Nel cortile del Ministero della Difesa, con gli onori militari in una cerimonia di cui l’ormai ex cancelliera ha scelto personalmente i brani suonati dalla banda militare – una canzone di Hidegard Knef, “Für mich soll’s rote Rosen regnen”, “Dovrebbero piovere rose rosse per me”, poi un inno cristiano del XVIII secolo, infine “Du hast Den Farbfilm vergessen” “Hai dimenticato di prendere il rullino a colori”, canzone del 1974 della cantante punk Nina Hagen, che fu interpretata come una satira del grigiore del regime della ex DDR – si chiude ufficialmente l’era Merkel.
Dopo 16 anni la Cancelliera lascia e la Germania avrà una leadership socialdemocratica, a capo di una coalizione semaforo, cioè composta da SPD (rosso), FDP (giallo) e Grünen (verdi).
Siamo dunque ai titoli di coda dell’era Merkel. A me non stava né antipatica né simpatica, però per la prima volta nella storia – credo – abbiamo visto all’opera una leadership femminile declinata su categorie femminili.
A differenza dei furori ideologici della Thatcher, o al mito guerriero di Golda Meir, l’era Merkel mi sembra infatti sia stata connotata da qualcosa di molto, e orgogliosamente, diverso dall’imitazione femminile degli stereotipi maschili.
È diventata Cancelliera quando i tedeschi dovevano ancora smaltire emotivamente l’unificazione e la perdita del marco. Non credo lo si ricordi sufficientemente, ma il prezzo che pagò Helmut Kohl a Mitterrand fu esattamente questo: unificazione tedesca in cambio della valuta unica europea. Per i tedeschi della paciosa Bundesrepublik di Bonn un doppio choc. La Merkel si prese cura di queste paure sulla perdita della sovranità monetaria e la fine della Germania renana, lei nata nella ex DDR, e s’inventò i famigerati “compiti a casa”, destinati alle nazioni mediterranee e ai rispettivi bilanci.
L’ennesima puntata della “protesta” tedesca verso il mondo latino, corrotto e simoniaco, poco attento allo spirito? Può darsi.
Di fatto gli anni del “rigore” europeo significarono la fine del socialismo mediterraneo, fondato sulla spesa pubblica e una certa allegria di bilancio, e lo strangolamento di intere economie, fino al collasso della Grecia. Oggi, mentre la Merkel torna a casa, non ci sono più partiti storici e gloriosi come il Pasok, mentre il socialismo francese è esploso in mille pezzi – una amara nemesi storica per gli eredi e successori di Mitterrand – al loro posto nell’Europa mediterranea hanno imperversato movimenti populisti, spesso antitedeschi, quasi sempre antieuropeisti, a volte di destra, altre di sinistra.
D’altro canto, bisogna pure ricordare che di fronte ad altre paure, stavolta di una recessione continentale dovuta all’epidemia Covid, è stata ancora Merkel che ha avallato il famoso Piano europeo di resistenza e resilienza, un piano Marshall che ha mandato in soffitta tutti i teoremi rigoristi praticati nei decenni precedenti, un intervento pubblico nell’economia che non si vedeva dal dopoguerra, che ha fatto storcere più di un naso a nord del Brennero, e non solo.
Analoga la condotta merkeliana sull’altro tema caldo di questi anni: l’immigrazione. Ha fatto il giro del mondo quel programma televisivo in cui Angela fece piangere in diretta una bambina palestinese, che parlava un tedesco fluentissimo e dunque si era sottoposta a tutti programmi di integrazione per gli immigrati, comunicandole che avrebbe comunque dovuto lasciare il paese. Poi però correndo ad asciugare le sue lacrime. Oggi quella bambina, ormai adolescente, vive ad Amburgo.
Analogamente, quella fu l’epoca in cui Merkel mise in prima fila i tedeschi nell’accoglienza dei profughi dalla Siria – oltre un milione di persone tutte in una volta secondo le stime, nessun paese europeo ha fatto altrettanto – “ce la faremo”, disse, e salvo il prevedibile prezzo da pagare a una crescita impetuosa di un partitello neofascista soprattutto nell’ex DDR, la Germania ce l’ha fatta. E questo molti in Italia lo dimenticano.
D’altro canto, è innanzitutto la Germania della Merkel che paga alla Turchia di Erdogan quei vergognosi campi profughi, che funzionano da inaccettabile dissuasore, con i quali l’Europa si difende dall’immigrazione.
Un’eredità complessa. Come definire tutto ciò?
Io direi: Pragmatismo emotivo.
Non a caso in Germania il suo soprannome è stato “Mutti”, mamma. La Merkel ha saputo prendersi cura e governare le angosce del suo paese prima, del continente, poi, con molta duttilità e in modo post-ideologico. Anzi, anti-ideologico.
Lei, figlia di un pastore protestante, leader di un partito di matrice cattolica – anche questa, volendo, una contraddizione – con una giovinezza vissuta nella ex DDR, in certi interventi durante la pandemia ha mostrato quali poi fossero le sue opinioni sulle ricostruzioni ideologiche della vita, ora quelle negazioniste e no-vax, una volta quelle del marxismo-leninismo.
“Da ragazza scelsi la scienza per questo. I numeri non sono smentibili”.
Centrismo come pragmatismo antiideologico, politica come governo delle emozioni, a partire dalle proprie. Se richiamo alle radici dell’Europa, innanzitutto quelle dell’Illuminismo, tedesco ma non solo.
Una leadership materna, dunque, ben rappresentata dagli innumerevoli completini asessuati, con le innumerevoli variazioni solo cromatiche dell’accoppiata giacca-casacca e pantaloni, che hanno rinverdito i fasti sulla leggendaria trasandatezza delle donne tedesche, ma pure una leadership molto declinata al femminile, che a qualcuno ha anche dato l’orticaria.
Non ho mai amato Angela Merkel, che ha raggiunto il suo maestro Kohl e persino Otto von Bismarck nel record di durata come cancelliere, segnando questa nostra epoca; ma oggi, ecco, se l’isola di Ischia le conferisse la Cittadinanza onoraria, mi farebbe piacere.