di Leonardo Masone – 2 giugno 2017
Molti di noi, fin dalla prima infanzia, hanno avuto contatti con la vicina chiesetta. I preti erano delle autorità. La santa Messa domenicale era l’evento della settimana, condita da propedeutici rituali, in parrocchia o nelle contigue associazioni clericali. L’anno che anticipava il sacramento della comunione, “inconsciamente obbligatoria” (pena, in alcuni casi, il confino dal gregge pastorale), era quasi tutto dedicato all’afflato spirituale. Un ministro della Chiesa animava il nostro tempo con la divulgazione dei princìpi, dei valori, dei dogmi e della morale consacrata dai dettami dei seguaci di Cristo (o, comunque, dei suoi biografi): «andate, dunque, e fate miei discepoli tutti i popoli, battezzandoli (…), insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate», l’incoraggiante sollecitazione di Matteo. Il catechista asseriva, anche con una certa audacia, che il fondamento della vita del buon cristiano era prima di tutto la conoscenza e l’amore del prossimo, nostro fratello. Tutti i prossimi, senza discriminazione alcuna. Anche nei confronti dei ladroni di fianco all’ebreo palestinese; anche verso il gaglioffo filibustiere Barabba, osannato dal popolo inconsapevole e garantito dall’ignavo Pilato. Ci insegnavano che la desiderata monarchia celeste, il cui re si mostrava con un’umile corona di spine, era accogliente: l’umanità intera avrebbe trovato posto lì. Un precetto valido in ogni tempo e in ogni dove. Anche nel tempo (oggi) e nel dove (qui) in cui la degenerazione dei costumi diviene il costume imperante. Nel tempo in cui, cioè, ogni facoltà umana viene considerata tale solo se diventa utile al modello produttivo egemone; solo se ha un un prezzo e un marchio. Nel tempo degli scadenti rapporti umani e delle belligeranti relazioni intra-statali, in cui anche la morale diventa tragicamente oggetto di mercanzia. Nel tempo della guerra che genera altra guerra e produce fuga di genti.
Una trasmigrazione epocale come lo sono state altre, seppur con diversi connotati. Grandi esodi e noi che siamo in mezzo alla corrente. E come rispondono gli indottrinati figli della catechesi a questa diaspora?
Esiste, certo, l’abnegazione di appassionati e filantropi baluardi dei precetti evangelici. L’incessante lavoro del Santo Padre è fonte di enorme ispirazione per la resistenza alle degenerazioni etiche e culturali; ma nei coni d’ombra di quel mondo l’autorevole sforzo viene inascoltato oppure travisato. Taluni devoti osservanti, infatti, inorridiscono alla vista del malandato Lazzaro venuto dal mare. Il torbido pericolo che si nasconde dietro i “non sono razzista, ma..”, o, ancora, dietro i più espliciti fautori del “tornino da dove son venuti…” , è micidiale: azzera banalmente la tradizionale e secolare cultura cristiana. “Vengono a rubare il lavoro” (a noi, già precari sfruttati), come se avessero facoltà per decidere, i riservisti del mai estinto esercito industriale di riserva: il tempo in cui ogni cosa è diventata merce è nitidamente sotto i nostri occhi. La regia di questa marea è programmata proprio da coloro i quali mettono in circolazione, ad arte e agevolmente, uomini e donne ridotti in merci, fornendo ai “derubati” le laide e ammorbanti risposte scontate. Contestualmente, senza nemmeno accorgersene, si perde la memoria di quella religiosità popolare, semplice e accogliente, autentica nelle sue manifestazioni e nelle sue cadenze simboliche.
Certo il Diritto non si assume le sue responsabilità e i suoi doveri, facendo inesorabilmente lacerare i rimasugli dell’etica: il raglio di certi asini opportunisti, che aprono i telegiornali o gestiscono monocraticamente partiti, fa luce sull’opaca disattenzione nei confronti di quell’insegnamento dottrinale della nostra infanzia, decretane il suo svilimento, se non addirittura il suo fallimento. Perché a regredire è anche la tenuta della catechesi, i cui principi si appannano e si ribaltano con troppa facilità. Confuse pecorelle, abbindolate dai suggerimenti del risoluto accaparratore di profitto che sguazza in questa discrasia morale e valoriale: non era contro la ricchezza che si scagliava la corona spinata?
Non ci si può esimere dagli addentellati interrogativi che, obbligatoriamente, impegnano la nostra responsabilità di esseri viventi, nel presente storico. Morale e politica, economia e sociologia, ambiente e “culture” si sintetizzano nei processi e nelle dimensioni attuali della umanità migrante.
L’Ideologia unica del mercato-dio, invece, pervade l’umano: è piena di vita e pare aver vinto l’ennesimo scontro epocale. Lo sfruttamento è la vera ed inesorabile meta dell’uomo lupus. La bestia feroce, che occlude corpi e intelletti, ha sempre lo stesso nome e conduce sempre la stessa guerra: la perniciosa macchina del capitale con la sua vorace capacità di inghiottire tutto e tutti, immanente e trascendente, continua a vincere finché non disseppelliamo le armi del popolo, stordito dall’oppio. E tra le armi la più potente: la consapevolezza. Necessaria oltremodo anche per rilanciare una nuova elaborazione politica. Quando ritroveremo la nostra sola patria, quella abitata dagli oppressi per dirla con don Milani, conseguiremo nuovamente il rigore dell’adeguata attrezzatura con cui poter lottare contro l’efferatezza di quella bestia che ci rende tutti atomi di una materia informe.