Avellino… per me, le pietre

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Lia Sellitto

di Lia Sellitto  7 agosto 2018

Erano di pietra le vecchie panchine della Villa comunale – orgoglio della premiata ditta Silvestri di Roccabascerana – una la vedo ancora, insieme alla fontana di pietra anch’essa, in una vecchia foto di famiglia, scattata sicuramente di domenica; mia madre ha i guanti, un vestito in crèpe di seta blu, con il corpetto scollato a “V” e una fila di bottoncini messi come i grani del rosario, ricoperti di stoffa, che ornano il davanti, un unico pezzo le cui maniche larghe a pipistrello si stringono ai polsi. Alla fine della scollatura, una spilla tonda non so se d’oro o d’argento con una pietra al centro la chiude. La gonna è fatta di teli in sbieco, larghi, che ondeggiano al vento.

Mio padre ha il giornale, un abito di un tessuto leggero e spiegazzato, il solito fazzoletto bianco nel taschino. Noi bambine indossiamo vestitini nuovi, il mio grigio chiaro, ha le maniche a palloncino con il corpetto a nido d’ape ricamato con il filo rosso e una cinturina rossa legata dietro la schiena. Ho anch’ io un giornalino tra le mani, come il babbo, e la mano quella libera, la tiene mia madre, come a tirami, perché un po’ mi nascondo al fotografo. Mia sorella che invece si appoggia al braccio di mamma, indossa un abitino grigio antracite con una mantellina “monacale”, bordata da applicazioni bianche che poggiano sulle maniche, e un piccolo colletto, anch’esso bianco; abbiamo entrambe scarpe ripassate con il bianchetto e calzini bianchi. Siamo eleganti, la famiglia al completo, perciò credo fosse domenica. Abitiamo in via Roma e la Villa Comunale, la domenica, è la nostra meta preferita.

Così le panchine di graniglia ocra sono il nostro riferimento, perché noi bambine ci stanchiamo facilmente.

Cresciute, abbiamo continuato a sederci su quelle panchine, d’estate cercando l’ombra, in compagnia di un libro di lettura, il nostro divertimento all’aria aperta, sotto i lecci e gli ippocastani profumati, una vera festa trovare un posto libero.

Le nostre passeggiate, da ragazze, lungo il Corso principale, il Corso Vittorio Emanuele, subiscono sempre un momento di imbarazzo, quando imboccato Viale Platani all’altezza di S. Ciro arriviamo davanti alla Villa comunale.

La Villa, Orto botanico un tempo, ha nella parte davanti un lungo muretto di un materiale diverso dalle panchine, di una bella pietra quasi bianca, consumata e levigata dal tempo, sovrastato da tonde e panciute colonne, come giganti panettoni, collegate da lunghi tubi di ferro che costituiscono una sorta di recinzione- si fa per dire- ma poi si entra facilmente all’interno una volta seduti sul muretto, facendosi scivolare all’indietro, ma questo lo fanno soprattutto i ragazzi.

Infatti i muretti sono il loro regno, se ne stanno appoggiati o seduti nelle mattine di sole, nei pomeriggi, nelle sere d’estate.

La prima parte del muretto della “Villa”- così la chiamano gli abitanti di Avellino – fino all’ingresso principale è poco frequentata, sono rade le presenze maschili, ma la seconda parte che va dall’ingresso principale fino al “Polo Nord”- bar storico – è il ritrovo dei ragazzi, sempre gli stessi, che puntuali come la morte, lì si danno appuntamento.

Allora, l’imbarazzo è sfilare come su una passerella davanti a loro, schierati uno dopo l’altro, perché osservano, ammiccano, fanno commenti sulle ragazze. C’è da dire che la libertà con la quale occupano quello spazio suscita l’invidia di tutte le ragazze, non avremmo mai potuto sederci noi, alla loro stregua, in quel punto nevralgico, comodo osservatorio, privilegio maschile degli anni 60.

Ma nel tempo, alla fine degli anni 70 quando noi ragazze prendiamo possesso e confidenza con la città, e la città la sentiamo più nostra, ci sediamo con il gruppo dei nostri amici – per una sorta di maggiore parità conquistata – su quel muretto, ma a dire il vero, prendiamo possesso solo di quello all’inizio, all’altezza del cinema l’Eliseo, l’altro quello “storico” alla fine della Villa, rimane privilegio maschile.

Altra cosa si svolge sul marciapiede opposto del Corso principale, Vittorio Emanuele, dove di fronte alla Villa Comunale inizia il glorioso liceo “Pietro Colletta”, lì ha studiato il giovane Francesco De Sanctis venuto da Morra Irpina, e altri concittadini illustri.

Questo muretto, che inizia basso e poi sale alto, è un altro luogo di ritrovo, non solo maschile, si osserva lì una certa parità, non solo di sessi ma di età, a partire da mamme con le carrozzine, dagli studenti, dagli “alternativi”, dalle ragazze. Su quelle pietre quanti incontri, quanti appuntamenti, quanti personaggi; a primavera è piacevole la sera sedersi sulla pietra porosa di un bel grigio quasi azzurro, che conserva il caldo della mattina, ma d’estate diventa bollente.

Non frequento più il Corso, se non fuggevolmente, ma quelle pietre conservano la storia mia e di una generazione che, malgré nous, ha fatto la storia, piccola, silente, e le pietre ne conservano la memoria.

Ora c’è un’altra storia, che non conosco, da quando la città, dopo il terremoto dell’80 è in parte tutta nuova e mi sento stranita nel percorrere Viale Platani senza platani e scorgere da lontano alla fine dello stesso Viale quei palazzi con archi in marmo rosato, ideati da un “Brunelleschi” in trasferta in Irpinia, lì dove hanno abbattuto le case di campagna, verdeggianti alberi di nocciole, le avellane, da cui forse deriva anche il nome Avellino…

Lia Sellitto

 

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