AZIONE POPOLARE – DI SALVATORE SETTIS – ed. EINAUDI
da micromega.it
INDIGNARSI NON E’ ANTIPOLITICA. Intervista a Salvatore Settis
Salvatore Settis insegna alla Scuola Normale di Pisa. Ne è stato direttore dal 1999 e al 2010. Di formazione archeologo, negli ultimi anni si è dato agli studi di Giurisprudenza, «per capire i meccanismi costituzionali che garantiscono i nostri diritti». È dottore honoris causa in questa materia all’Università di Padova e a Roma Tor Vergata. Autore di numerosi saggi sulla storia dell’arte, per Einaudi ha scritto tre libri da militante: “Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale“, “Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile” e “Azione popolare. Cittadini per il bene comune“.
“Tutti i cittadini dovrebbero mobilitarsi per l’interesse generale, a difesa dei beni comuni. Compresi quelli artistici”. Salvatore Settis ci parla del suo nuovo saggio edito da Einaudi, un manifesto politico contro la sistematica sottrazione dei nostri diritti civili.
Salvatore Settis è un 71enne signore dai modi gentili e leggermente impacciati di chi ha trascorso più di dieci lustri della propria vita tra libri, convegni, testi antichi, banchi delle più prestigiose istituzioni universitarie. La sua rabbia per come vanno le cose in questa Italia «dominata dal verbo della destra, cui anche la sinistra è succube» e dove tutto, pure i beni culturali e il paesaggio, «patrimonio della nazione» sono trattati alla stregua di «oggetti vendibili al mercato», è l’ira dei miti. Il suo non è un atteggiamento estremista né ammiccante all’antipolitica («Odio e volontà di eliminare gli altri»), è invece un modo di porsi fatto di indignazione e radicalità.
Non le sembra che il titolo del libro sia pericoloso? L’azione popolare è una nozione populista e di destra. E perché l’ha scritto?
«Sono archeologo e storico dell’arte. Le mie competenze sono Giorgione, Laocoonte, cose così. Negli anni Novanta sono stato per sei anni alla Fondazione Getty in California. Il ritorno in Italia è stato traumatico per come si era deteriorato il senso della vita civile. Cominciai occupandomi della vendita del patrimonio culturale. Ne è nato il volume “Italia SpA”. Ha avuto 150 recensioni: compresi bollettini parrocchiali e quello degli scaricatori del porto di Livorno. Così sono entrato in contatto con tanti piccoli movimenti locali: contro la cementificazione di una salina o la modifica di un palazzo storico. Poi ho scritto un secondo libro, sul paesaggio. Si è ripetuto lo stesso scenario. Mi invitavano parroci, insegnanti delle scuole. Ho avuto 300 incontri con il pubblico. Ho capito che le persone impegnate in vari comitati (ce ne sono 30 mila in Italia, vuol dire che almeno 3 milioni di cittadini ne fanno parte) erano in cerca di munizioni. Ecco la genesi di questo terzo libro».
E il richiamo populistico?
«Siccome ne sono consapevole, ho voluto aggiungere il sottotitolo “Cittadini per il bene comune”. Si tratta dell’esercizio dei diritti di cittadinanza. Comunque azione popolare allude ad “actio popularis” del diritto romano: il diritto di un singolo cittadino di agire a nome dello Stato, dell’interesse generale, direi oggi».
In concreto?
«Vorrei che riportassimo le nostre battaglie locali sul terreno dell’interesse generale, appunto. Rendiamoci conto che la lotta dei sindacati contro l’abolizione dell’articolo 18 e quella dei cittadini di Siracusa per non costruire sopra il Teatro greco, pur diverse nella forma, sono la stessa cosa».
Dove vuol arrivare?
«A ragionare sui beni comuni. Siamo figli di una genealogia che viene da lontano, dal “bonum commune communitatis” presente negli statuti medievali delle città italiane. Con la Rivoluzione francese e l’Illuminismo tutto questo si è collegato al discorso dell’interesse generale. Ricostruire quel filo è importante in questa fase, perché con il mio discorso voglio arrivare anche ai cittadini di destra. Ci sono dei valori fondamentali. Ci sono sindaci leghisti bravi e del Pd orribili, per quanto riguarda l’uso del suolo e la tutela del paesaggio».
L’indignazione, vero tema del suo libro, non è antipolitica?
«Per me l’antipolitica sono i mercati: la principale forza che è contro la politica. L’antipolitica è quella, poteri occulti anonimi, non controllati né da Stati né da cittadini e che si circondano di un’aura di sacralità. Ho letto ultimamente su un giornale la frase: “arriverà il giudizio universale dei mercati”. È un linguaggio religioso, metafisico. Il mercato è dio».
Con il governo Monti è cambiato il linguaggio in Italia?
«Finalmente abbiamo un presidente del Consiglio che parla dell’evasione fiscale. È un cambiamento di lessico notevole. Neanche Prodi, D’Alema, Amato ne hanno parlato, se non in sordina e scusandosi per il disturbo. Però, tante altre cose sono rimaste invariate. E guarda caso i tecnici del governo tecnico che fanno più acqua sono quelli che si occupano della cultura. Ai Beni culturali c’è una persona (Ornaghi) che non solo non è un tecnico, ma cui non interessa il dicastero che deve dirigere, e del resto ignora la materia. Questo esecutivo non ha fatto niente per correggere le storture dei governi di centro destra per quanto riguarda la cultura, la ricerca, l’istruzione. Ho stima di Monti ma sono deluso: mentre in Francia e in Germania si investe in cultura, qui si taglia. Da questo punto di vista il linguaggio non è cambiato: rimane il dogma del mercato».
La sinistra?
«Succube della cultura di destra. Un esempio? Un tabù: Marx. Si preferisce l’abbraccio mortale con Berlusconi pur di non pronunciare questo nome. Eppure Marx fa un’analisi eccellente su come denaro generi denaro. Cose attualissime oggi. Mi colpisce che si parli sempre della modernizzazione come se fosse un termine univoco e neutrale. E infatti, la differenza tra la modernità di Berlusconi e quella di Bersani non è evidente nei programmi del leader del Pd. La sua idea della modernizzazione è la stessa della destra, ma con un po’ di più d’attenzione per il sociale. Il principale responsabile di questa stortura è D’Alema, cui manca ogni orizzonte politico, ne ha solo uno tattico, e spesso finisce in sconfitta. Di Renzi poi, non ne parliamo».
Soluzione?
«Tornare alla Costituzione. Che afferma il diritto al lavoro, all’istruzione (diceva Calamandrei che la scuola è un organo costituzionale), tutela il paesaggio».
Parliamone del paesaggio.
«Un esempio. I Templi di Agrigento sono passati – in nome del federalismo demaniale – alla Regione Sicilia. Quindi n on sono più di cittadini italiani. E il sindaco di Agrigento voleva metterli all’asta da Sotheby’s. Una stupidaggine, che rileva però quanto tutto è ormai monetizzabile. Si dimentica che il demanio e i diritti sono legati l’uno all’altro. Il portafoglio patrimoniale che abbiamo garantisce i nostri diritti: alla salute, al lavoro. Se vendiamo tutto per sanare il debito pubblico, diventiamo solo più poveri».
Nel suo libro, lei cita Antigone per affermare la priorità del diritto sulla legge. Ma se Creonte è solo un mascalzone, e se tutti facessimo ciò che sentiamo giusto , non esisterebbe la polis.
«Infatti, c’è bisogno anche di Creonte. Ma le leggi sono spesso ad personam (Berlusconi). Ecco perché esiste un principio supremo: quello sancito dalla nostra Costituzione che poi significa la legalità. E attenzione, già che parliamo delle leggi. Chi, spesso a sinistra, afferma che i magistrati hanno sempre ragione, finisce per deresponsabilizzare i cittadini e i leader politici. È una pericolosa deriva giustizialista».
Ultima domanda. Prendiamo Pompei, tra crolli e scandali, come simbolo. Cosa si può fare per i beni culturali, per preservarli?
«Il ministero dei Beni culturali così come è adesso è una specie di ghetto. Per questo ci vanno ministri di serie B. Occorre invece unirlo con il ministero dell’Ambiente. Poi occorre aumentare le risorse alla cultura, e basterebbe tornare al livello di cinque anni fa. Infine, bisogna rivedere il sistema delle soprintendenze territoriali, indire concorsi e assumere anche cittadini non italiani. Aggiungo: rinegoziare il rapporto tra Stato, comuni e regioni per quanto riguarda la gestione del territorio. E questo sulla base della Costituzione che prevede che la tutela del paesaggio è uguale in tutta l’Italia. Mentre oggi, quella siciliana funziona meno rispetto a quella piemontese ad esempio, perché troppo autonoma».