Arrogance, per il premier che non deve chiedere mai

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Anna Lombroso
Fonte: il simplicissimus

Anna Lombroso per il Simplicissimus – 16 agosto 2014

Erano meglio i tempi nei quali si mettevano le mutande alle statue o si dipingevano teli pudibondi e casti e falpalà a coprire le vergogne o i nostri nei quali i musei sono ridotti a ambientazione per spot di intimo e le opere d’arte diventano elementi d’arredo in scenografie pubblicitarie, così che la vergogna della trascuratezza diventa oggetto di esibizionismo?

L’instancabile Tomaso Montanari ci racconta l’ultima in ordine di tempo, ambientata non certo per caso a Firenze, che grazie al suo ex sindaco è stata il laboratorio dove praticare quella ideologia della “valorizzazione” secondo la quale i beni culturali sono giacimenti dai quali tirar su quattrini, visto che non si riesce proprio a infilarli tra due fette di pane.  E dove, in questo spirito – l’alcol c’entra e pare abbia ubriacato anche coloro che sulla dignità e tutela dell’arte dovrebbero vigilare –  la  Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze ha presentato  “Giardini del Granduca. Una nuova eau de toilette”. E infatti, inebriata dal profumo – dei quattrini della sponsorizzazione ?-  proprio la soprintendente   ha dichiarato che «attraverso questo profumo, composto sapientemente con note ispirate alla coltivata natura dei giardini storici di Firenze e Toscana, si entra in contatto diretto con la memoria della dinastia dei Medici».

Ormai è una tradizione consolidata: far sfilare modelle in slip e push up tra i gessi del Canova, organizzare cene nei templi della Magna Grecia (sempre de magna’ si tratta), sfilate di moda agli Uffizi, noleggio di Ponte Vecchio per convention prestigiose. A quelli che storcono il naso, ma gli snobboni sono pochi,  a Firenze perfino Italia Nostra si mostra comprensiva, si risponde che per mantenere il nostro patrimonio pubblico serve quello dei privati. E si cede in comodato il Colosseo al calzolaio, si propone una soluzione analoga per il Teatro di Marcello, si cercano sponsor, pardon si chiamano mecenati proprio come ai tempi dei Medici, ma con in più il profumo, si accoglie con entusiasmo l’ipotesi di affidare la “gestione” dell’Appia Antica alla Società Autostrade, che con candore sfrontato si presenta come aspirante ideale per “contribuire a un nuovo modello di gestione dell’Appia Antica affidato a un’unica cabina di regia”, mettendo a disposizione  “le proprie tecnologie autostradali (sic), realizzando attività di comunicazione e marketing”, insieme a laboratori, anche doviziosi  punti di ristoro.

Eh si in fondo l’Appia è una strada e quindi è giusto e profittevole affidarla a chi se ne intende e ha le mani in pasta. Il progetto di Autostrade è piaciuto al Ministro Franceschini, autore di una riforma delle soprintendenze che ha come unica qualità quella di non piacere al premier, che l’ha fatta slittare a dopo l’estate. Si sa a Renzi i professoroni non piacciono, i sapientoni gli fanno venire l’orticaria, i tecnici gli vanno bene solo se gli danno ragione o gli aggiustano il rubinetto. Così fin dall’inizio dell’incarico ha manifestato la sua idiosincrasia  per quegli “organi monocratici”, le soprintendenze appunto, per quei grigi e scialbi funzionari capaci solo di esprimere parere di veto. E che sarebbe certamente più moderno e proficuo replicare la felice esperienza avviata da Berlusconi tramite il suo Ministro Urbani, ma poi ripetuta dal governo Monti, collocando nel Ministero navigati manager, la cui  capacità d’iniziativa e  imprenditoriale è stata magari testata in McDonald, in previsione dell’auspicata privatizzazione del nostro patrimonio. Come in u n grande supermercato, il marketing e la desiderabile campagna di svendite sono stati affidati da anni a organizzazioni che lavorano in regime di monopolio, Civita (dietro ci sono Abete e Letta, zio ovviamente, e l’onnipresente Paolucci, quello che ha rivendicato di essere il più prestigioso “movimentatore” di opere d’arte, che ha spedito in giro per il mondo in barba alla sicurezza quadri e statue e codici e tra un po’ probabilmente una guglia del Duomo per far piacere al norcino di Renzi, Farinetti, oggi “tutore” dei Musei Vaticani), case editrici in cataloghi densi di fuffa e di “sgarberie”, catene di merchandising pronte a mettere nella boule di vetro che ci cade la neve anche la memoria dell’arte come bene comune, diventata merce da luna park.­­­­

Quando era sindaco, quando decise che era necessario dar lustro al suo granducato con un Leonardo nuovo di zecca, quando proclamò che gli Uffizi dovevano essere una macchina per far soldi, quando sembrò pronto perfino al linoleum per pavimentare Piazza della Signoria a fini ­­­­­elettorali, mentre sotto avrebbe fatto passare il tunnel, Renzi volle dare l’incipit esemplare. Adesso si augura che in tutta Italia si segua la via tracciata dalla Soprintendenza fiorentina, presidio instancabile della commercializzazione del patrimonio artistico e culturale. Anche per favorire quel processo indispensabile di  “semplificazione”, contenuto forte dello Sblocca Italia: finalmente  impoverita di risorse e uomini la rete territoriale incaricata di vigilanza e controlli su tutela dei beni culturali e paesaggistici, le soprintendenze, si può orgogliosamente dare il via a una rivoluzione fatta di deroghe, licenze, snellimenti, silenzi assensi, sanzioni ragionevoli e sanatorie. E infatti si dice che la proposta di Franceschini, non certo particolarmente ardimentosa, manchi di quello che Berlusconi aveva promesso e il premier è determinato a realizzare, la delega ai Comuni per aggirare eventuali divieti di costruzione formulati dalle soprintendenze, scavalcandole attraverso un’autorità superiore chiamata a decidere con la riconferma del primato del silenzio assenso, qualora il parere non arrivi nei tempi ridottissimi imposti dalla lotta alla burocrazia, fiore all’occhiello del governo.

Non sappiamo che profumi arrivi da Firenze, dei Medici o di Renzi, ma d’altra parte pecunia non olet.

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