Fonte: MicroMega
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di Guglielmo Forges Davanzati
Sono stati piuttosto rari, nella storia recente delle economie industrializzate, i casi di deflazione, ovvero di riduzione del livello dei prezzi. In prima approssimazione, potrebbe trattarsi di un fenomeno positivo – in quanto si associa a un aumento delle retribuzioni in termini reali – e, come alcuni economisti ritengono, esistono casi di deflazioni “buone”, ovvero casi nei quali la caduta dei prezzi stimola la crescita della produzione[1]. Si tratta di una tesi che non trova riscontri empirici e che, sul piano teorico, è stata a più riprese smentita, a ragione del fatto che si basa su ipotesi estremamente stringenti[2]. A ben vedere, la deflazione è, per contro, il principale sintomo di una intensa recessione e, al tempo stesso, una causa rilevante che può accentuarla.Le ultime rilevazioni Istat segnalano che, a luglio, nelle più grandi dieci città italiane i prezzi sono calati rispetto all’anno precedente. Per l’area euro, nel corso del 2013, l’indice dei prezzi al consumo è aumentato solo dello 0,85%. Nel periodo compreso fra maggio 2013 e maggio 2014, si è registrato un aumento pari a circa 0,50%, a fronte di un aumento del 2,2% del decennio pre-crisi 2000-2009[3]. La figura 1 mostra l’andamento del tasso di inflazione nell’attuale zona euro a partire dal 1990.
Figura 1: tasso di inflazione eurozona (fonte: Eurostat, 2014)
La deflazione accentua la recessione per i seguenti motivi.
1) La riduzione della domanda di beni di consumo spinge le imprese o a ridurne la produzione o a ridurne i prezzi. E, per farlo, occorre ridurre l’occupazione – nel primo caso – o ridurre i salari – nel secondo caso. Si attiva una spirale perversa di ulteriore contrazione dei consumi, della domanda aggregata e del tasso di crescita. La riduzione dei salari e dell’occupazione rende difficile l’accesso al credito bancario da parte delle famiglie (oppure, nel caso siano già indebitate, ne riduce la capacità di rimborso del debito), implicando restrizione del credito al consumo da parte del settore bancario.
2) La riduzione dei prezzi può essere sostenibile per le imprese (soprattutto per quelle che operano su mercati interni) fino a quando essa non erode del tutto i margini di profitto. Quando ciò accade, la deflazione si associa all’aumento del numero di fallimenti e/o al crescente indebitamento delle imprese nei confronti delle banche e alla loro crescente insolvenza. La contrazione dei margini di profitto, quando anche non conduce al fallimento, rende sempre più difficile la realizzazione di investimenti, anche in considerazione del fatto che riducendo la solvibilità delle imprese riduce la convenienza, da parte delle banche, a erogare finanziamenti per nuovi investimenti. Anche per questa via, la deflazione riduce la domanda aggregata e il tasso di crescita. In più, poiché la dinamica della produttività del lavoro dipende essenzialmente dal tasso di accumulazione del capitale, la contrazione degli investimenti ha anche effetti di segno negativo dal lato dell’offerta.
3) Poiché le decisioni di investimento delle imprese dipendono essenzialmente dalle loro aspettative, la riduzione corrente del tasso di inflazione tende ad associarsi all’aspettativa di ulteriore calo dei prezzi, inducendo le imprese a posticipare gli investimenti, anche se hanno fondi disponibili per effettuarli oggi.
4) Non essendo affatto scontato che la riduzione dei prezzi spinga i consumatori ad accrescere la propria domanda di beni e servizi, può verificarsi il caso in cui la riduzione dei prezzi oggi determini aspettative di ulteriori riduzioni dei prezzi, avendo come effetto la posticipazione dei consumi e, dunque, la caduta della domanda [4]. Fermi restando altri fattori, l’andamento del mercato immobiliare nell’ultimo triennio in Italia rappresenta un evidente esempio di questo fenomeno.
5) La deflazione aumenta l’onere reale del debito pubblico. In altri termini, per i titoli di Stato già emessi per i quali i tassi di interesse sono fissi, la riduzione dei prezzi ne accresce il valore in termini reali. Ciò significa che l’onere reale del debito pubblico aumenta e, dato l’obiettivo del rispetto dei vincoli di finanza pubblica, da ciò segue un aumento della tassazione. Peraltro, poiché la riduzione del livello dei prezzi riduce il Pil nominale, si riduce, per conseguenza, la base imponibile, rendendo necessarie ulteriori misure di inasprimento fiscale. La caduta dei redditi disponibili al netto delle tasse, dei consumi e della domanda costituisce un esito pressoché inevitabile.
La caduta della domanda potrebbe essere attenuata dalle spese effettuate dai debitori, in considerazione del fatto che la deflazione accresce i loro redditi reali. E tuttavia, si può argomentare che i) i creditori possono evidentemente spendere se i loro debitori sono solvibili, il che, di norma, non accade in fasi deflazionistiche; ii) appare poco ragionevole ritenere che, anche nel caso in cui i creditori vedano interamente rimborsato il loro capitale, lo destinino interamente all’acquisto di beni di consumo e/o di beni di investimento.
Ciò a ragione del fatto che i creditori, in quanto percettori di rendite finanziarie, tendono ad allocare i loro profitti in attività speculative e/o nell’acquisto di beni di lusso, che non necessariamente si traducono in un aumento della domanda interna. Si può rilevare, a riguardo, che l’“unity marketing’s measure of affluent consumer confidence” – che misura le aspettative dei consumatori di beni di lusso – è aumentato di quasi 10 punti nel terzo trimestre 2014 rispetto al trimestre precedente.
Quando ciò si verifica, la deflazione può considerarsi un fenomeno che semmai accentua i processi di finanziarizzazione e di allocazione di risorse per usi “improduttivi”[5], i quali, a loro volta, contribuiscono a ridurre gli investimenti e il tasso di crescita[6]. E’ opportuno, tuttavia, osservare che il principale effetto generato dalla caduta dei prezzi consiste nel ridistribuire reddito a beneficio dei percettori di rendite finanziarie (in quanto creditori) e di imprese esportatrici, dal momento che queste possono avvantaggiarsi della deflazione per recuperare quote di mercato nel commercio internazionale.
Il fatto che la caduta dei prezzi rafforza il potere contrattuale dei creditori (con particolare riferimenti ai rapporti fra banche e imprese) ha un’implicazione rilevante sul piano della politica economica. La spirale deflazionistica potrebbe essere, infatti, fermata o attenuata dall’attuazione di politiche fiscali espansive. Le quali, ampliando i mercati di sbocco, accrescono i ricavi delle imprese rendendole meno dipendenti dal sistema bancario[7], ridistribuendo, dunque, risorse ai debitori e, simmetricamente, sottraendo potere ai creditori. Ma poiché i creditori – ci si riferisce, in particolare, al sistema bancario – sono tali non solo nei confronti delle imprese ma anche nei confronti dello Stato (in quanto, almeno nel caso italiano, sono acquirenti di titoli del debito pubblico), il loro accresciuto potere contrattuale nella sfera politica può far sì che i governi incontrino rilevanti resistenze laddove intendano accrescere la spesa pubblica, anche nel caso in cui non sussistano vincoli normativi per la loro realizzazione.
In termini più generali, ciò presuppone l’ovvio argomento secondo il quale nessun Governo può attuare misure di politica fiscale che, in via diretta o indiretta, danneggino i suoi creditori; e in una condizione nella quale il potere dei creditori aumenta in virtù dell’aumento dei loro redditi reali, queste misure diventano sempre meno praticabili[8].
Per quanto è dato sapere, le Istituzioni europee si apprestano a fronteggiare i rischi di una spirale deflazionistica attraverso nuove immissioni di moneta. Ma l’esperienza degli ultimi anni mostra la sostanziale inefficacia della politica monetaria per far fronte alla recessione. Ciò dipende fondamentalmente dal fatto che la BCE (come tutte le banche centrali) non è in grado di controllare la quantità di moneta effettivamente circolante, fondamentalmente a ragione del fatto che gli impulsi monetari si traducono in maggiore moneta circolante solo a condizione che gli Istituti di credito siano disponibili a erogare maggiori prestiti a imprese e famiglie. Peraltro, la BCE ha, per statuto, l’obiettivo della stabilizzazione dei prezzi a un target del 2% – statuto pensato per contrastare l’inflazione – e, in tal senso, non è tecnicamente attrezzata (se non attraverso misure definite non convenzionali) a far fronte a rischi deflazionistici.
La reiterazione delle “riforme strutturali” (precarizzazione ulteriore del lavoro in primis) e dei tagli di spesa (spending review) è esattamente ciò che non andrebbe fatto per contrastare il problema, dal momento che maggiore flessibilità del lavoro e minore spesa pubblica sono la via maestra per ridurre ulteriormente i redditi e, per questa via, accentuare la spirale deflazionistica.
NOTE
[1] Si è espresso, di recente e fra gli altri, a favore di questa tesi Jaime Caruana, direttore generale della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea. Si tratta della riproposizione del c.d. effetto Pigou, secondo il quale la riduzione dei prezzi accresce le scorte liquide in termini reali dei consumatori, ne accresce conseguentemente i consumi fino a portare il sistema economico in una condizione di equilibrio di pieno impiego.
[2] In particolare, si assume che, anche in regime deflazionistico, le aspettative sono adattive o razionali, che la propensione al consumo dei creditori è uguale alla propensione al consumo dei debitori (di norma, la propensione al consumo di questi ultimi è di fatto maggiore di quella dei primi), che non esiste incertezza e detenzione di liquidità per usi precauzionali.
[3] Per il caso italiano, l’ISTAT riferisce che il calo dei prezzi è soprattutto imputabile a quelli di alimentari e bevande, a quelli relativi alle abitazioni e alle comunicazioni.
[4] Come messo in rilievo, in particolare, da Gunnar Myrdal, questi comportamenti dipendono dal fatto che “it is possibile that people are so conditioned by the theory or earlier experience that they will expect that after a rise in prices there will follow a fall” (G. Myrdal, Rich lands and poor. New York, Harper & Brother Publisher, 1957, p.37).
[5] V., fra gli altri, G. Forges Davanzati and A.Pacella, The profits-investment puzzle: A postKeynesian-Institutional interpretation, “Structural Change and Economic Dynamics”, 2013, 26, pp.1-13.
[6] La letteratura sulla finanziarizzazione è estremamente ampia. Può essere sufficiente, in questa sede, rinviare a E.Stockhammer, Financialization and the slowdown of accumulation, “The Cambridge Journal of Economics”, 28 (5), 2004 e a G.A. Epstein, Financialization and the world economy, Elgar, 2004.
[7] Ciò a ragione del fatto che la spesa pubblica accresce i profitti monetari aggregati e le aspettative di profitto. Sul tema si rinvia a A.Parguez, A monetary theory of public finance, “International Journal of Political Economy”, 2002, vol.32, n.3, Fall, pp.80-97.
[8] Sulle relazioni fra relazioni di potere nell’arena politica e nella sfera economica, cfr., fra gli altri, W.Korpi, Power resources theory vs. action and conflict, in J.S. O’Connor and G.M.Olson, Power resources theory and the Welfare State, Toronto, University of Toronto Press, 1988.