Fonte: Strisciarossa
Le “piazze”, e le piazze “piene”, hanno fatto finalmente irruzione nel dibattito politico italiano: quella del Pd, l’11 novembre, e quella sindacale, che il 17 novembre ha visto una prima giornata di scioperi promossi dalla Cgil e dalla Uil, che proseguiranno nelle prossime settimane. Il segnale che arriva da questi eventi è chiaro: la partita che si sta giocando non è chiusa tra le quattro mura di un asfittico gioco politico, ma sta cominciando a vedere un protagonismo diffuso nella società, una mobilitazione popolare che è essenziale, se si vuole intaccare il consenso di cui sembra godere la destra al governo.
Il valore delle “piazze piene” è politico, ma anche simbolico: denota una maggiore consapevolezza, e anche una maggiore fiducia nella forza dell’azione collettiva. Rompe il clima di ovattata “quiete” sociale, che il governo vorrebbe imporre, intorno alle sue scelte e alla condizione disastrosa del paese. Rafforza l’opposizione e può facilitare la costruzione delle condizioni politiche di un’alternativa. Spinge verso una maggiore unità delle opposizioni.
La presenza a Roma insieme al Pd, di Conte e delle altre forze di sinistra, nonché quella di un vasto arcipelago associativo, ha mostrato plasticamente, forse per la prima volta, i contorni di uno schieramento in grado di porsi come alternativa di governo: elemento tanto più importante in quanto ci si avvicina ad alcune scadenze elettorali, quella delle Europee, ma anche molte elezioni regionali e comunali. Cominciare a rendere credibile e visibile questo schieramento è un fattore che può pesare, soprattutto può frenare quella fetta di astensionismo di sinistra che viene alimentato dalle divisioni, dalla sfiducia e dalla delusione.
Il valore delle piazze

Le “piazze” introducono così una variabile importante, in ciò che sembrava delinearsi come uno scontato processo di avvicinamento alle elezioni europee. Mentre Giorgia Meloni è già entrata in campagna elettorale, e punta ad una veloce approvazione, in prima lettura, della sua riforma costituzionale, per poterla sventolare come un trofeo agli occhi degli elettori, la narrazione dominante propinataci fin qui puntava tutto sulla “rivalità” tra Pd e M5S e, soprattutto, è stata rivolta a vaticinare sfracelli per Elly Schlein: un risultato inferiore alle attese avrebbe riaperto “i giochi” in cui il Pd sembra eccellere, e che ha prodotto nel corso degli anni segretari instabili e caduchi, con continui riassestamenti dei precari equilibri correntizi.
Sarebbe ricominciato, insomma, il “tiro al segretario”, portando infine a mettere “sotto tutela” una segretaria un po’ avventata. Non sappiamo se, dentro il partito, qualcuno stesse facendo davvero questi calcoli, piuttosto irresponsabili. Il successo della manifestazione del Pd a Roma li rende comunque altamente irrealistici. il Pd non può permettersi più di ripetere i vecchi copioni post-elettorali, significherebbe l’implosione del partito. Il successo della manifestazione di Roma, peraltro, mostra come la nuova segretaria sia largamente in sintonia con una base di militanti che sta trovando nuove motivazioni. Ignorare questo dato sarebbe molto rischioso, per tutti.
Ma non basta
Partecipazione e mobilitazione sono un tonificante, un buon viatico per la campagna elettorale. Ma non sono sufficienti. Vi sono due elementi da considerare: occorre un approccio corretto alle prossime elezioni europee e, soprattutto, valutare ciò che serve al Pd dopo questa scadenza, per costruire una credibile alternativa. Sul primo punto, il Pd deve stare attento a non alimentare aspettative eccessive. E qui si pone il problema di come misurare i risultati delle Europee. È opportuno ricordare alcuni dati: nel 2019 il Pd ottenne il 22,7%, poco più di sei milioni di voti, con una percentuale complessiva di votanti al 56%. In quel Pd c’erano ancora dentro Renzi, e anche Calenda, che fu anzi solennemente candidato come il front runner emergente.
Nel 2022, il Pd ottenne poi il 19%, con 5 milioni e 350 mila voti (la partecipazione al voto fu del 63,9%). Le elezioni europee, dovrebbe essere noto oramai, non sono un termometro affidabile, sia per il maggiore astensionismo che per l’approccio più “leggero” e volatile di molti elettori: Renzi e Salvini ne sanno qualcosa. E dunque, sarebbe improprio caricare di attese il voto del 9 giugno 2024. Del resto, anche l’andamento dei sondaggi consiglia prudenza: dopo la depressione acuta registrata nei mesi post-elezioni, la nuova segreteria ha riportato il Pd intorno al 19-20% (con il duo Renzi-Calenda, ora diviso, ora insieme intorno al 5-6%), ma negli ultimi tempi il dato ha ristagnato.
Verso le Europee
Certamente, ha pesato la campagna mediatica orchestrata intorno alla figura della nuova segretaria; ma occorre ricordare un elemento di fondo: il potenziale di espansione elettorale del Pd, a breve termine, non è molto ampio. Ci sono margini di crescita, specie recuperando dall’astensionismo; ma è difficile sperare in una sostanziale crescita, rispetto a quello che sembra, al momento, bensì una base solida di consenso, ma pur sempre gravitante intorno al 20%. E a tutti coloro che sono pronti a impartire lezioni, occorre chiedere: ma vi rendete conto della profondità della frattura che il Pd ha vissuto (e non da ora: negli ultimi dieci anni!) con grandi pezzi dell’elettorato popolare? Pensate che bastino pochi mesi per recuperare un distacco maturato e consolidatosi nel tempo?
La narrazione mediatica sul ruolo salvifico dei leader produce molti abbagli: i movimenti profondi degli elettori sono più lenti di quanto comunemente si racconta. E il vero e proprio esodo di oltre sei milioni di elettori che ha colpito il Pd, dal 2013 al 2022, è uno di quei fenomeni di massa che ben difficilmente si può sperare di rimarginare in poco tempo. Milioni di elettori che, talvolta, hanno votato per altri, ma sempre più spesso si sono rifugiati nell’astensione.
Una visione sul futuro dell’Italia
La nuova segretaria sta ricostruendo un’immagine del partito, ma riconquistare una credibilità perduta è un lavoro molto arduo. Ed è un lavoro appena iniziato. Elly Schlein, in questi mesi, ha cercato di ridefinire il profilo del partito attraverso un’insistente campagna su alcuni temi, e su questo terreno, come mostra il successo della manifestazione di Roma, sta ottenendo dei primi risultati, riaggregando un tessuto diffuso di militanti che è una risorsa preziosa per il partito. Ma dopo le elezioni europee si dovrà aprire necessariamente una nuova fase: il profilo del partito non può nascere da una sommatoria di campagne su singoli spezzoni di programma.
Occorre definire, e saper proporre poi, una visione complessiva per il futuro dell’Italia. E’ solo questa visione che può provare a ricomporre una coalizione sociale, prima ancora che politica, che possa tenere insieme e parlare ad una società italiana attraversata da mille divisioni, da interessi particolaristici, da difese corporative: e che, anche nelle sue parti più deboli e subalterne, stenta a vedere un progetto che ridia speranza e futuro.
E qui si toccano alcuni tasti tuttora dolenti. Nel Pd continuano a mancare luoghi e strumenti (e poi i prodotti) di un’elaborazione politica e intellettuale che abbia un respiro adeguato alle esigenze del momento storico (a proposito, cosa pensa di fare la Fondazione di cultura politica affidata a Zingaretti? Si pensa di nominare un direttore e un comitato scientifico? Per ora non se ne è saputo nulla).
Questo bisogno di un adeguato retroterra di elaborazione politica e culturale si nota in molti ambiti della politica del Pd. E spesso si continuano a mettere tra parentesi, o sotto il tappeto, le evidenti diversità di approcci culturali che convivono malamente, specie all’interno dei gruppi dirigenti. E così, in molti casi, i discorsi rimangono inevitabilmente generici.
La riforma costituzionale e la legge elettorale
Si prenda la questione della riforma costituzionale: il Pd ha reagito con posizioni condivisibili e ragionevoli (difesa della democrazia parlamentare, sfiducia costruttiva, ecc.), ma sulla questione della legge elettorale la segretaria ha potuto esprimere finora solo una posizione, corretta in sé, ma aperta a troppe interpretazioni contrastanti: “vogliamo garantire il potere di scelta degli elettori sugli eletti”, senza aggiungere nulla sui modi con cui ciò può avvenire. Ciò accade per i “limiti” della segretaria, la sua inesperienza, o quant’altro le si può addebitare? No, di certo: accade perché dentro il partito convivono posizioni molto diverse, da coloro che sono ancora affezionati alla “cultura del maggioritario”, a coloro che si sono convinti che un ritorno al proporzionale non sarebbe proprio una sciagura (anzi!).
Ma non c’è una sede in cui tale questione sia stata affrontata e, tanto meno, ad esempio, un documento programmatico sulle politiche istituzionali, aperto alla discussione più ampia, dentro e fuori il partito. Chi e come decide “la linea” su questo tema? Non si può “scaricare” tutto sulla segretaria, mettendola di fronte ad una scomoda alternativa: o si limita ad esprimere posizioni su cui nessuno può obiettare alcunchè (ma accade solo su singoli pezzi di programma); o “forza” le cose, con ciò esponendosi all’accusa di “leso pluralismo”. Così non può reggere.
Il partito ripensi al suo funzionamento e ai suoi obiettivi
Ovviamente, il problema riguarda molti campi: si pensi solo alle questioni di politica internazionale. Mesi fa un sondaggio di Ilvo Diamanti diceva che l’attuale elettorato del Pd è diviso sulla questione dell’invio di armi in Ucraina: 60 (favorevoli) a 40 (contrari). E’ possibile provare a tenere insieme queste diverse posizioni, se non si elabora una visione “organica” della proposta del partito in materia di politica internazionale e della collocazione del partito? E quanto pesano le incertezze in questo campo, nel frenare lo stesso potenziale di espansione dei consensi elettorali?
Non può essere una ristretta mediazione di vertice a sciogliere questi nodi. E’ tutta la “macchina” del partito che deve essere “resettata”. Anche per questo sarà importante la conferenza di organizzazione che è stata annunciata e che, a questo punto, slitta evidentemente dopo le fatidiche elezioni europee. Ma dovrà essere una conferenza in cui tutto il partito sia chiamato davvero a ripensare tutto il suo modo di discutere e di decidere, il suo funzionamento, gli strumenti e i luoghi della partecipazione.
Elly Schlein, comprensibilmente, punta oggi a “scollinare” nel modo migliore la scadenza delle elezioni europee (e di quelle regionali e locali). Ma, quale che sia l’esito di questo voto, i problemi rimarranno lì, e non potranno essere rimossi.