di Fausto Anderlini, 10 marzo 2018
Chi sono i pentastellati ? Meglio: cosa sono diventati ? Distinguiamo tre fasi.
1. La scintilla d’innesco. Dove una regione rossa fa da cavia e con temi nuovi viene occupato lo spazio della sinistra radicale.
I cinque stelle nacquero avendo come base il comitatismo urbano e i temi della democrazia deliberativa in salsa web, una versione radical, direttista e neo-tecnologica della cittadinanza civile con una marcata attenzione ai temi ambientali e legalitari. Alle origini erano un fenomeno locale disperso a macchia di leopardo nelle periferie rionali delle realtà urbane più evolute, cioè del centro-nord. L’ultimo prodotto della filiere dei movimenti post-moderni e post-materialisti. Lavorando su questi materiali raccolti terra a terra Grillo e Casaleggio elaborarono un prototipo generale che testarono in Emilia, a Bologna. Nello stile delle aziende che saggiano l’attrattività di una nuova creazione nei mercati più dinamici e attenti all’innovazione. L’Emilia e Bologna, non Napoli e Bari, infatti, erano luoghi dove più radicata era la cultura della partecipazione e dunque il livello delle attese frustrate. Sulle orme del ’77. L’ambiente più suscettivo a verificare le potenzialità del prodotto: una teoria della partecipazione, con tanto di corredo legalitario, non particolarmente sofisticata nè nuova (sostanzialmente una riedizione della favola leniniana della cuoca che può presiedere i soviet riducendo la politica ad onesta ‘amministrazione concreta’). Ma imballato, questa volta, non più con l’ideologia (bastando in proposito un generico richiamo al ‘cittadino’) ma nel ‘vaffa’. Una protesta erga omnes. Epitaffio di un’epoca. La vera forza eversiva ed espansiva della proposta, infatti, era nel pachaging. Parma fu il primo fortino espugnato: emblematicamente una città di forte tradizione civile e di sinistra, con un peculiare milieu culturale, ma caduta in disgrazia nella dinamica modernizzatrice del sistema di governo della regione rossa. Nelle elezioni regionali del 2010, al terzo mandato di Errani, a fronte di un evidente affaticamento del ‘modello’ socio-politico emiliano, il M5S tocca valori significativi (oltre le due cifre) a Parma, Bologna e Rimini: le città con il più ricco milieu socio-culturale urbano della regione. Mentre la Lega conosce una crescita notevole nelle periferie territoriali della regione. Due forze di innesco e scardinamento sistemico speculari: una che parte dalle città quaternarie e dal loro intorno, l’altra dalle periferie secondarie. Destinate entrambe a dilagare di lì a non molto.
2. Il grande take-off del 2013. Dove il M5S occupa lo spazio della protesta contro il sistema dei partiti e diventa una forza nazionale.
Tutta la forza espansiva del ‘vaffa’, cioè la straordinaria attrattività dell’imballaggio, si misura nelle elezioni del 2013, nelle quali precipita e si condensa trovando infine uno sbocco neo-partitico paradossale (in un ‘non partito’ che si comporta come una setta iniziatica) l’intera stagione della critica anticasta. Una critica ri-partita da destra, dopo la grande semina del ‘giustizialismo’ che aveva affossato la prima repubblica, con un volumetto sponsorizzato dal Corriere e lanciato contro l’establishment ulivista al potere in tutte le regioni, ma che ora, con il crollo del governo Berlusconi e il governo ‘tecnico’ di Monti imposto da Napolitano su mandato della Troika, si esplicita su tutto l’arco politico. Decisive sono le performances istrioniche di Grillo e i grandi raduni di massa. Vere e proprie ‘formazioni di massa’ dotate di una forza travolgente. Che occupano le piazze mentre i partiti, anche intimoriti dall’inverno, si ritirano nei ridotti teatrali. Il M5S tracima in tutto il paese, al nord come al sud e si alimenta della crisi di entrambi gli schieramenti, a sinistra e a destra. Per quanto ottenga un voto sostanzialmente uniforme nella penisola, realizza le migliori performance nei fortini della destra (quello leghista del nord-est) e quello pidiellista della Sicilia. Il Pd ne viene investito solo negli ultimi momenti della campagna elettorale, punito dalla timidezza del messaggio bersaniano e dal coinvolgimento nelle politiche antipopolari del governo Monti. Una parte consistente di ex elettori incerti Pd si orienta sui cinque stelle, sovvertendo i pronostici demoscopici (una maledizione che Bersani sarà costretto a rivivere ai nostri giorni, per quanto in formato mignon). Il risultato è che saltano i cleavages politico-territoriali storici mentre il sistema si ristruttura su tre poli. Cionondimeno il Pd riesce a conservare, seppure cedendo, un suo insediamento nelle regioni rosse e nel nord ovest. Un risultato non disprezzabile, guardato col senno di poi, ma vanificato dalla crisi di isterismo generata nei militanti e negli aderenti dalla ‘non vittoria’.
3. L’apogeo del 4 Marzo e la grande metamorfosi. Il partito del Sud che si erge contro quello del nord e qualcosa che assomiglia tanto a un noto passato.
Le analisi del voto del 4 Marzo sono inequivoche nelle loro indicazioni e portano alla luce una nuova metamorfosi dei pentastellati. Gli aspetti sociologici da considerare sono almeno due e da essi deriveranno le dinamiche a seguire di questa legislatura.
Il primo aspetto è relativo al fatto che si è occluso uno dei due canali di crescita del ‘movimento’, quello della destra. La Lega salviniana in veste antisistemica lepenista ha ripreso il controllo delle periferie del nord, del centro e del voto di destra in genere, scalando Forza-Italia. Sicchè l’incremento dei cinque stelle è avvenuto coinvolgendo masse rilevanti di ex votanti del Pd, e del centro-sinistra in genere. Facendosi interprete soprattutto del malessere sociale. La loro campagna si è appoggiata soprattutto sulle tematiche sociali: il reddito di cittadinanza, il ripristino dell’art. 18, la revoca della riforma Fornero. Mentre ha lasciato sul fondo, e sul vago, la questione fiscale, quella securitaria-immigratoria, quella dei diritti civili e soprattutto quella dell’Europa. Cioè i temi più fortemente divisivi, fatti salvi i diritti civili, dell’agenda di governo. Una piattaforma elettorale che il Pci dei ’50 e dei ’60 non avrebbe esitato a far propria. In effetti lo spazio sociale che il M5S è venuto occupando con una sorprendente progressione ricorda per diversi aspetti quello che a suo tempo occupò il Pci. Cioè uno spazio prevalente di protezionismo sociale di sinistra (e questo spiega anche il magro risultato di LeU e la delusione della speranza di innestare un processo assimilabile alle imprese di Corbin e Melenchon). Il paragone col Pci può apparire una enormità, se non una bestemmia. E in effetti mancano totalmente gli elementi ideologici e organizzativi. Sotto questo profilo nulla è più distante dal Pci che il M5S. Non ci sono le classi, non il progetto socialista, non la cultura politica, le classi dirigenti e i modelli di militanza e integrazione. E tuttavia anche la società italiana attuale è profondamente distante dal mondo materiale dei ’50-’60. Le classi sono frantumate e le grandi culture collettive di matrice agraria e industriale tritate e trasfigurate. Ma il M5S ha sostituito l’idea delle classi (e della lotta di classe) con qualcosa di più agibile come amalgama contemporaneo in una società frantumata, individualizzata e impoverita: l’idea del cittadino ‘qualunque’ defraudato di reddito e diritti. Marxismo-gianninismo. Nello stesso tempo il M5S si è fatto forza dell’excludendum ‘populista’ esattamente come il Pci si faceva forza del ‘fattore k’. Un fattore inibitorio a governare ma anche un laciapassare a occupare tutto il ‘mondo altro’ oppositivo al sistema.
Il secondo aspetto riguarda la geografia del voto. Per quanto il voto 5S sia sostenuto in ogni dove, anche nel centro-nord, come nel 2013, raramente sotto il 25 %, è cresciuta enormemente la deviazione standard. Al sud, infatti, si muove generalmente fra il 40 e il 50 %, talvolta sopra la maggioranza assoluta dei votanti. La rappresentazione cartografica che oppone le due italie, quella del centro-nord colonizzata dalla destra, e quella del centro-sud e delle isole, colonizzato dai 5 stelle, è impressionante.Sembra di vedere la carta del ’46, ma a parti invertite. Il M5S è diventato il partito del sud, o meglio è il sud che per la prima volta nella sua storia si è dato un suo partito. Una rivoluzione. Perchè il sud, come noto, ha sempre votato per ‘interesse’ e non per ‘appartenenza’, per quanto avesse al suo interno una pluralità di situazioni: c’erano zone rosse e zone bianche. Soprattutto c’erano le realtà urbane, nel dopoguerra, in mano ai partiti monarchico, liberale e fascista. Essi si un tratto identitario del sud, ma esclusivo ad alcune sue parti (quelle urbane, non le campagne). Ancora in epoca recente il sud era diviso fra le aree ad egemonia del centro-sinistra (la campania, la basilicata, più recentemente la Puglia) e quelle a egemonia della destra (la Sicilia, la Puglia). Tanto che la differenza la facevano le regioni swing: Abruzzi, Calabria e Sardegna. E’ sempre stato il sud a decidere chi mandare al governo, ma mai il sud ha deciso una volta per tutte con chi stare. Sempre si è tenuto le mani libere e si è ben guardato dall’identificarsi con una sua espressione politica precipua. Come il Nord-est bianco (e poi leghista) o come le regioni rosse. Adesso il livello del consenso ai 5S è tale da far pensare a una sorta di identificazione politico-territoriale propria. Il partito del Sud.
Cose nuove, cose dell’altro mondo, foriere di chissà cosa.