Fonte: Giustizia Insieme
Come è noto, con le principali modifiche previste dalla legge di revisione costituzionale n. 249/2019 (se confermata con il prossimo referendum), il numero dei deputati passerebbe da 630 (dodici dei quali eletti nella circoscrizione Estero) a quattrocento (otto dei quali eletti nella circoscrizione Estero) e quello dei senatori da 315 (sei dei quali eletti nella circoscrizione Estero) a duecento (quattro dei quali eletti nella circoscrizione Estero). Nessuna Regione o Provincia autonoma potrà avere un numero di senatori inferiori a tre, ma il Molise ne avrà due e la Valle d’Aosta uno. I senatori a vita in carica, nominati dal Presidente della Repubblica, non potranno in alcun caso essere più di cinque.
Ai sensi dell’art. 138 co. II della Costituzione, non vi sarà bisogno di alcun quorum e basterà la maggioranza dei voti validi espressi nel referendum popolare indetto dal Capo dello Stato per promulgare la suddetta legge di revisione costituzionale dal titolo “Modifiche agli artt. 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”.
Tanto premesso, vorrei subito precisare le ragioni del mio personale impegno a favore del “NO” nel prossimo referendum del 20 e 21 settembre per confermare o meno le citate modifiche costituzionali.
Il mio impegno non è in alcun modo connotato da adesione o vicinanza a partiti politici, né da scelte di contrastarne specificamente alcuno: sarebbe inutile e peraltro contrario al mio modo di intendere il rapporto tra cittadini e politica. E’ invece un impegno contro qualsiasi proposta o atto legislativo che rischi di snaturare la nostra splendida Costituzione, il cuore della democrazia.
Infatti – ed è il caso di ricordarlo – con la modifica di tre articoli, si stravolgerebbe l’intero assetto della Costituzione ed il ruolo del Parlamento.
A conferma di ciò, voglio anche ricordare che analoghe posizioni pubbliche hanno caratterizzato il mio impegno nei referendum del 2006 e del 2016, rispettivamente contro le pessime e pericolose riforme proposte e sostenute dal Governo Berlusconi (il cui leader era giunto ad auspicare, tra l’altro, un Parlamento in cui potessero intervenire in Aula solo i capigruppo dei partiti) e dal Governo Renzi (che sostanzialmente ipotizzava una maggioranza dominante sulle Camere), cioè da schieramenti politici opposti, quasi che per tutti il male dell’Italia sia un eccesso di democrazia e la mancanza di un “Parlamento che ratifichi il più rapidamente possibile decisioni già assunte altrove[1]”.
Non è un caso, del resto, che alcuni leaders protagonisti di tali “riforme” e di quella ora in discussione abbiano pronunciato o pronuncino identici slogans pubblicitari: significative, a tal proposito le due pagine (nn. 22 e 23) che il settimanale L’Espresso del 30 agosto scorso ha pubblicato con il titolo “Matteo e Gigì gemelli del Sì”: vi figurano – simmetricamente raffigurate – sei slogans che, nella sostanza e spesso nel lessico, rappresentano frasi di Renzi e Di Maio assolutamente uguali quanto alle ragioni di sostegno alle riforme del 2016 e del 2020.
E’ utile partire dalle parole che Piero Calamandrei pronunciò durante discorso nel salone degli Affreschi della Società Umanitaria di Milano, il 26 gennaio 1955, in occasione dell’inaugurazione di un ciclo di sette conferenze sulla Costituzione italiana, organizzato da un gruppo di studenti universitari e medi per illustrare, in modo accessibile a tutti, i principi morali e giuridici che stanno a fondamento della nostra democrazia: “… la Costituzione – disse Calamandrei – non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità.
Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo politico … ”La politica è una brutta cosa”, “che me ne importa della politica”: …”La politica non è una piacevole cosa”. Ma invece, proseguiva il discorso (ndr),…dare il voto, questo portare la propria opinione per contribuire a creare l’ opinione della comunità, questo essere padroni di noi, del proprio paese, del nostro paese, della nostra patria, della nostra terra, disporre noi delle nostre sorti, delle sorti del nostro paese….questa è una delle gioie della vita… rendersi conto che ognuno di noi nel mondo non è solo, che siamo in più, che siamo parte di un tutto, nei limiti dell’Italia e nel mondo.
Quanto sangue e quanto dolore per arrivare a questa Costituzione!
Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione.”
Spero che questa citazione non appaia retorica a qualche lettore: in realtà vuole solo ricordare che, sostenendo il “NO” referendario, non si vuole affatto difendere questo Parlamento, ma l’Istituzione-cuore di ogni democrazia, di cui va tutelata la centralità contro i rischi di un suo indebolimento.
Va anche detto che il testo di legge che gli italiani dovranno approvare o bocciare non è in realtà una vera riforma. Massimo Cacciari ne ha spiegato le ragioni ricordando che “una riforma è un disegno organico, che riporta equilibrio nel bilanciamento dei poteri e armonizza i principi che regolano il funzionamento del gioco democratico. Qui non c’è niente di tutto questo. C’è il taglio puro e semplice di 230 deputati e 115 senatori. Un’auto-amputazione del Parlamento”.
A dire il vero, anche il Sen. Danilo Toninelli (M5S), nel corso di un confronto con lo scrivente (Brescia, 30.8.2020) ha ammesso, modificando posizioni del suo partito e smentendo le parole del Ministro Di Maio, che non di riforma si tratta ma di un intervento mirato. E nel corso dello stesso confronto ha dovuto fare marcia indietro sul tanto decantato risparmio dei costi delle attività istituzionali che pure, fino a pochi giorni prima, era stato il cavallo di battaglia del suo partito a sostegno del “SI”. L’argomento del risparmio dei costi per il bilancio dello Stato si è sgretolato dopo che l’Osservatorio dei conti pubblici lo ha quantificato nello 0,007 per cento annuo. Significativo, anche in questo caso, un salto nel passato: circola sul web un filmato del 2016 in cui, sostenendo il “NO” nel referendum allora in programma, Toninelli attaccava la riforma renziana dicendo (tra i minuti 6^ e 7^ del filmato di facile reperimento sul web) che i risparmi di cui Renzi allora parlava sarebbero stati del tutto irrisori, corrispondenti al massimo all’importo di un caffè all’anno per ogni cittadino italiano, esattamente – cioè – quello che hanno detto l’economista Cottarelli (che presiede il citato Osservatorio e che ha definito “stupida” la pseudo riforma), Romano Prodi e vari accademici esperti. E persino il prof. Onida, pur se sostenitore del “SI’ ”, ha parlato di un argomento falso ed inutile, qualificandolo “motivazione fasulla[2]”. E Luciano Canfora, dal canto suo, superando Cottarelli, ha qualificato la legge in questione “la più stupida delle riforme” chiedendo perché mai – se si fosse voluto intervenire seriamente sui costi – non si sia previsto anche un taglio degli stipendi dei parlamentari e dei consiglieri regionali etc.[3]. Il tutto va ricordato pur senza tacere sul fatto che, comunque, i costi delle Istituzioni non si possono certo valutare secondo logiche aziendali: la regola del maggior profitto e del minor costo possibili è un ovvio criterio di valutazione delle attività aziendali, ma le Istituzioni sono un’altra cosa!
Messi da parte, quindi, la definizione di “riforma” del devastante taglio dei parlamentari ed escluso il fondamento del presunto taglio delle spese che esso determinerebbe (argomento non a caso non più utilizzato a sostegno del SI’), esaminiamo ora i residui argomenti che giustificherebbero il provvedimento legislativo in questione, caratterizzato da un evidente e inaccettabile antiparlamentarismo, cioè:
– l’allineamento del numero dei nostri parlamentari, ritenuto oggi debordante, con quello degli Stati europei caratterizzati da dimensioni e popolazioni sostanzialmente analoghe alle nostre;
– il miglior funzionamento e la maggior efficienza che contraddistinguerebbero un Parlamento con più di un terzo (complessivamente) di componenti in meno.
Il primo argomento è smentito in radice non solo da accademici esperti, da studiosi e dai “Comitati per il No”, ma innanzitutto e prima di tutto dalle relazioni degli Uffici Studi della Camera dei Deputati e del Senato, con allegati prospetti, che qualcuno – spero in buona fede – ha trascurato, dimenticato, omesso di leggere o letto da ignorante e facendo confusione.
Intanto, come ha scritto il prof. Francesco Pallante di Torino, le comparazioni numeriche andrebbero fatte tra sistemi il più possibile omogenei e, in ogni caso, tenendo conto delle peculiarità di ogni sistema. La principale peculiarità del nostro sistema è il bicameralismo paritario, da cui deriva che il Senato ha compiti ampi tanto quelli della Camera. E’ dunque normale che il Senato italiano abbia una composizione numerica più elevata rispetto all’equivalente ramo del parlamento di ordinamenti in cui non vige il bicameralismo paritario ed in cui il Senato ha compiti più circoscritti: in Germania, ad es., il ridottissimo numero dei senatori si spiega con la natura federale di quello Stato ove i membri del Senato (Bundesrat) sono, di fatto, i territori che compongono la federazione (Bund): i Lander. Ogni Land ha una delegazione di 3-6 membri (in rapporto alla popolazione), che vota compatta, con un solo membro che esprime tutti i voti a disposizione del Land. E negli Stati Uniti, con cui pure si evoca il confronto, la Costituzione delinea un sistema federale in cui gli organi della Federazione (tra cui il Congresso, composto da Camera e Senato) hanno compiti più circoscritti rispetto ai nostri organi statali: molti dei poteri che in Italia sono esercitati dallo Stato centrale, negli Stati Uniti sono esercitati dagli Stati federati, corrispondenti alle nostre Regioni. Per questo 49 Stati federati su 50 (fa eccezione il Nebraska) hanno un proprio Parlamento composto da Camera e Senato, mentre nelle nostre Regioni l’organo corrispondente (il Consiglio Regionale) è monocamerale. Sicchè: se sommiamo i parlamentari della Federazione statunitense ai parlamentari degli Stati federati (535 parlamentari federali + 7.383 parlamentari statali = 7.918), otteniamo un numero di molto superiore alla somma dei parlamentari e dei consiglieri regionali italiani (945 parlamentari nazionali + 5 senatori a vita + 884 consiglieri regionali = 1.834).
In ogni caso, tornando all’Europa e prendendo in considerazione il numero dei parlamentari di tutti i Paesi dell’Unione Europea (dati del 2018), si giunge a conclusioni analoghe: attualmente l’Italia non ha affatto un numero eccessivo di parlamentari ed anzi, classificando gli Stati dell’Unione Europea per numero di parlamentari (deputati e, ove presenti, senatori) ogni 100.000 abitanti, il nostro Paese si colloca al 23^ posto su 27 Stati, dunque tra quelli che hanno il numero di parlamentari più basso. Ma, se passasse la riforma, l’Italia scenderebbe ulteriormente nella classifica, diventando di fatto (cioè considerando la ricordata anomalia del Senato tedesco) il Paese di tutta l’Unione Europea con meno parlamentari rispetto alla dimensione della popolazione, con conseguente ed evidente vulnus al valore ed al senso della rappresentanza dei cittadini, su cui comunque si tornerà appresso.
E veniamo all’altro argomento – sostanzialmente l’ultimo – a sostegno del “SI’”, quello del miglior funzionamento e della maggior efficienza che il Parlamento acquisirebbe con il taglio dei suoi componenti .
Si tratta di un’altra sorprendente affermazione, priva di concretezza e solidità, e mi meraviglia che persone di elevato livello, come il prof. Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, possano farla propria.
Innanzitutto bisogna chiarire a cosa ci si vuol riferire con tale argomento? Al fatto che un Parlamento con oltre un terzo di componenti in meno produrrebbe più leggi? O che le produrrebbe più velocemente? O che le leggi sarebbero meglio scritte ?
Perché mai con meno parlamentari Camera e Senato funzionerebbero meglio? In realtà, il problema da affrontare non è quello della quantità dei parlamentari, ma della loro qualità! Una qualità che finisce con l’essere soffocata o sacrificata dalla concezione partito-centrica che i leader politici perseguono e che li porta a candidare e, grazie ad una legge elettorale che penalizza la libertà di scelta dell’elettore, a far eleggere spesso i più fedeli e non i migliori. Ecco che il Parlamento, che come organo centrale della democrazia dovrebbe guidare e controllare l’Esecutivo, si trasforma in un organismo notarile che certifica ed approva ciò che il Governo decide.
Di qui traggono origine le innegabili criticità del Parlamento e le pessime prassi governative ormai invalse consistenti in abuso dei decreti legge e dell’urgenza che ne consente l’emanazione e nell’abuso dei voti di fiducia che ha portato spesso il Parlamento ad approvare testi di legge scritti o modificati (magari durante la notte precedente il voto) senza che nessuno – tranne il Governo – li conoscesse. E come tacere sulla approvazione in sede governativa di testi di legge “salvo intese”, una formula francamente sorprendente che purtroppo sembra non scandalizzare ormai nessuno.
Queste ed altre criticità dilagano, ma non è per questo concepibile un taglio dei parlamentari dal sapore punitivo: se il Parlamento non funziona, va rafforzato, non indebolito riducendone la quantità dei componenti ed ancor più estendendone la sudditanza a leaders politici che sarebbero ancor più potenti. Insomma non si deve tagliare il numero dei parlamentari perché qualcuno di loro non fa il proprio dovere: generalizzare le colpe fa sempre male ed i parlamentari non possono essere tutti definiti moralmente indegni.
Perché mai, con il maxi-taglio in questione le leggi dovrebbero essere migliori ed i deputati e senatori più qualificati? La loro drastica riduzione, per come è stata concepita fuori da un più ampio disegno di riforme, rappresenta solo la strada, come ha più volte scritto il prof. Alfiero Grandi, per l’attuazione di una visione governo-centrica e presidenzialista della nostra democrazia (quella che auspica pieni poteri per un uomo solo al comando) e per l’incremento dell’oligarchia dei partiti, peraltro penalizzando quelli minori che, con meno parlamentari da eleggere, sarebbero meno rappresentati nella Camera e nel Senato. Tutto ciò darebbe luogo ad una svilimento del potere legislativo, quello che caratterizzava anche le precedenti riforme berlusconiana e renziana, fortunatamente bocciate con i rispettivi referendum e finite su binari morti..
E’ bene passare, a questo punto, dopo il disvelamento della pubblicità ingannevole che è alla base delle affermazioni dei sostenitori del “ SI’ ”ad esaminare altre ragioni a sostegno del “NO”.
Tra tutte, come in qualche modo già si è anticipato, primeggia la necessità di difesa forte del principio della rappresentanza dei cittadini che gli eletti incarnano e devono attuare. Sono i cittadini che eleggono i parlamentari ed è questo che, in democrazia, legittima l’alta funzione degli eletti.
Si è già spiegato che, con le previste riduzioni del numero dei parlamentari, l’Italia passerebbe all’ultimo posto tra i Paesi dell’Unione Europei quanto al rapporto tra numero di eletti ed abitanti rappresentati.
Limitandosi invece ad una analisi della situazione nazionale ed utilizzando un’approfondita analisi del magistrato Domenico Gallo[4], va segnalato che attualmente il rapporto tra abitanti e parlamentari è di un seggio di Deputato ogni 96.000 abitanti e di un seggio di Senatore ogni 192.000 abitanti, Con la riforma in vigore avremmo un Deputato ogni 151.000 abitanti ed un Senatore ogni 303.000 abitanti.
Gli inconvenienti della riforma si concentrano soprattutto sul Senato dove la distribuzione dei seggi in proporzione alla popolazione deve fare i conti col principio che l’elezione dei senatori avviene su base regionale.
Nel testo vigente della Costituzione, nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a 7, tranne la Valle d’Aosta (1) ed il Molise (2). Con la riforma si stabilisce che nessuna Regione o Provincia autonoma può avere un numero di Senatori inferiori a tre.
La conseguenza sarà che l’Umbria e la Basilicata passano da 7 a 3 senatori, subendo una riduzione della rappresentanza del 57,1%.
Abbiamo visto che per eleggere un Senatore occorrono in media 303.000 abitanti per collegio, ma il voto non è uguale per tutti. Grazie al privilegio concesso al Trentino Alto Adige (che subisce una riduzione della rappresentanza solo del 14,3%), il voto di un calabrese o di un sardo vale la metà del voto di un abitante del Trentino-Alto Adige.
Infatti la Calabria con una popolazione di quasi due milioni di abitanti (1.959.050), elegge 6 senatori, quanti ne elegge il Trentino con una popolazione di circa un milione di abitanti (1.029.475). Per essere più precisi in Calabria occorrono 326.508 voti (in Sardegna 327.872) per eleggere un Senatore, mentre in Trentino ne bastano 171.579.
A questa situazione bisogna aggiungere gli effetti distorsivi che derivano dalla legge elettorale vigente (approvata proprio in vista della riforma costituzionale) che ha fissato in 3/8 il rapporto fra i collegi uninominali ed i seggi da eleggere nei collegi plurinominali.
Per effetto di questa legge i collegi uninominali al Senato passano da 116 a 74. Di conseguenza i nuovi collegi uninominali avranno una dimensione amplissima. Per ogni seggio la popolazione media sarà di circa 800.000 abitanti. Con delle significative differenze, in Friuli Venezia Giulia, l’unico collegio elettorale contiene una popolazione di 1.220.291 persone. In Abruzzo il collegio elettorale è formato da 1.307.309 abitanti. In Calabria, essendovi 404 Comuni, ognuno due collegi uninominali dovrà comprendere circa 200 comuni.
E’ spesso trascurata, infine, la diminuzione di un terzo netto che il taglio determinerebbe quanto al numero dei parlamentari eletti all’estero: 8 deputati, invece dei 12 attuali, e 4 senatori, invece degli attuali 6. La già limitata rappresentanza di milioni di nostri cittadini residenti all’estero, pertanto, andrebbe a peggiorare nonostante il considerevole aumento dei flussi migratori degli italiani !
I numeri nello loro incontrastabile oggettività smascherano dunque la grande menzogna del taglio dei privilegi della casta, quando, al contrario, l’oggetto di questa drastica riduzione è il diritto dei cittadini italiani ad essere rappresentati e a far giungere la loro voce in Parlamento: le Regioni (tranne la Valle d’Aosta) perderanno – rispetto ai numeri attuali – un’alta percentuale dei loro rappresentanti in Senato e nella Camera: una differenza che va dal 20% del Molise al 46,15 per cento della Basilicata, con una media del 34,52%.
Una riduzione che determinerà campagne elettorali più onerose per i candidati, sia dal punto di vista organizzativo che economico, con conseguente vantaggio dei partiti e candidati con maggiori risorse[5].
Trovo grave, peraltro, che, al fine di contestare questa elementare osservazione, si affermi che ormai non conti più il territorio nel rapporto tra rappresentanti e rappresentati, in ragione delle nuove modalità di comunicazione che consentono ai secondi di rimanere comunque in contatto con i primi. In realtà, a parere di chi scrive, proprio le tanto decantate nuove tecniche di contatto e discussione (social e piattaforme di ogni tipo) hanno determinato un peggioramento dell’informazione e della discussione su temi di rilevanza politica e sociale. Basti qui ricordare l’affermazione di Davide Casaleggio, presidente di Rousseau, non criticato o smentito dai leaders del suo partito, secondo cui il Parlamento prima o poi diventerà inutile, sarà il web ad esprimere la vera democrazia rappresentativa. Sono anche questi mutamenti sociali nel rapporto tra cittadini e loro rappresentanti, dunque, che richiedono il rafforzamento del Parlamento: altrimenti perché non ridurre i numeri delle due Camere a 100 deputati e 50 senatori?
“Allontanando sempre di più i rappresentanti dai cittadini e dal territorio, si accrescerà, anziché diminuire, il senso di sfiducia nei confronti del Parlamento e della democrazia costituzionale, favorendo la deriva verso una democrazia illiberale sul modello dell’Ungheria o della Polonia[6]”.
Non è neppure accettabile quanto viene affermato da molti sostenitori del “SI’” secondo cui le modifiche costituzionali in questione determineranno quanto meno l’approvazione o le modifiche di varie leggi, così valorizzando il taglio dei parlamentari.
Tra le leggi da modificare, grazie alla vittoria del SI’, vi è quella elettorale. Il P.D., anzi, che in Parlamento aveva votato tre volte contro le modifiche costituzionali cambiando sorprendentemente indirizzo – e votando a favore – la quarta volta, ha tentato di rendere presentabile il mutamento delle proprie posizioni giustificandolo con una sorta di immediato contrappeso: la promessa del Movimento 5 Stelle di un impegno, appunto, per l’approvazione di una nuova legge elettorale.
Ora, non vi è dubbio che occorra in Italia una nuova legge elettorale che restituisca ai cittadini il diritto pieno di espressione delle proprie preferenze con contestuale soppressione delle liste bloccate (secondo lo scrivente, sarebbe opportuna una legge con sistema proporzionale senza un’alta soglia di sbarramento), ma questa riforma determinerebbe “la ulteriore dilatazione del potere delle segreterie e soprattutto dei singoli leader nella selezione degli stessi parlamentari”[7]. In ogni caso, il mutamento della Costituzione, specie se relativo alla composizione dell’organo centrale delle democrazie, non può essere equiparato ad uno dei tanti punti di accordo politico che figurano nelle liste programmatiche dei partiti quando si “alleano” per dar vita ad una maggioranza di Governo o per superare le frequenti reciproche litigiosità.
A maggior ragione non può esserlo se si tratta di una vaga promessa di disponibilità, non a caso sin qui non mantenuta al pari di altri importanti impegni, come quello di attuare un serio e deciso mutamento di inaccettabili norme in materia di disciplina dell’immigrazione incluse nei decreti sicurezza del 2018 e del 2019 ed ispirate alla politica dei “porti chiusi” e della criminalizzazione del soccorso in mare.
Vale la pena di citare un’affermazione del presidente emerito della Consulta Giovanni M. Flick che, sostenendo il “NO” referendario, ha criticato le giustificazioni del P.D. citando, a proposito delle non mantenute promesse di scambio alla pari tra il sostegno alla riforma costituzionale e quello alla nuova legge elettorale, un detto frutto della saggezza araba: “vedere denaro per vedere cammello”. E’ come – ha poi detto sempre Flick, questa volta all’italiana – se si fosse attaccato il carro davanti ai buoi.
Insomma promesse e prospettive di riforme che restano non realizzate e che appaiono ancor meno credibili se solo si considerino gli atteggiamenti dei principali partiti che, salvo il M5S, non prendono posizione netta e chiara sul quesito referendario e, M5S incluso, si dividono al loro interno. Stupisce anche – va detto – il silenzio (tattico o strategico?) del Presidente del Consiglio del Ministri Giuseppe Conte su una questione che pure appare centrale per il suo Governo.
Sono vari altri i rischi che si determinerebbero in caso di vittoria del “SI”, tra cui quelli derivanti dal maggior potere che la coalizione di maggioranza pro tempore acquisirebbe in un Parlamento numericamente così ridotto.
A solo titolo di esempio:
– quello della tentazione delle maggioranze di turno di scegliersi il “loro” presidente della Repubblica quando invece la Costituzione vuole che chi è presidente lo sia di tutti. Senza contare che il peso relativo dei delegati regionali nel Parlamento in seduta comune sarà più forte, alterando il delicato equilibrio voluto dai Costituenti[8];
– l’identico rischio per l’elezione dei membri del CSM e dei giudici della Corte Costituzionale, in spregio delle scelte bilanciate che oggi tengono conto di tutte le culture istituzionali presenti nel Paese[9];
– il rischio di ridotta o mancata rappresentanza dei partiti minori (o di impossibilità di farne parte) in Uffici di presidenza e nelle molte giunte e commissioni parlamentari, previsti dai regolamenti di Camera e Senato[10], con connesse maggiori difficoltà nell’attività parlamentare: in particolare, le Commissioni sono il vero cuore dell’attività parlamentare sicchè si comprende “l’importanza della partecipazione dei parlamentari ai loro lavori e la scelta dei partiti di inviare in ciascuna Commissione i loro eletti maggiormente competenti in ciascuna materia: ma la riduzione del numero dei parlamentari complicherebbe il funzionamento di questo meccanismo[11]”;
– una realtà possibile, in caso di maggioranza politicamente orientata in tal senso, diventerebbero le Regioni ad autonomia differenziata, tali da snaturare l’assetto costituzionale del nostro Paese.
A fronte di questi ed altri rilievi, che possono essere approfonditi negli appelli a sostegno del NO sottoscritti da centinaia di eminenti costituzionalisti (di fronte ai quali alcuni pur autorevoli accademici di opposta opinione costituiscono una sparuta minoranza), viene fatta circolare una sorta di fosca previsione, dal carattere esclusivamente politico: se vincesse il “NO” cadrebbe il Governo in carica, con ogni immaginabile negativa conseguenza!
Orbene, questa possibilità (concreta o presunta che sia) non deve interessare gli elettori, al pari della finalità di “attacco” (con il NO o con il SI’) nei confronti di qualsiasi partito. Anzi, non è qui accettabile neppure la neutralità, che non è mai nobile in contesti così rilevanti: la difesa dei principi costituzionali, attraverso il sostegno al NO, è lontana dalle logiche di partito che tendono al comando dall’alto ed alla selezione dei fedelissimi da mandare in Parlamento, lontana dal populismo (rappresentato con la scenografia da circo dei tagli in piazza a poltrone di carta), lontana dall’antipolitica e dall’uso del termine “casta” per definire tutti i parlamentari, quasi che fossero tutti moralmente indegni.
Bisogna invece credere alla politica alta, a quella che è capace di interpretare i bisogni dei cittadini e di rappresentarli in un Parlamento a sua volta in grado di controllare e guidare l’Esecutivo senza essere mero strumento di ratifica delle sue scelte.
Vanno rifiutati, dunque, la pubblicità ingannevole e gli slogan su cui essa si fonda: la maggiore efficienza del Parlamento non si ottiene con la minore quantità, ma con la maggiore qualità dei suoi componenti. E tocca ai cittadini farsene carico, senza deleghe in bianco, ma cercando di sapere e capire.
A tal fine le riforme sono sempre possibili[12], ma soprattutto quelle della Costituzione devono essere precedute da approfondite e serie analisi della situazione generale del nostro Paese e del suo sistema democratico.
Il nostro impegno è quello di difendere il futuro (come ha detto il prof. Massimo Villone), anche diffondendo in questa occasione una corretta informazione sui contenuti e sulle possibili conseguenze del referendum del 20 e 21 settembre.
[1] Espressione efficace tratta da un testo del prof. Francesco Pallante, a sostegno delle ragioni del “NO”.
[2] Intervista a Giovanna Casadio pubblicata su La Repubblica.
[3] Intervista a Liana Milella pubblicata su La Repubblica, l’1.9.2020.
[4] “I numeri del referendum”, articolo del 4.09.2020.
[5] Da un testo del prof. Francesco Pallante, a sostegno delle ragioni del “NO”.
[6] Domenico Gallo: I numeri del referendum, 4.09.2020.
[7] Lara Trucco; Tre ragioni per il NO (Giustizia Insieme, 8 settembre 2020.
[8] Massimo Luciani, prof. di diritto costituzionale alla Sapienza di Roma (Corriere della Sera, 27.8.2020.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Da un testo del Prof. Francesco Pallante, a sostegno delle ragioni del “NO”.
[12] In un suo testo a sostegno delle ragioni del “NO”, il prof. Francesco Pallante cita, ad es., rendere inemendabili da parte del Governo i decreti-legge; vietare i maxi-emendamenti governativi; circoscrivere l’utilizzabilità della questione di fiducia; aumentare le maggioranze di garanzia, vale a dire quelle necessarie per l’approvazione dei regolamenti delle Camere (attualmente basta la maggioranza assoluta), per la nomina del Presidente della Repubblica (attualmente basta la maggioranza assoluta dalla quarta votazione), per la revisione della Costituzione (attualmente basta la maggioranza assoluta per la seconda deliberazione); approvare una legge proporzionale senza alcuna soglia di sbarramento e con recupero dei resti a livello nazionale.