Autore originale del testo: Fausto Anderlini
Forrest Gump
Questa proposta di Malagò di accelerare le pratiche per l’attribuzione della nazionalità agli sportivi è degna di un negriero. Finge di pendere per un processo di integrazione secondo lo jus soli, ma è piuttosto l’intento di un ‘ratto degli atleti’. Dando espressione a un occidente tardivo incapace di dar corpo a una vera ‘cittadinanza imperiale’. Quale si riscontra pienamente nelle nazioni impero, come Usa, Gb e Francia, o più in piccolo in Olanda.
Da un punto di vista strettamente sportivo è vero che la disponibilità di riserve etniche marginali mette a disposizione atleti capaci di migliorare le performances competitive. Ma che il principio non sia necessariamente valido lo dimostrano i casi di Cina e Giappone che fanno incetta di medaglie pure in presenza di compagini rigorosamente mono-etniche (si tratta, in effetti, di imperi commerciali ad alta densità demografica che dispongono di proprie riserve interne illimitate di manodopera.
Semmai quel che conta è la dotazione di risorse investite nella pratica sportiva e lo sviluppo di procedimenti scientifici nel trattamento degli atleti (robot in carne e ossa). Sicchè le vere variabili che contano sono il Pil (cioè l’estensione del plusprodotto sociale) e/o il ruolo dello Stato e delle agenzie che organizzano la pratica sportiva (la scuola, cruciale negli stati uniti, la rete delle società sportive variamente gestite, privatamente o statalmente).
Soprattutto negli sport minori incapaci di accedere al businness sportivo, l’Italia ha adottato un modello che era tipico e generalizzato nei paesi socialisti. Agli atleti più promettenti viene offerta una copertura dagli apparati istituzionali (polizia, carabinieri, esercito, guardia di finanza……) così da trarli dal dilettantismo offrendo loro la possibilità di dedicarsi in via esclusiva all’attività sportiva.
Il fascino delle olimpiadi sta nel carattere globale dell’evento, nel pathos competitivo con cui è vissuto dagli stati nazionali e conseguentemente dal carattere pervasivo della copertura mediatica. Molte discipline sono alla stregua di ‘giochi’ e c’è da dubitare del loro contenuto sportivo, dalla via che manca il requisito agonistico fondamentale dello scontro fisico e di forme di abilità capaci di comprendere tanto l’elemento atletico che quello tecnico-creativo. Tantissime di queste hanno un contenuto spettacolare così scarso che non hanno pubblico e solo grazie alle olimpiadi sono redente dall’incognito in cui vivono. Talvolta con un effetto clamoroso di contrappasso. La gara regina, i cento metri, si concentra in dieci secondi e tocca un’acme straordinario solo una volta ogni quattro anni, Ciò che rende sublime una corsa, elevandola a ‘gesto’ narrabile fra i più elevati, è il contesto, non la corsa in sè. Mentre gli sport ‘veri’ sono sempre interessanti e spettacolari per chi li vede anche a bassi livelli.
La comunità globale degli atleti olimpici è composta di individui bizzarri e border line, capaci di sacrificare ogni altro aspetto della vita per immergersi in oscure discipline che non interessano nessun altro al di fuori della ristretta cerchia dei praticanti. Fatiche inenarrabili finalizzate a entrare nell’albo olimpico e portare a casa una medaglia. Sebbene è vero che il piacere che lo sport riserva al praticante è quello tipico di ogni ascesi, anche in assenza di un apprezzabile autocompiacimento estetico-artistico : superamento del limite, autocontrollo, dominio di sè, indifferenza, atarassia.
A parte la forza di reclutamento e disciplinamento dell’organizzazione bio-sportiva, decisiva è l’esistenza di giovani che vedono nello sport, specie nelle discipline neglette, la possibilità per emergere dall’anonimato sociale. Venire da località periferiche e marginali dove i giovani hanno ben poche prospettive e spesso vegetano nella mediocrità senza talento costituisce un impulso ben più forte che i bicipiti che la natura ha fornito a certe razze. In effetti la quasi totalità dei campioni per i quali il paese va giustamente fiero a consuntivo delle Olimpiadi proviene da questi contesti minori, decisamente extra-metropolitani, e comunque sempre marginali.
Per queste stesse località avere un campione olimpico fra i propri nativi ò l’occasione per guadagnare una rinomanza clamorosa, uscendo dal nulla. Il momento in cui lo strapaese, con le sue ignote cerchie familiari e amicali, entra, almeno per un attimo, nel circuito globale. Un’estasi collettiva, un orgasmo comunitario.
Nel caso nostrano, ad esempio, il contributo olimpico di una regione come la Puglia è decisamente superiore a quello di una regione come l’Emilia dove le dotazioni infrastrutturali sono di altissimo livello e la pratica sportiva si avvale di un tessuto associativo a tutto azimut.
Con le olimpiadi i media ci hanno fatto conoscere vita e miracoli degli atleti medagliati, ma anche i contesti di vita, le mamme, gli zii, i cugini, gli amici….con un cortocircuito sbalorditivo ed incredibilmente eccitante fra Tokio e lo stra-paese. Canicattì e Scaricalasino come sedi esotiche dove sono accasati gli Dei dell’Olimpo. Alcuni bellissimi, altri bizzarri, altri ancora vere potenze comiche. Come Massimo Stano, nativo di Grumo Appula, nei pressi di Bari, che ha rivelato il segreto della sua potenza vittoriosa: ingannare la mente con sollecitazioni iperboliche senza fondamento. La volontà di grandeur che restituisce una grandezza reale allo scarto. Come in un film di Checco Zalone o come nel votantonio di Toto. Un mito crozziano in marcia. Finchè l’Italia avrà in soprannumero individui e mondi sommersi di tal fatta le sue fortune olimpiche sono garantite. Senza avere il bisogno più di tanto di attingere neo-patrioti dello sport dall’Africa e dalle Americhe. L’eroe fatto in casa vale doppio.