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di Carlo Formenti 28 settembre 2015
“Più tutele in cambio di produttività. Benvenuti nella società post-sindacale”: così titola un articolo di Dario Di Vico che occupa l’intera pagina 25 del “Corriere della Sera” del 27 settembre. Titolo che coglie il succo di quello che non esiterei a definire un vero e proprio manifesto programmatico della borghesia italiana nell’era ordoliberista. Leggendolo è infatti difficile non rendersi conto come questo articolo vada al di là dell’obiettivo che il capitalismo italiano, sulle tracce di quello mondiale, persegue dagli anni 80 del secolo scorso, vale a dire il drastico indebolimento del sindacato e il conseguente abbattimento della capacità contrattuale delle classi lavoratrici: qui si mira all’eliminazione totale del sindacato.
Di Vico spiega perché è oggi possibile realizzare un obiettivo tanto ambizioso: “a condurre il sindacato verso l’irrilevanza è un’erosione combinata nella capacità di leggere il mutamento, nell’autorevolezza e nella rappresentatività”. Altrove sottolinea che gli iscritti sotto i quarant’anni sono oggi solo il 27%. Ecco perché, aggiunge, “se una volta il governo delle relazioni industriali era appannaggio della coppia imprese-sindacati, ora gli industriali cominciano a pensare che sia possibile (o doveroso) far da soli”. Così nasce l’iniziativa di un “welfare aziendale” (traduzione: di una serie di concessioni paternalistiche che dimostrino l’inutilità del welfare sociale e l’opportunità di sgravare la spesa pubblica del suo peso); così l’azienda di domani (“una comunità che deve obbedire al mercato”) si prepara a “costruire una società più giusta con meno sindacato”. Nel ragionamento entra poi, seppure non come argomento centrale, il ruolo svolto dal governo Renzi nell’accelerare il processo, nella misura in cui ha incoraggiato la Confindustria di Squinzi a “lasciarsi alle spalle le remore del quieto vivere e a sfidare il veto della Cgil”. Dulcis in fundo, riecco un tema carissimo a Di Vico: il ruolo di quelle giovani partite Iva che “pensano che la migliore tutela professionale della loro azione sia il successo dell’impresa che conducono”.
Mi pare già di sentire le reazioni di chi criticherà questo discorso come un tentativo di far regredire le relazioni industriali all’800. Sarebbe la conferma di quell’incapacità di leggere il mutamento su cui Di Vico fonda la sua fiducia nell’avvicinarsi della definitiva sconfitta di ogni forma di organizzazione autonoma degli interessi dei lavoratori. L’analogia con il vecchio paternalismo, infatti, è solo apparente; il filo rosso che unisce le strategie dei Renzi, degli Squinzi (e dei Di Vico) è piuttosto quella analizzata da autori come Dardot e Laval, i quali ci hanno spiegato come il liberismo di oggi sia quanto di più lontano dal laissez faire smithiano. L’esaltazione del lavoro cosiddetto “autonomo” (leggi lavoro esternalizzato a elevata precarietà e a bassa tutela), la privatizzazione del welfare, la costruzione di un “uomo nuovo” convinto di essere imprenditore di se stesso (individualizzato e quindi disinteressato a forme di tutela collettiva dei propri interessi), l’esaltazione della concorrenza fra individui, imprese, nazioni (e quindi della produttività) quale valore assoluto, il nuovo ruolo dello stato, deputato a garantire le condizioni ottimali del funzionamento del mercato, non rispecchiano nostalgie vallettiane, ma le strategie ipermoderne di un neocapitalismo alla Marchionne.
Ecco perché penso che Di Vico abbia ragione sulla inadeguatezza culturale, politica e organizzativa del sindacato a far fronte alla nuova realtà. Penso anche, tuttavia, che quella di liquidare ogni forma di resistenza organizzata del lavoro al capitale sia, per fortuna, una beata illusione. Gli Stati Uniti, benché siano il paese occidentale dove il processo di annientamento del sindacato è stato portato avanti con più decisione e successo, vivono oggi una stagione di lotte che vede come protagoniste nuove organizzazioni nate dalla rabbia di giovani, migranti e altri soggetti esposti al rigore della crisi. E in Europa, mentre si riduce il potere sindacale, cresce quello di quei “populismi di sinistra” che configurano una sorta di sindacalismo sociale capace di organizzare i movimenti a partire dal territorio, oltre che dalla fabbrica, e di integrare e rappresentare una pluralità di interessi antagonisti. Insomma: il conflitto sociale non è morto, sta solo cambiando forma e, con buona pace dei Di Vico, potrebbe diventare più radicale di quello classico.