di Fausto Anderlini – 20 settembre 2018
Dice bene Nadia Urbinati: le anime del Pd sono inconciliabili e tanto varrebbe procedessero a un divorzio consensuale. Come nella separazione fra i cechi e gli slovacchi. Persino Scalfari se ne è reso conto dopo avere evocato ogni santa domenica un padre Salvatore. Non essendo ipotizzabile una romantica conciliazione nello spirito dell’amore degli inizi come accade in quello spassoso film interpretato da Riccardo Pazzaglia e Simona Marchini. Ma la cosa non è così semplice. Forse del tutto improbabile. Per perseguire il loro scopo le diverse fazioni hanno bisogno di usare il Pd come ambito di gestione del conflitto, anche a costo che il recipiente evapori del tutto. Per questo si sentono proclami apocalittici come quello di Orfini, il quale però si guarda bene dal dimettersi dal ruolo, prendere i suoi stracci e andare a costruire quel che gli garba.
Per lanciare il suo partito Renzi ha bisogno in questa fase di usare il Pd come spazio belligerante giocando di sponda sui suoi nemici. Paralizzandone nel contempo l’azione in una sorta di limbo definito da un doppio potere cristallizzato. “Non vi libererete di me” ha ripetuto peregrinando nei desolati spiazzi delle feste settembrine aizzando i seguaci più infervorati che mai. Non è neppure da escludere che alla fine sia lui stesso a candidarsi su mandato di sè stesso. Zingaretti, di contro, risponde col taglio basso e convenzionale, facendosi concavo dove Renzi è convesso. In ciò che resta della base del partito l’afflato unitario ancora sopravvive. Ogni volta che uno richiama il partito come ‘comunità’ e il superamento delle ‘correnti’ (cioè la valle dell’Eden, invocazione, date le circostanze, decisamente comico-irenica) sono applausi a scena aperta. Sicchè qualche scampolo di retorica unitarista sembra poter ancora servire a chi lo voglia blandire.
I quadri dirigenti intermedi e periferici, il ceto amministrante e di rappresentanza inoltre sono necessariamente irretiti negli intrecci dai quali dipendono i loro incarichi, cioè la loro stessa esistenza. Una ragionevole separazione li metterebbe col sedere a bagno. Una eutanasia a rilascio differito, sperando in qualche miracolo indolore, sembra fare naturalmente al loro caso, Ciò considerato a me pare che le eventualità che in linea di ipotesi si possono immaginare sono due, entrambe convergenti in un unico esito – la fine del Pd – ma con modalità antitetiche.
Una ipotesi è il proseguo della situazione attuale dei ‘separati in casa’ fino all’esaurimento. Cioè allo sgretolamento della casa medesima per naturale consunzione coabitativa. Un destino che Martina, col suo corpo emaciato e la sua mesta espressione, sembra incarnare anche morfologicamente. L’altra è quella della combustione del conflitto in una primaria da resa dei conti, Un combattimento finale. Una grand guignol. Uno show down che ratifichi la separazione una volta per tutte nella lotta per l’investitura al ruolo di commissario fallimentare. L’ultima primaria. Scena-madre per la quale Zingaretti dovrebbe prepararsi rettificando un poco il suo aplomb. Adottando cioè la stessa tattica di Renzi. Ovvero usare la battaglia nel Pd morente come base di lancio di una nuova formazione di sinistra. Portando, almeno, vista la sua propensione zuccherosa, “anti-depressivi, cocaina, marjuana”. Perchè da queste parti lo stato d’animo è quel che è e col doping può anche capitare di ragionare meglio che con candidi lavaggi con la saponetta. Vien da pensare che questa sia forse non solo la miglior fine, ma anche, ove si originassero nuovi inizi, la miglior soluzione per la democrazia italiana. Anche se non è improbabile che del centro-sinistra rimanga solo il trattino.