di Alfredo Morganti – 24 ottobre 2017
I detrattori dell’intervista concessa da Roberto Speranza a ‘Repubblica’ hanno usato spesso la parola ‘tatticismo’, alcuni altri anche la parola ‘politicismo’. Non me ne meraviglio più, anche se all’inizio ne rimanevo stupito. Che la sinistra usi questi termini è brutto segno. Sbaglio anch’io quando lo faccio. Pur supponendo che l’intervista fosse solo ‘tattica’ (ma non era così, perché pronunciare pezzi di programma quali limiti insuperabili di un ipotetico confronto è ben più che una ‘tattica’), da quand’è che la sinistra (e i comunisti in special modo!) aborrono la tattica, o peggio la politica? No, non esagero. E dico anche perché. C’è sempre una valutazione negativa dietro l’utilizzazione di parole con l’ –ismo. Pensate a ‘ideologismo’, a ‘parlamentarismo’. Vi risiede un giudizio che ripiega all’indietro, verso il nucleo semantico originario. Nella fattispecie costituito, appunto, dalle parole ‘tattica’ e ‘politica’. Lo si nota anche dall’alternativa che viene sempre proposta al ‘tatticismo’ e al ‘politicismo’, ossia il dialogo con i soggetti sociali, la stesura di un programma ‘di sinistra’, alternativo in primo luogo alla storia recente della sinistra politica stessa, di una ‘lista unitaria’, di un ascolto in diretta del ‘popolo’ e dei suoi bisogni, a cui dare una risposta di contenuti e di una iniziativa antiliberista di taglio sociale.
Tutto giusto per carità. Ma questo è solo un corno del dilemma. Ed è come se tutto ciò bastasse di per sé, e surrogasse tutto il resto, ossia non poco: il fare politica, le mosse e contromosse quotidiane, la presenza in scena e sui media, il protagonismo ai vertici istituzionali, la battaglia parlamentare, il sistema e i sottosistemi politici, la dialettica tra le classi dirigenti, le sfide delle leadership, la manovra politica anche rozza, il rapporto con l’opinione pubblica che non è la stessa cosa dell’organismo sociale, il corpo a corpo istituzionale, lo scontro con la destra, la ‘caccia’ all’elettorato, i conflitti interni ed esterni ai partiti e ai movimenti, l’occupazione delle casematte culturali, la tenuta dei fronti destro e sinistra, e così via. Se Speranza, quindi, va in scena, sfida Renzi, gli dà l’altolà e smaschera la sua finta apertura a sinistra è ‘tatticismo’. Se si lavora sulla ‘manovra’ politica, invece, si ‘perde tempo’ o peggio si fa politicismo. Conta solo il rapporto col sociale, insomma, come se, peraltro, il sociale attendesse bonariamente di essere ascoltato e plasmato docilmente e ‘linearmente’ da noi. Dalla sinistra. Io credo, invece, che non ci sia nulla di più refrattario del sociale. Ci sono più ‘singolarità’ e buchi neri lì che all’interno del fronte politico. Ridurre la manovra politica e tutto il resto a ‘forma’ (anzi a ‘formalismo’), a roba spiccia, a cucina quotidiana, a supposto ‘politicismo’, e impegnare tutte le risorse soltanto sui ‘contenuti’, su programmi il più possibile identitari e coerenti, e sull’ascolto delle figure sociali, mi pare quindi riduttivo, persino insufficiente alla bisogna. La politica non è dentro di noi, non è una via interiore al ‘popolo’. Non è una cosa che si critica e si dilapida nell’ascolto sociale. Ma è anche una lotta continua (!), un corpo a corpo quotidiano con l’avversario. A cui non si può sfuggire. Anche se si trattasse solo ‘tatticismo’. Perché l’avversario ti provoca, vorrebbe buttarti in un angolo, dice falsità nei tuoi confronti, ti rappresenta malissimo verso l’opinione pubblica. Va teatralmente in ‘scena’ anche se tu non ci sei. Da questa morsa non scampi stilando programmi e accordandoti con i tuoi. E alzando steccati verso gli elettorati di confine. Questa sarebbe davvero una brutta illusione.
Ci torno sul ‘sociale’. E sull’idea che il sociale debba essere tramutato in ‘popolo’ (c’è chi ha detto che quello della sinistra sarebbe stato addirittura ‘disorientato’ da Speranza). Sento spesso pronunciare, appunto, la locuzione ‘popolo della sinistra’ (così come ce n’è uno della destra, uno del centro, uno renziano, uno cattolico, uno romanista e uno laziale). Tanti ‘popoli’ a cui ci si appella come terminale dell’azione politica condotta da un ‘partito’ (o dal Capo, in senso più populista). Ecco. Io penso che il sociale, le sue figure portanti, i pezzi e contropezzi di quel magma che noi chiamiamo società siano davvero un magma, e abbiamo una capacità di resistenza, di contrapposizione, di ruvidezza, di porosità tali da imporre alla politica sfide inenarrabili. Altro che ‘popolo’, termine di valore sentimentale, romantico, letterario, estetico dirò di più: ‘comunicativo’, con il quale si tende sostanzialmente a semplificare questa rugosità e refrattarietà. Io credo che il termine ‘popolo’ sia immensamente ‘divisivo’, perché divide in ‘popoli’ distinti quella che appare una base sociale articolata ma sostanzialmente compatta in questa ruvidezza, seppur tagliata da faglie, conflitti e disuguaglianze tremende.
Penso invece che i popoli non esistano in natura, sono al più frutto di una specie di ‘frammentazione’ sentimentale e comunicativa (di un’azione di ‘propaganda’ avremmo detto una volta) che si maschera da ‘ricomposizione’. Ritengo che non si diano ‘popoli’ (tanto più oggi, in questa Europa di banche e di profitti) ma figure sociali, classi, ceti, raggruppamenti, sistemi e sottosistemi di relazione. E che il compito della sinistra sia fare i conti con queste singolarità talvolta irriducibili e tentare la rappresentazione delle proprie figure di riferimento, senza schematizzare o impacchettare esteticamente quella ruvidezza sociale obiettiva. Ma di farlo (in termini verticali) senza pensare che la politica cessi di avere una autonomia, una libertà di azione (in termini orizzontale), che corrisponde in fondo alla ricchezza istituzionale della democrazia rappresentativa (Dio la salvi), alla complessità del sistema dei partiti, all’articolazione delle istituzioni, al fenomeno dell’opinione pubblica, al complesso dei media, al corpo a corpo delle figure di vertice politico. Non si tratta di ‘incatenare’ sentimentalmente un Capo (o un Partito) a un Popolo quale compito unico, ma di aprire questo ventaglio verticale e orizzontale, sulla base anche di reciproche autonomie. Di pensare la politica come una prassi che si muove a tutto campo. Di pensare il sociale nella sua articolazione effettiva. Di immaginare un’intervista, una sfida, una manovra politica per quello che sono davvero. Il pezzo di una strategia larga, complessa e articolata senza la quale non sei nessuno.