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ATLANTE DEI CLASSICI PADANI – di FILIPPO MINELLI e EMANUELE GALESI – ed. KRISIS PUBLISHING
La brutta Padania
È un catalogo del brutto, un elenco fotografato con cura degli orrori del territorio padano. Un pesante tomo che evidenzia, meglio non si potrebbe fare, i guasti della commistione di scatenata iniziativa privata e dissennatezza delle grandi opere pubbliche. La Padania, lo sappiamo, non esiste, storicamente né culturalmente. Ma negli ultimi 50 anni si è costruita, ha preso forma. La trovate qui, in questo libro fotografico ragionato, Padania classic. L’Atlante dei Classici Padani, pubblicato da Krisis Publishing grazie a un riuscito crowdfunding (chi la cerca può ordinarla qui, e c’è anche un omonimo sito aggiornato continuamente). La dimostrazione di un “dissesto psicoinfrastrutturale”, la presenta Wu Ming 1 in uno degli ultimi incontri di Festivaletteratura di Mantova.
Piemonte, Lombardia, Veneto, una macroregione che ha in comune lo spreco del suolo, la mostruosità degli esiti, la sostituzione di un antico paesaggio rurale in grandi forchettate di svincoli e rotonde, discariche e inceneritori, capannoni più o meno utilizzati. «E intanto il cancro della cementificazione inutile e brutta cresce – incalza lo scrittore Wu Ming 1, che dal canto suo sta lavorando da tempo su territorio e conflitto in Val di Susa – anche perché una grande opera non è solo uso di quel particolare territorio. Come una goccia d’inchiostro su carta assorbente una grande opera dilaga, cambia il traffico, gli spazi intorno. Crea nuove necessità, esige nuove strade, suggerisce nuovi centri commerciali. Se non sapremo difendere quel che è rimasto ci condanneremo a vivere tra le macerie. E la macroregione sarà il carcere dell’anima».
L’autore del progetto, Filippo Minelli (che ha cofirmato il lavoro con Emanuele Galesi), ha passato tre anni a fotografare il brutto, e altri due a redarre il libro: «Questa bulimia cementizia è recente – nota – dagli anni ’60 a oggi. Ma ha già mutato profondamente il suolo con un incredibile cambio architettonico, omologato ai peggiori esempi delle periferie del mondo, complice una deregulation totale. La parola chiave per attuare il dissesto psicostrutturale è stata “polifunzionale”, centri commerciali, artigianali, abitativi, tutto insieme, le colonnine doriche e i nani da giardino, mega scheletri iniziati e abbandonati, la pubblicità dei compro-oro e dei centri massaggi ammiccanti, una Las Vegas opulenta e insieme miserabile. Nel paesaggio, una volta, si specchiava la comunità, ora solo l’individualità, il potere e l’ostentazione del denaro, il vuoto culturale. Su questa perdita d’identità la Lega ha incistato una identità inventata, con riti druidici e acque del Po. Sotto c’è il disastro delle grandi opere pubbliche e delle piccole private azioni quotidiane».
Cosa ci vuole a tirare su un capannone? Semplice, modulare, può essere modificato alla bisogna, e comunque crea valore, il fido in banca; che poi sia utile è davvero superfluo. E intanto si cementifica, si tombano i corsi d’acqua, si riempie un “vuoto” che invece è pieno di campi e prati. Un’ossessione che ha trasformato il territorio in un orrendo blob di asfalto e cemento e cartelloni pubblicitari di qualsiasi cosa. Piscine poggiate sul prato. Lacerti cementizi. Transenne edilizie abbandonate. Senza alcun senso.
Ne risulta un paesaggio pazzesco, se lo si guarda davvero. Perché spesso lo sguardo cancella il non finito, l’orribile, il cattivo gusto, il cervello non li registra. Questo libro obbliga a guardare, invece. Un esempio? Le palme. Un tempo Leonardo Sciascia l’aveva segnata sullo stivale, la capacità delle palme da datteri di attecchire sempre più a nord, metafora della capacità invasiva della mafia. Ma qui, nella macroregione, le palme di sono davvero, e da per tutto. Invece della fragile palma da datteri mediorientale, la più robusta Trachycarpus fortunei, origine asiatica e foglie a ventaglio. E’ da per tutto, basta farci caso: nell’aiola del comune e nel giardino privato, davanti alla sede aziendale o al centro della rotonda. A volte addirittura sfacciatamente finta, di plastica rossa, o luminosa. Un’ossessione, l’emblema vero e vuoto della Padania.
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I new jersey di plastica bianca e rossa pascolano ai bordi della strada, si mettono in fila per incanalare le auto, si riproducono lungo le rotonde ovvero attendono la prossima transumanza. Vivono in comunità variabili, si spostano a gruppi e instaurano rapporti caratterizzati da un certo grado di fedeltà.
Un telo forato arancione sibila al vento e divide il mondo tra il di qua e il di là, dove c’è il cantiere: spesso i due territori sono intercambiabili, il manufatto è fluido e la sua costruzione supera le sue stesse barriere.
Il telo è aggrappato a una rete metallica zincata e spicca nel paesaggio della Macroregione contrastando il grigio di una giornata senza ombre o esaltando il sole nelle sue vittorie sulla piana.
“La Macroregione senza cantieri non sarebbe Macro.”
Talvolta si fa sostituire da un lenzuolo verde artificiale che garantisce la discrezione e censura la pornografia dei lavori in corso. Oltre c’è un’impalcatura, uno scavo, un’asfaltatura ai piedi di cavalletti bianchi e rossi, nastri omocromi spezzati da un passante, coni di plastica arancione, il simbolo del casco da indossare e una pila di forati che si specchiano in una pozzanghera. Deviazioni obbligatorie su fondo giallo.
La Macroregione senza cantieri non sarebbe Macro. Raccordi autostradali, innalzamenti di tramezze, tubi delle fognature da sostituire, villette e palazzi a puntellare il paesaggio: è stata calcolata un’occupazione del suolo pari a otto metri quadrati al secondo dagli anni Cinquanta a oggi, è come se nel tempo di uno starnuto sorgesse una nuova stanza grande come una toilette davanti a occhi increduli per un simile sfoggio di potenza. Sbam! Tra gli innumerevoli primati che detengono, la Macroregione Centrale e la Macroregione Orientale si qualificano ai vertici della scala della cementificazione continua. Il cantiere è segno di vitalità, secondo il vecchio adagio “quando la cazzuola fischia l’economia canta” e con lei intonano un Magnificat i coristi impegnati nei trasferimenti di denaro dal chiuso dei fondi bancari o dei doppifondi aziendali, tra ghiaie, sabbie e argille da escavare o nuovi calcestruzzi al ripieno di tondo d’acciaio da tumulare, circondati da sudari bituminosi che pietosamente celano quel che resta della Piana fin verso le pendici montuose.
“Quando la cazzuola fischia l’economia canta”
L’epica del cantiere risuona più potente di qualsiasi allarme venga lanciato contro il Consumo di Suolo, espressione amata e odiata dalle frange ambientaliste, che però non basta ad abbracciare una realtà divorata dai manufatti. Consumo di Suolo: la pur nobile ripetizione di un concetto che dovrebbe spaventare è marginalizzata dal più potente Fastidio per il Vuoto, quella sensazione che segna l’impossibilità di lasciare una qualsiasi striscia di terreno così com’è, nella convinzione che sia un elemento disponibile all’infinito e dunque da utilizzare, che si tratti del barbecue in mattoni da piantumare nel giardino di casa o del nuovo viadotto presso l’area artigianale. Tutto è cantiere nella Macroregione che deve all’edilizia un ventesimo della propria ricchezza e che prova a superare le fiacchezze della crisi con flebo di interventi pubblici, ove possibile, e con defibrillatori in sapienti mani private.
L’espressione più recente e massima del Fastidio per il Vuoto ha portato nella Macroregione Centrale la grandiosa spianata tra Milano e Rho di Expo 2015, l’Esposizione Universale dedicata al macro tema Nutrire il pianeta, energia per la vita e che coerentemente ha scelto come propria sede terreni un tempo agricoli per centodieci ettari, a cui vanno ad aggiungersi altri mille e seicento ettari di suolo occupato per le strade connesse a Expo, dalla BreBeMi alla Pedemontana alla Tangenziale est esterna milanese. In maniera significativa, il cibo evocato come nucleo centrale della fiera semestrale formato maxi perde le proprie radici in quanto, notoriamente, dove si costruisce è impossibile qualsiasi coltivazione. La luce non filtra, l’acqua si blocca, la terra non sfama, la linfa si prosciuga: lo spazio se ne è andato. Per una di quelle ironie del destino, il nutrimento di cui si parla sembra manifestarsi in realtà nelle inchieste giudiziarie che, susseguendosi una dopo l’altra, hanno scandagliato fenomeni di corruzione nella gestione degli appalti. Expo è il Cantiere Definitivo, anche se non sarà l’ultimo, nella Macroregione votata all’accumulo.
La provincia della Macroregione col maggior numero di cantieri è Brescia con 2715 dichiarati nel 2014, seguita da Milano con 2550
Per meglio chiarire il concetto, anche dopo l’inaugurazione avvenuta il primo maggio, sono rimasti in giro operai, ruspe, trapani, dato che i ritardi nei lavori non hanno consentito di completare per tempo tutte le opere.
Cumuli di cibo e cumuli di terra: Mangialand e Cantieristan uniti nel sogno divenuto Macro.
La caratteristica del Fastidio per il Vuoto, oltre alla pervasività delle sue manifestazioni, è l’irreparabilità. Questo lo si nota nei luoghi in cui il tempo e il cambiamento delle condizioni economiche hanno trasformato edifici da indici di sviluppo a bandiere di declino.
Non esiste riconversione nemmeno per le aree occupate da Expo, per il momento lontane dagli appetiti di nuovi immobiliaristi, poste di fronte a un orizzonte incerto una volta che l’autunno avrà desertificato questi spazi smisurati.
Il cui simbolo, alto più di trentacinque metri, è una pianta artificiale chiamata Albero della Vita: una struttura in legno e acciaio che non produce frutti, pensata come elemento di nascita e rigenerazione, ma in definitiva segno dell’indomabile bisogno di fare per il fare, di erigere per il gusto della conquista, bandiera fine a se stessa la cui collocazione, alla fine di Expo, è ancora da decidere.
I monumenti, nella Macroregione, non mettono radici: mirano all’eterno, ma prosperano per il tempo di un cantiere.
Dal 1950 ad oggi la cementificazione è cresciuta del 166%, a fronte di un aumento della popolazione del 28%. (ISTAT)