe) ed Helmut Kohl (cancelliere tedesco).

Con quest’ultimo in particolare Mino stabilì un solido rapporto di amicizia che si manifestava in frequenti telefonate, diversi incontri riservati e la partecipazione del Cancelliere a tutte le più significative manifestazioni del Ppi.

Il Cancelliere sapeva che se fosse scomparsa la Dc italiana dallo scenario europeo, all’interno del Ppe sarebbe stata compromessa la maggioranza politica genuinamente europeista, e per l’Unione si sarebbe aperta una stagione difficilissima, dopo che a Maastricht si era da poco decisa l’istituzione della moneta unica.

In questo senso Martinazzoli era fortemente sensibilizzato anche dai più importanti esponenti dell’economia e della finanza nazionale: non solo Andreatta, Ciampi, Nanni Bazoli ma lo stesso Enrico Cuccia che incontrò in sede riservata, alla Camilluccia, per un’intera mattinata (ma poi mi disse che, dopo aver parlato di questi problemi, divagarono con piacere reciproco e a lungo su Manzoni, Leopardi e altri letterati contemporanei), e il conterraneo Guido Carli, il quale scriverà, proprio in quei mesi, che “La classe politica italiana, non si è resa conto che, approvando il trattato, si è posta nella condizione di aver accettato un cambiamento di una vastità tale che difficilmente essa vi sarebbe passata indenne” (G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Editori Laterza, Roma-Bari, 1993, pag.437).

Anche questi problemi, su cui quando si parla di Martinazzoli non si è soliti riflettere, concorsero in modo non marginale a caricarlo della responsabilità di salvare – com’era solito dire – “il vascello” di ciò che era rimasto del grande partito che fece l’Italia e, attraverso tale operazione, aiutare, appunto, l’intero paese e l’Europa.

Per tutte queste ragioni, malgrado le enormi difficoltà di cui sin dall’inizio era pienamente consapevole, Martinazzoli volle provarci. La storia dirà se, nonostante l’esito, quel tentativo sia risultato comunque utile al dipanarsi delle vicende successive della politica italiana. Io penso di si.

Pierluigi Castagnetti

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