Ancora sull’identità e sull’islam

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Franco Cardini
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di Franco Cardini 26 febbraio 2017

Per quanto scriva su giornali e riviste dal 1954 circa – cominciai fondando giornaletti scolastici –, non sono mai stato un sistematico consumatore di carta stampata. I quotidiani, li guardo se e quando càpita, salvo casi sul serio eccezionali. Quanto ai periodici, di uno solo sono attento e scrupoloso lettore: “Diorama letterario”, diretto dall’amico Marco Tarchi. Un fascicoletto periodico dall’aspetto modesto, artigianale, di quelli rigorosamente autofinanziati come si faceva una volta e come lui fa ancora. Invito tutti a consultarlo e ad abbonarsi, a divenirne fedeli sostenitori : è una voce di libertà, sul serio “fuori dal coro” (www.diorama.it; e raccomanderei anche “Trasgressioni”, che per molti versi ne è l’interfaccia)

Gli Amici di “Diorama” mi fanno talvolta l’onore di occuparsi di me: mai – per loro fortuna – con accenti di totale consenso, comunque in generale con (diciamo così) cauta e critica benevolenza. Ne sono lieto e onorato. Nel numero 335, gennaio-febbraio 2017, essi mi chiamano addirittura ben due volte in causa: prima a proposito dell’identità, senza direttamente citarmi, però affrontando un argomento con il quale mi sono a mia voltaspesso misurato  (M. Tarchi, Perché odiano l’identità, pp. 1-2); poi a proposito dell’Islam, direttamente (G. Del Ninno, Cardini e l’Islam, pp. 36-40).

Proverò a rispondere: o meglio, mise à part la politesse, a replicare.

IDENTITA’. UNA “PAROLA” FORTE, UNA “COSA” DEBOLE. UN’OSTINATA E DISPERATA PROPOSTA EUROPEISTICA 

Ritengo di essere un discreto professore di storia, uno che fa di tutto per studiare e per aggiornarsi: non pretendo e non ho mai preteso di essere un buono storico. Ma, pur non essendolo, ho conosciuto e conosco parecchi che sono tali sul serio. E lo testimonio con sicurezza in quanto, pur avendo dato mediocri prove del mio valore in quel campo specifico, so benissimo che cosa significhi fare lo storico e come si debba fare.

La professione storica somiglia molto a quella del medico e a quella del detective. Lo storico procede raccogliendo e interpretando le fonti, quindi considerando gli indizi in modo da poter formulare ipotesi e quindi cercando solide prove sulle quali costruire le sue tesi. Fa lo stesso il medico analizzando i sintomi del paziente e sottoponendolo a un dato numero di analisi per giungere a una corretta diagnosi e avviare adeguate terapie. E il detective, anche lui alle prese con indizi e prove, fa mutatis mutandis la stessa cosa.

Una buona ricerca storica, una buona seduta diagnostico-terapeutica, una buona indagine poliziesca cominciano sempre con un’ampia, approfondita e attenta anamnesi. Si parla di identità: e le varie forme, personali e comunitarie, del “senso di sé”, dell’autoconsapevolezza, ci sono “sempre” state. Doveva avercela anche Lucy (nel senso del celebre primate-femmina, non di Scarlett Johanssohn). Ma il discutere su quel che abbiamo è qualcosa che si comporta come la ben nota nottola di Minerva: è un uccello che si leva al tramonto. La mi’ nonna, la “sór’Augusta”, era una brava contadina delle campagne fiorentine, sapeva appena leggere e quasi nulla scrivere, era fermamente cattolica (perché Dio c’era e basta, ed era Quello, ed era inutile starci su a ragionare), era buona madre di famiglia decorosamente, dignitosamente povera e convinta che bisognasse fare agli altri quello che si voleva fosse fatto a noi e non per convenienza personale, ma perché l’aveva insegnato Gesù. Alla mi’ nonna, le avessero spiegato che cos’era l’identità, avrebbe risposto ch’eran tutte bischerate inutili. Lei non lo sapeva, che cosa fosse l’identità: e non glien’importava nulla. Lei la viveva a basta, semplicemente, dalla mattina alla sera, dal segno di croce all’alba al rosario prima di addormentarsi (spesso con la coroncina intrecciata fra le dita). Il nipote della sór’Augusta, che ha tanto studiato – ”Studia, nini, sennò tu resti ignorante come me…”, ammoniva la nonna –, ora che è invecchiato e sa tante cose e non ha nemmeno uno straccio di certezze, si trova nella stessa situazione del suo collega dottor Faust:

“Habe nun ach! Philosophie

 Juristerei und Medizin

 und leider auch Theologie

 durchaus studiert, mit heißem Bemühn.

 Da steh ich aun, ich armer Tor,

 und bin so klug  als wie zufor!

 Heiße Magister, heiße Doktor gar

 und ziehe schon and die zehen Jahr

 herauf,  herab und quer und krumm

 meine Schüler an die Nase herum –

 und sehe, daß wir nichts wissen können!

 Das will mir schier das Herz verbrennen“.

Con l’identità – a parte quella individuale, l’unica che il “nostro Occidente“ abbia continuamente, maniacalmente coltivato a scapito di qualunque altra forma di essa – ci càpita appunto questo. Finché ce l’avevamo, non se ne parlava. Ora che siamo ricchi e svuotati di tutto (e che per giunta cominciamo anche a impoverire…), davanti alla povera gente che ci arriva dall’Asia e dall’Africa, e che non ha quasi nulla ma uno straccio d’identità magari sì, ci troviamo indifesi e impauriti. Magari vorremmo strappar loro anche quella, in modo da mantenerli poveri sul piano del benessere materiale ma strappar loro anche quell’unica ricchezza che hanno e che invidiamo loro. Ma, disperando di riuscir a farlo, discutiamo animatamente e spesso insensatamente su quale sia la nostra e come mantenerne i brandelli che ce ne restano oppure ricostituirla o magari, perché no, reinventarla. Perché l’Identità è come la Tradizione (ricordate il vecchio Eric Hobsbawm?): la s’inventa o la si reinventa. Almeno sul piano storico: la metastoria – come insegnavano il mio Maestro Attilio Mordini e Nicola Cusano prima di lui – è altra cosa.

L’identità ha cominciato a perseguitarci da una venti-trentina d’anni a questa parte. Vediamo di metter un po’ d’ordine in tre o quattro modeste, banali ideuzze.

La crisi seguita al tragico 11 settembre ha ricondotto alla ribalta le polemiche sul tema dell’identità e, quindi, dell’alterità. Sembra che – paradosso ma non troppo – le tesi di Samuel Hungtington e quelle di Bin Laden, proprio in quanto rappresentano scelte di campo che propongono se stesse come opposte, in realtà si sostengano a vicenda. Siamo davvero dinanzi al rischio di uno scontro di civiltà? In caso affermativo, dovremmo anche sentirci portatori di un’identità tanto forte e decisa da potersi opporre a un’altra, non meno forte e decisa. E’ questo il sentire diffuso del nostro tempo? O non potrebbe forse darsi, al contrario, che le istanze di forte radicamento, spinto sino alla lotta contro civiltà sentite come estranee e opposte, celino un’intima debolezza, la consapevolezza che il processo di globalizzazione ci sta conducendo sempre più verso modelli di omogeneizzazione e di livellamento: al punto tale che quanti vogliono al contrario difendere la loro identità culturale siano costretti a gesti sempre più provocatori, sempre più estremi, che nascondono la consapevolezza di un’intima debolezza? E’ la tesi di Gilles Kepel, studioso di quella deriva politico-ideologica dell’Islam che dovremmo abituarci a definire “islamismo”, abbandonando termini ambigui e imprecisi come “fondamentalismo”.

E’ insomma necessario, ed è naturale, quel senso di appartenenza e di radicamento in un idioma, in un credo religioso, in un territorio, in una tradizione, in un complesso di riti sociali, in una forma di “rappresentazione del mondo”, insomma in tutto quel che intendiamo quando parliamo d’identità? Oppure questo riconoscersi come “noi stessi” è in realtà un residuo o un surrogato di arbitraria opzione ideologica, che ci conduce a individuare l’Altro e a sentirlo come un almeno potenziale avversario.

Credo che al riguardo siano necessarie due ordini di riflessione.

Primo. L’identità non è affatto un valore “naturale” e “spontaneo”: come non lo sono né la nazione, né la religione, né la memoria storica. L’identificarsi in una serie di valori, il costituirsi appunto una mappa identitaria, non ha nulla di deterministicamente precostituito: significa far delle scelte alla luce delle quali costruire una certa rappresentazione di se stessi. In tutto ciò, nulla v’è di riconoscimento passivo d’una realtà obiettivamente esistente: il processo identitario, individuale o comunitario che sia, è eminentemente soggettivo e sottoposto a una forte dinamica storica. L’identità non è una realtà da sempre esistente che vada scoperta, come un continente: è qualcosa che s’inventa nel momento in cui si sente la necessità di definirla e, definendola, la si crea. Si è qualcosa perché si sceglie di esserlo.

Secondo. Le identità sono per loro natura non solo soggette alla dinamica storica, ma anche parziali e quindi imperfette. Grazie a Dio, siamo tutti figli di “razze impure”: tutti bastardi. Esiste un’identità italiana, ad esempio? Saremmo orientati a rispondere di sì, per quanto oggi essa sia moderatamente sentita (ma negli ultimi tempi sembra aver avuto un qualche revival). Eppure, storicamente quest’identità ci riconduce a una stratificazione di popoli immigrati in epoche diverse, disordinatamente incontratisi e acculturatisi, nonché a un carattere storico-politico eminentemente policentrico, oltre che a una eterodinamica  di fondo tra Settentrione e Meridione, fra sponda tirrenica e sponda adriatica.  L’Italia è fatta di regioni e di città, ciascuna caratterizzata da un suo territorio. L’identità italiana comporta la coscienza del sentirsi parte di un’identità europea e di una mediterranea, eppure ciascuna di esse ha caratteri propri. E, se fino ad alcuni anni or sono l’autocoscienza dell’identità italiana poteva comportare quella di un’identità religiosa di tipo cattolico (beninteso con alcune eccezioni: riformate, greco-ortodosse, ebraiche), e si poteva parlar di un sia pur imperfetto coincidere di italicità – un concetto diverso dall’italianità – e di cattolicesimo, oggi evidentemente non è più così. Un italiano che sia anche credente, è più vicino a un altro italiano agnostico o a un non-italiano a sua volta credente? E come la mettiamo con gli italiani musulmani e con quelli buddhisti, due realtà in crescita, la prima costituita in buona parte d’immigrati o di cittadini di “seconda generazione” ma anche da vecchissimi autoctoni convertiti, la seconda quasi esclusivamente da questi ultimi? E che cosa comporta un più forte sentimento identitario, l’origine etnoculturale o la fede religiosa? E come si compongono queste due realtà tra loro?

L’individualismo, così forte nella cultura occidentale moderna della quale è il connotato primario e di fondo,  ci rende difficile il pronunziare la parola “noi”; il processo di globalizzazione, livellando i modi di vivere, di pensare e di produrre, fa divenir problematica l’individuazione dell’ “Altro-da-noi”; ma il risorgere continuo – anche al di dentro di gruppi ristretti – dei rituali tribali di aggregazione ci porta ad aver bisogno, per vincere la nostra insicurezza e la nostra angoscia, dell’Altro  come nemico. Come si esce da questo nodo di contraddizioni?

L’omologazione non appare difesa valida contro l’angoscia e rischia di continuo di far riemergere, per reazione, l’intolleranza. Sembra più ragionevole dunque approfondire il senso e i limiti della (e/o delle) identità di cui ciascuno di noi è portatore e non sottrarsi al confronto con le identità altrui resistendo alle tentazioni sia dell’assimilazione, sia  dello scontro o della reciproca separazione. C’è bisogno di educarsi alla cultura non solo e non tanto dell’accoglienza, quanto  anche e soprattutto a quella del confronto, della differenza, della pluralità, quindi della convivenza ben gestita e sorvegliata.

E’ probabile che una delle cause della confusione che regna ormai sovrana nella politica e nei media sia dovuta, se non proprio alla confusione dei linguaggi di biblica memoria, quanto meno alla confusione del e nel nostro linguaggio usuale. Ad esempio, l’affinità e quasi, come si  potrebbe dire, l’“identità imperfetta” tra i concetti di cultura e di civiltà, ma al tempo stesso  la tensione anche soltanto etimosemantica tra il tedesco Kultur e il francese civilisation (che ha condotto l’inglese ad abbandonare il termine civility per adottare quello civilization), hanno condotto a una serie di equivoci e di ambiguità che sono esplose specie con la Scuola di Francoforte da una parte, lo strutturalismo e quindi il decostruzionismo dall’altro[1].

Propedeutico al nostro discorso è pertanto un chiarimento importante: la denunzia della capziosità e dell’inanità del concetto di “conflitto di culture”, che in effetti si potrebbe propriamente intendere (ed è così  che è stato inteso, proposto e propagandato) come “conflitto di civiltà”.

Una civiltà  si definisce culturalmente e antropologicamente, attraverso  una serie di valori dettati dalle culture dominanti e “ufficiali, “canoniche” che agiscono al suo interno, ma anche attraverso i valori univeralmente o comunque largamente condivisi che riesce a configurare e a far accettare; e che mutano secondo i ritmi complessi della dinamica storica. E’ pertanto evidente che ogni civiltà ha bisogno, per definire la propria identità, di un “Diverso”, di un “Altro-da-Sé”:  e accade che  al suo interno le civiltà “altre” siano quindi immaginate e descritte non per quel che in se stesse sono, bensì per quel che appaiono o che è opportuno far credere che siano. Così ha ad esempio agito Erodoto che, per delineare la sostanza della civiltà ellenica, aveva bisogno di confrontarla e di contrapporla con la “barbarie” dei persiani e degli sciti[2]. E’ evidente che ciò comporta il pericolo della soggettivizzazione di una civiltà che viene con ciò indebitamente giudicata non secondo i valori ad essa intrinseci, bensì secondo quelli di chi dall’esterno la giudica: è quel che noi definiamo ordinariamente “etnocentrismo”.

Tuttavia, un confronto tra civiltà è possibile nella misura in cui esse sono effettivamente differenti tra loro, nei rispettivi caratteri originali come nel loro sviluppo storico. Il punto è che le civiltà tendono all’incontro, al confronto, all’acculturazione, allo scambio reciproco per quanto asimmetrico. E’ quel che soprattutto è accaduto a partire dal XVI secolo, allorché, in un mondo ancora caratterizzato da civiltà “a compartimenti stagni”, totalmente o quasi separate le une dalle altre e reciprocamente sconosciute, l’intraprendenza e lo sviluppo tecnologico degli europei ha provocato – con la navigazione oceanica, la penetrazione economica, militare e religiosa, l’organizzazione coloniale – la caduta delle barriere, l’egenonizzazione del mondo e lo sviluppo di quel ch’è stato definito lo “scambio asimmetrico”[3].

Da allora la civiltà europea – che nel frattempo, nel continente, stava vorticosamente mutando – si è tra Cinque e Novecento vorticosamente affermata e diffusa nel mondo, imponendo gradualmente i suoi valori così come le sue logiche di produzione e di mercato e gestendo anche le tendenze all’assorbimento, all’imitazione e all’emulazione da parte delle altre civiltà. Abbiamo convenuto di definire “Occidente” quest’Europa diffusa su tutto il mondo: e alla luce di ciò abbiamo anche identificato  molte forme di “Altro-da-Noi”: prime fra tutte quelle dell’Oriente; anzi, dei molti “Orienti”, senza il complementare rapporto con e con i quali l’Occidente non avrebbe mai potuto neppur a livello del puro lessico definirsi tale.

Ma il concetto di Occidente è mutato con rapidità. Quello al quale si riferiva ad esempio Oswald Spengler nella sua monumentale monografia, dicendolo giunto “al tramonto”,[4]  lo faceva sostanzialmente coincidere con l’Europa e con quel che egli definiva il suo “spirito faustiano”, volto alla realizzazione, alla conquista, alla volontà di potenza. Ma la ruota della storia girava rapida. La “vecchia” Europa era osservata frattanto, e non sempre con troppa simpatia, dalla “giovane” America: e questi aggettivi, attenzione, non se li è affatto inventati Donald Rumsfeld.[5] E, significativamente all’indomani della prima guerra mondiale, si  coniò un’espressione e si elaborò  un concetto  che poi,  naturalmente perfezionato  dopo la seconda, si è cercato di far passare come antichi e venerabili, mentre sono nuovi e funzionali a un progetto. L’espressione e il concetto di “civiltà occidentale”.

Nel 1919 s’inaugurava nella Columbia University un nuovo corso di studi, denominato appunto Western Civilization. La tesi sottostante a questa definizione  era quella di un coerente processo evolutivo d’una civiltà che dalla Grecia classica attraverso l’Europa rinascimentale sarebbe approdata ruolo contemporaneo  degli Stati Uniti: ultimo anello di una catena concettuale che ingloba sì la storia dell’Europa moderna, ma che si fa al tempo steso erede d’un pensiero statunitense ottocentesco che guardava all’America come alla patria delle libertà e all’Europa come al luogo nel quale sussistevano i vecchi regimi autoritari. Il congresso dell’American Historical Association del 1949, svoltosi in una chiave rigorosamente anticomunista con protagonisti come Conyers Read e George Mosse, suggerì un percorso di sintesi secondo il quale le esigenze di verità e di libertà, àmbito traguardo del genere umano, si sarebbero allora incarnate nella democrazia statunitense, baluardo contro qualunque dogmatismo (quello cattolico compreso) e qualunque dittatura. In questo modo si provvedeva l’esito dei protocolli di Yalta e la realtà di un’Europa divisa in due dal “Sipario di ferro” di un’adeguata legittimazione ideologica. L’Europa, concettualmente, era scomparsa: al suo posto, sul suo territorio, v’erano un “Mondo Libero” e un “Mondo Socialista”, entrambi facenti capo ad altrettante superpotenze egemoniche extraeuropee.

Questo concetto, rapidamente accettato e fatto proprio dagli stessi europei  che mostrarono di non essersi accorti del mutamento radicale di piani che ciò comportava rispetto alla per loro vecchia idea di “Occidente”, venne ripreso nel 1964 da un allor ancor giovane universitario britannico, Bernard Lewis[6], insediatosi negli Stati Uniti nel 1974 e successivamente molto vicino agli ambienti dei repubblicani neoconservative, soprattutto a Paul Wolfowitz. Egli, a proposito della crisi nel Vicino Oriente, sottolineava che non si trattava affatto di una crisi fra stati e popoli, bensì di un vero e proprio clash of civilizations, “scontro di civiltà”. Il Lewis ha ripreso questa espressione e questa tesi con maggior energia negli ultimi anni; ma già in un articolo del  settembre del 1990, comparso  sul “The Atlantic Monthly”, egli parlava di una “muslim rage”.

Passata la  breve stagione delle superficiali illusioni successive alla caduta del Muro di Berlino, quella che aveva suggerito a Francis Fukuyama la bislacca tesi (presa però purtroppo a suo tempo  sul serio) che si stesse “uscendo dalla storia”, il ritorno alla dura realtà e soprattutto le due crisi, quella del Golfo persico e quella balcanica,  suggerirono ad alcuni studiosi l’accoglimento della tesi espressa dal Lewis. Nel 1996 uscì il celebre best seller di Samuel P. Huntington, The clash of civilizations appunto.[7] In esso s’ipotizzava il possibile futuro scontro fra civiltà definite attraverso il loro entroterra religioso-culturale: quindi quella “cristiano-occidentale” versus quelle musulmana e quella taoista-confuciano-buddhista cinese. Seguendo in parte lo stesso metodo, mutando però gli antagonisti, Charles Kupcham ipotizzava invece cinque anni dopo, nel libro The end of American era, un possibile futuro sconto “endo-occidentale” fra USA ed Europa per la supremazia mondiale[8].

Si tratta di tesi storicamente irrilevanti, data l’astrattezza del loro impianto, il carattere rapsodico  e chiaramente selezionato in modo preconcetto e strumentale delle fonti usate per costruirle e al fondo di tutto la grossolana ripresa della “morfologia storica“ spengleriana, del tutto priva del fascino del loro modello. E, per quanto la serietà di studioso in generale dello Huntington non sia qui in discussione, va notato a livello specifico il suo legame con ambienti politici statunitensi rispetto ai quali la sua tesi era funzionale[9].

Non c’è dubbio che le tesi huntingtoniane vengano stimate  utilissime, per datate e desuete che possano essere, da tutti gli (in apparenza) opposti predicatori di  “nuove crociate” e di “jihad contro il satana giudeo-occidentale”. Che ormai la cosiddetta “civiltà occidentale” sia un po’ la koiné diàlektos  di tutto il mondo e che non vi siano all’orizzonte veri e propri progetti ad essa alternativi, è cosa nota a chi conosca appena un po’ di storia e abbia un po’ d’esperienza dei paesi “non-occidentali”. In particolare la nostra Europa e l’Islam, che poggiano entrambi le loro radici profondi sul messaggio religioso dei monoteismi abramitici e sull’eredità culturale ellenistica (ve la immaginate una filosofia scolastica, una medicina, un’astronomia, una matematica, una fisica “moderne” senza l’originario apporto islamico?), sono culture profondamente complementari: le si potrebbero considerare addirittura facies differenti di una cultura unica. E lo dimostrano i musulmani che hanno differenti istituzioni, diverse sensibilità culturali ma obiettivi sociali e morali simili ai nostri; che hanno manifestato tra l’agosto e il settembre del 2004 compatti, in Italia e a Baghdad, per la libertà delle “due Simone”;  e che hanno presumibilmente pesato non poco sul felice esito di quella vicenda sul momento fondamentale e ormai dimenticata in quanto travolta e metabolizzata, come sempre purtroppo accade, dalle vicende successive.

Purtroppo, questa verità obiettiva è inficiata dalla presenza di minoranze ancora molto ristrette e non collegate fra loro, ma tuttavia politicamente, economicamente e massmedialmente potenti, che hanno un convergente interesse ad accreditare la tesi dell’”inevitabile” scontro di civiltà. Così parlano i leaders del terrorismo islamista, che ormai hanno scoperto il loro gioco: colpire, nel mondo occidentale, proprio chi è amico dell’Islam e sensibile alle ragioni e alle cause di alcuni popoli islamici, appunto per provocare reazioni inconsulte e poter dimostrare così che l’Occidente è il nemico feroce che essi vogliono che sia  nel loro criminale disegno. Una trappola elementare, nella quale non si vede come potremmo cadere: se non ci fossero i nipotini occidentali di Bin Laden che, considerandolo nemico ma accreditando in realtà le sue tesi, tendono nella pratica – e al di là di inconsistenti distinzioni – ad accreditare presso il grande pubblico la tesi dell’Islam  “Asse del Male”. Tutti questi nipotini di Bin Laden “nemici immaginari” tra di loro ma in realtà alleati di ferro,  portino barba e turbante oppure giacca e cravatta, parlino arabo o inglese (o magari italiano), siano imam di qualche moschea o anchor men televisivi o politici che magari coprono alte cariche pubbliche che utilizzano per spargere questi veleni, vanno considerati come un fronte unico: sono il Nemico (o comunque, magari, almeno un Nemico). Debbono essere identificati e smascherati. Se fossero loro a vincere definitivamente la battaglia delle parole, sarebbe gravissimo.

Ecco perché bisogna intendersi bene proprio sulle parole. Di solito, il modo migliore per comprenderle consiste appunto nel farne la storia. Quando si parla di “multiculturalismo”, bisogna guardarsi dall’errore consistente nel pensare che si tratti d’una parola nata per caso. Al contrario, il termine ha una sua storia abbastanza lunga. Esso nasce nell’Australia degli Anni Settanta, quando il governo laburista di Gough Whitlam, nel 1974, abrogò la legge del 1901 denominata Keep Australia White che proibiva ai non europei (ma di fatto, almeno fino al ’45, ai non angloceltici) d’insediarsi nel paese. La legge, quando fu promulgata, mirava ad arrestare l’arrivo dei coloni cinesi e a regolamentare la tratta dei melanesiani destinati a lavorare nelle piantagioni. Dopo il ’74, gli asiatici furono autorizzati a insediarsi in Australia e gli aborigeni a integrarsi gradualmente nella popolazione . I dati del 1997 parlavano di oltre quattro milioni d’australiani (pari a più del  22% della popolazione) nati all’estero, di cui un milione (quindi più o meno il 5%) in Asia. La legge australiana che garantisce il multiculturalismo, e che s’ispira a un modello canadese, facilita almeno in linea teorica il rispetto dei diritti alle differenze linguistiche, culturali, etniche e religiose: anche se di fatto la società di quel paese resta divisa abbastanza pesantemente tra una maggioranza anglo (più propriamente angloceltica), sovrarappresentata nelle istituzioni pubbliche, nella politica, nell’economia, nella finanza, nella cultura e insomma costituente larga parte del ceto dirigente, e le “comunità etniche”, che hanno semmai un maggior rilievo in attività peraltro importanti quali la ristorazione e lo sport.

Esiteremmo a definir quello australiano un modello soddisfacente: tuttavia il suo maggior limite non sta nella legge del ’74 – che peraltro è, come tutte le leggi, perfettibile – quanto nelle resistenze dei gruppi che in qualche modo ritengono di possedere una solida identità e all’interno dei quali alcuni ambienti anche ristretti esercitano la maggior parte dei poteri decisionali. In altri termini – com’è stato notato più volte nella società statunitense o, in quella stessa brasiliana che sembra per tanti versi integrata e omologata (ne sono stati antesignani in tal senso gli studi di Roger Bastide sulla negritude) – accade che dove ad esempio predominino gruppi dotati di una loro forte identità etnoreligiosa (ad esempio negli Stati Uniti gli ambienti WASP: White, Anglo-Saxon, Protestant), i paladini più intransigenti dell’egemonia di gruppo non ne sono i rappresentanti più influenti e abbienti  (che per affermare comunque la loro egemonia hanno altre risorse a parte quelle delle difese legali di certi privilegi), bensì i ceti economicamente e culturalmente subalterni, che temono di  perder l’unica superiorità a loro disposizione, quella di appartenere appunto – diciamo così – alla Herrenrasse e di venir travolti dai “diversi”, dagli “estranei”, dai “nuovi arrivati” in caso si affermi una legislazione integrazionista o, peggio, assimilazionista. Il comportamento della white trash in certi stati del sud degli USA è caratteristico: e tale situazione rischia di riprodursi dovunque si radichino forti minoranze etnoculturali, come si è visto di recente anche nel nostro paese.

La fenomenologia sociopolitica è al riguardo molto varia. Forse dovremmo distinguere con attenzione tra società pluralistiche – dove si mira a una convivenza pacifica tra gruppi etnici, religiosi e insomma culturali diversi, si tutelano le minoranze con apposite misure legislative ma si tende a conferire ai singoli gruppi un peso socioculturale di fatto diverso – e società propriamente multiculturali che sistematicamente si esprimono attraverso provvedimenti che garantiscono pari opportunità di accesso agli strumenti di gestione politica, economico-produttiva e culturale. Com’è noto, il principio della “pari opportunità” portato alle estrema conseguenze rischia, quando ad esempio si adottino discutibili criteri di differenziazione e si tolleri pertanto l’esistere o il determinarsi di nicchie categoriali privilegiate avvertite come contestabili, di determinare nuove discriminazioni[10]. Le scelte  multiculturali, a differenza di quelle propriamente assimilazioniste (che certo non vanno  giuridicamente né represse né ostacolate, ma che non si possono  neppure imporre)  tutelano il mantenimento delle diversità etnoculturali che senza dubbio sono una ricchezza e il diritto dei nuovi arrivati a mantenere la propria identità[11]. Va d’altro canto rammentato che le identità sono plurali e imperfette (in ciascuno di noi possono convivere più identità non sempre e necessariamente identificabili fra loro: l’etnica, la linguistica[12], la religiosa, la municipale o regionale, la nazionale eccetera) e che tanto le identità quanto le tradizioni sono  valori vivi, soggetti alla dinamica storica, e mutano pertanto nel tempo e al contatto con fatti, istituzioni, strutture sociali[13]. L’importante è quindi, in una società multietnica, promuovere e valorizzare il dialogo e la conoscenza reciproca; è necessario  non nascondere bensì evidenziare le difficoltà cercando di risolverle attraverso una loro continua, magari empirica, rimessa in discussione: perché il rischio da battere non è la conflittualità, bensì il pregiudizio[14]. Eventuali conflitti tra integrazione e reciproca tolleranza, tra libertà individuale e tradizioni comunitarie, fra tradizioni e diritti umani così come noialtri “occidentali” li concepiamo (pretendendo che essi vengano immediatamente e “naturalmente” accettati da tutti)  sono, quando si mantengono nei limiti del rispetto di leggi – che magari  si rende necessario modificare – da considerar emergenze fisiologiche, non patologiche.

L’abitudine al diverso, la comprensione di esso e delle sue ragioni storiche, il confronto e magari la curiosità reciproca, non possono comunque non far parte del tessuto istituzionale di una società nelle quali etnìe e culture differenti siano chiamate a convivere: la scuola dovrebbe farsi carico in primissima istanza di questi problemi, che si risolvono meglio nella misura in cui s’insegna e s’impara che le diversità non sono dati assoluti ma relativi, e che vanno da un lato conservate come un diritto, una ricchezza e una risorsa, dall’altro superate e ordinate in altri valori considerati suscettibili d’inglobarle in una realtà più vasta o più alta[15]. Non facciamoci irretire dalle arroganti polemiche sul “multiculturalismo”, sull’ “assimilazione”, sull’”integrazione” e via dicendo: sono in gran parte parole, non cose.

Lo sviluppo di una coscienza identitaria europea che sia il risultato esplicito del mantenimento delle diversità etniche, storiche, culturali e religiose avrebbe potuto e potrebbe garantire ad esempio il senso di comune appartenenza e la salvaguardia delle specificità. E’ sull’antico e pluribus unum che bisognerebbe tornar a meditare e a discutere. Ma nulla di ciò nasce e si sviluppa “naturalmente”, per gemmazione spontanea. Come un tempo si diceva per le nazioni, si è comunità identitarie solo se e quando si vuol diventarlo.

Certo, ciò può esser difficile e faticoso, ed è soprattutto doloroso, quando si deve portar il peso del fallimento del modello costituito dall’Unione Europea: o meglio della sua falsa partenza, dal momento che il clima di diffusa e generale convinzione ch’essa costituisse il primo passo verso un’unità politica era obiettivamente errato e ingiustificato.

Avremmo dovuto lavorare alla costruzione dell’identità europea: che non può non partire dal riconoscimento delle sue radici cristiane e dall’ammissione che il “processo di secolarizzazione”, avviato tra XV e XVIII secolo e del quale l’Europa moderna è pur figlia, ne ha snaturato i connotati. L’Europa cristiana era scaturita da molteplici radici: la religione abramitica nelle sue tre versioni ebraica, cristiana e musulmana; la cultura ellenistico-romana, gli apporti etnici celtici, germanici, illirici, slavi, uralo-altaici. Umanesimo prima, illuminismo poi, hanno progressivamente ridotto e disseccato queste ricche, complesse radici, livellando quella che  fino ad allora  era la complessità di Alessandria (ellenismo e Oriente)-Roma (l’Urbe e i “barbari”)-Gerusalemme a quella disseccata parvenza celebrata da Leo Strauss che vi ha scorto solo il monoteismo ebraico e i pensiero greco[16].

Ora, la speranza di una qualunque Europa appare svanita. L’Eurolandia non è mai divenuta Federazione o Confederazione Europea semplicemente perché non ha mai posseduto, nei suoi organismi di vertice, la volontà di divenirlo. L’Unione Europea non si è mai posta il programma di trasformarsi in Europa Unita. Il fatto che qualunque proposta di riflessione su una dimensione identitaria continentale sia stata ignorata oppure ostacolata per mezzo secolo (un esempio per tutti: la mancata adozione di un modello d’insegnamento della storia europea nelle  scuole dei paesi aderenti all’UE che presupponesse un impegno di riproposizione in senso comunitario di essa).

Nei Demoni di Dostoevskji, a un interlocutore che gli chiede se crede in Dio uno dei protagonisti del romanzo,  Shatov, risponde: “Io crederò in Dio”. Noialtri europei non abbiamo ancora né saputo, né potuto, né voluto provar a fondare i presupposti per poter formulare una risposta del genere alla domanda se crediamo nell’unità dell’Europa. Forse non lo faremo mai. Ne avremmo avuto alcune occasioni: le abbiamo perdute. E’ probabile che l’Europa Unita si allinei alla lunga lista dei Possibili mai Realizzati dei quali la storia umana è piena. Ma io che sono europeista da sessant’anni, dal tempo della rivolta ungherese, mi ostino a ripetere parafrasando Ezra Pound: “Io credo nell’Europa – e nella sua impossibile rinascita”. Vi prego, rispettate la desolata dignità del mio fallimento.

L’ISLAM. REPETITA IUVANT (O DISCORSO AI SORDI CHE NON  VOGLION SENTIRE?)

La necessaria premessa a qualunque discorso – e a questo in particolare – è che, come diceva Eduardo, “gli esami non finiscono mai”. Non si cessa mai e non ci si deve stancare mai d’imparare e di aggiornarsi. Per esempio, un breve capitolo dedicato all’impatto delle crociate nel mondo musulmano contenuto in un recente libro di Leonardo Capezzone mi ha obbligato a mutare molte delle mie idee – e di quelle che ritenevo conoscenze – al riguardo[17]. E tre nuovi libri mi hanno molto aiutato a precisare le idee e a riempire importanti lacune[18].

E allora, insomma, vediamo d’intenderci. A scanso di equivoci ulteriori, espongo qui in chiaro, magari un po’ brutalmente e magari rozzamente, quel che penso e quel che credo (non oso dire quel che so) a proposito del nostro tema.

L’Islam: la terza e più recenti delle “religioni abramitiche” che nel loro insieme costituiscono  una novitas assoluta nel panorama storico-antropologico dei sistemi mitico-religiosi in quanto religione[19] a struttura non mitica bensì storica, a carattere non immanente bensì trascendente. La religione di un Dio unico, onnipotente, onnipresente, eterno, increato e Creatore: un unicum assoluto nelle molteplici concezioni che il genere umano ha del divino. Una religione distinta in due Leggi, l’ebraica e la musulmana, e in una Fede, la cristiana.

L’Islam: una legge antica di tredici-quattordici  secoli; e  una cultura senza la quale – pensate non solo alla filosofia ma anche all’astrologia/astronomia, alla matematica, all’alchimia/chimica, alla medicina – le nostre Università medievali e la stessa fondazione della Modernità occidentale sarebbero impensabili. Oggi, una realtà che a vario e differentissimo titolo coinvolge un miliardo e seicento milioni di esseri umani – vale a dire quasi un quarto dell’umanità, venticinque persone ogni cento – e che da troppo tempo troppi politici e opinion makers inadeguati o in malafede calunniano distillando e propinandoci bugie, falsi stereotipi, ridicoli luoghi comuni ispirati oltretutto alla visione manipolata e distorta d’una realtà che riguarda solo alcune aree del mondo, pochi ambienti o paesi, ristretti gruppi o sodalizi. Un miliardo e seicento milioni di persone che vivono, che lavorano, che producono, che pensano, che lottano: e che da noi,  secondo un infame  politically correct ormai diventato perfino l’ideologia ufficiosa di qualche  giornale e di qualche gruppo politico, sarebbero una massa di assatanati infibulatori, di feroci terroristi, di spettrali ideologi del “ritorno al medioevo”, di barbari invasori travestiti da migranti straccioni, d’ipocriti pronti ad invaderci e a sottometterci, di lapidatori, di tagliagole tagliateste e tagliamani, di sciupafemmine picchiafemmine ammazzafemmine.

Già in un saggio di alcuni anni or sono, ormai diventato un “classico” ma forse oggi un po’ dimenticato, l’antropologo Clifford Geertz sottoponeva a puntuale confronto due tipi d’Islam, desunti l’uno da comunità maghrebine e l’altro da comunità microasiatiche: due modelli nei quali la permanenza di miti e di riti preislamici e la dinamica acculturativa giunge a soluzioni per certi versi quasi sincretiche molto diverse da loro e tali da render difficile all’osservatore esterno il rendersi conto che ci si trova dinanzi alla medesima religione.

E allora, ci voleva proprio per esempio il libro curato da Branca, da Nicelli e da Zannini. Era necessario un libro agile, breve ma sostanzioso, sintetico ma scientificamente documentato, analitico quanto basta ma in grado di abbracciare tempi lunghi e vasti orizzonti:  nel quale tre esperti con tutte le carte in regola per essere riconosciuti tali (e quindi orientalisti, arabisti, islamologi)  ci forniscono un quadro organico e generale della realtà effettiva del mondo musulmano nella sua lunga storia e nell’ampia, complessa varietà  d’istituzioni, di strutture, di manifestazioni e d’intenzioni che lo caratterizzano.  Com’erano necessarie le puntualizzazioni di Capezzone e magari di un grande studiosi, filologo e linguista egiziano naturalizzato italiano, Mahmoud Salem Elsheikh,  per ricordarci perentoriamente alcune cose sul rapporto strettisssimo, fino dal medioevo, tra cultura cristiana e cultura musulmana[20].

E partiamo dunque alla limpida e pacata caccia al pregiudizio, guidati dalla weberiana fede nel disincanto. Venghino venghino, signore e signori che davvero vogliono vederci chiaro, al Gran Padiglione del Vero Islam! Dove non si trovano né bandiere verdi o nere né mezzelune né harem né turbanti né palme né cammelli, e tantomeno le pipe sciabole tappeti scimitarre yaghatan odalische minareti che – ci assicurava grosso modo un secolo e mezzo fa il Visconti Venosta – già imballati avea il sultan.

Qui troveremo,  ordinatamente esposti e commentati in modo da consentire una puntuale verifica, alcuni dati semplici che l’abituale confidenza con cattive letture farà sembrare a molti di noi delle sconvolgenti, letteralmente incredibili verità. Ma Branca, Capezzone, Campanini, Nicelli,  Salem Elsheikh e Zannini, a volerne citare solo alcuni dei molti (ma, occhio!…, non moltissimi) ci aiutano a vederci chiaro. Ed ecco qua alcuni punti irreversibili e indiscutibili, da mandar a memoria e da non dimenticare mai più. Su questi, bisogna intendersi senza malintesi.

Primo: non esiste l’Islam, bensì gli Islam. O meglio, per salvaguardare l’unità storico-antropologica e teologico-giuridica sulla quale si fonda la  pur articolata, complessa e – perché no? –  sovente contraddittoria fenomenologia delle società musulmane, esiste un “Islam plurale”, come appunto il titolo di Branca, Nicelli e Zannini di questo libro suggerisce.

Secondo: all’interno del mondo musulmano si scrive, si legge, si discute, si critica. Non è assolutamente vero che il mondo musulmano non conosce l’Occidente (al contrario!), che non prende posizione ferma nei confronti del terrorismo, che in esso non esiste un’opinione  pubblica.

Terzo: il dilemma fra tradizione e modernizzazione non viene affatto abitualmente risolto nel multiforme universo musulmano solo col rifugiarsi nella prima impedendone qualunque cambiamento o, al contrario,  con la semplice accettazione di modelli esterni. Il panorama del pensiero musulmano non si lascia rinchiudere nel braccio di ferro tra “fondamentalisti” e “tradizionalisti” da una parte, “modernisti” e “secolaristi” dall’altra.  Per tacer della contrapposizione iniqua e cretina tra “Islam radicale” e “Islam moderato”.

Quarto: la shari’a, che da noi la propaganda di alcuni sconsiderati ha trasformato in una parolaccia, non s’identifica affatto con tutto il diritto musulmano né è affatto sempre e comunque incompatibile con il diritto internazionale vigente.

Quinto: è falso che l’Islam non conosca la divisione e la limitazione dei poteri, che confonda fede e politica, che non distingua fra teologia e legge, che applichi sempre e comunque il Corano alla lettera (il che sarebbe impossibile, se non altro, per motivi linguistici, filologici e lessicologici);  ed è invece vero che la legge viene costantemente mediata attraverso l’interpretazione umana, al di là di spesso disinformate e pretestuose polemiche sull’esegesi.

Sesto: il pluralismo e quel che noi definiamo “tolleranza” – vale a dire il riconoscimento di molte vie per giungere alla verità – sono nell’Islam tutt’altro che il prodotto della coraggiosa volontà innovativa di molti intellettuali che pur sarebbero destinati a rimaner isolati, bensì valori e problemi già insiti fino dalle origini del suo messaggio per quanto mischiati e sovente contraddetti da altri (come sempre avviene quando ci si trova a dover far i conti con una Rivelazione garantita da una Sacra Scrittura).

Settimo: i musulmani sono oggi circa un miliardo e seicento milioni di persone, più o meno un quarto dell’umanità sparso in tutto il mondo: e la stragrande maggioranza di loro chiedere solo di poter vivere e lavorare in pace, mentre le forze dei fanatici e dei terroristi assommano sì e no a qualche centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo, organizzati in bande e cosche nemiche fra loro e che reciprocamente si odiano più di quanto non odino i “crociati” occidentali.

Ottavo: la maggior parte dei musulmani è minacciata dagli stessi mali che minacciano noi: la perdita della “cultura del limite”, l’idolatria del profitto e del consumo, la progressiva distruzione del pianeta.

Si potrebbe continuar a lungo con questa enumerazione di temi e di argomenti: ma questo è un tanto necessario quanto sufficiente viatico. Se qualche punto di questo ottalogo non vi convince e volete continuar a coccolare le vostre ideuzze senza scomodarvi ad approfondire e a rimettervi in discussione, fate pure: continuate così, a farvi del male. Se non vi convince ma volete vederci chiaro, avete una sola strada: studiate.

Ebbene, su “Diorama” l’amico Giuseppe Del Ninno mi rivolge alcune pacate e perfino lusinghiere critiche. Egli mi muove tuttavia l’accusa di sottovalutare abbastanza sistematicamente gli “aspetti aggressivi e intolleranti dell’Islam, nelle sue varie manifestazioni”, con “i loro esiti tragici, fino ai più recenti attentati terroristici”, che sarebbero da interpretare “per lo più come risposte o conseguenze di pressioni predatorie e intrighi da parte occidentale”.

Per la verità il percorso storico che io mi sono permesso di proporre è un po’ più complesso e articolato e non si sogna nemmeno di negare o di minimizzare gli errori e, quando ci sono stati, gli orrori commessi da gruppi o movimenti islamici. Né mi sono mia nascosto dietro a letture “evoluzionistiche” o deterministiche di sorta per giustificare le violenze musulmane: ho solo negato che i conflitti tra Europa cristiana e mondo musulmano potessero nascere da un “conflitto di civiltà” in quanto siamo, obiettivamente, tra questi due soggetti, nell’àmbito del confronto tra facies diverse e spesso sul piano contingente avversarie, ma storicamente e concettualmente parte di una medesima cultura (appunto abramitica da una parte, romano-ellenistica da un’altra: non dimentichiamo che è l’Islam che attraverso la Spagna del XII secolo – ma anche attraverso la Sicilia, la Palestina, perfino l’Inghilterra di Pietro Alfonsi e di Adelardo di Bath –  ci ha ricondotto l’aristotelismo, insieme con altri aspetti della cultura greca e anche di quella persiana, indiana e cinese). Quanto all’oggi, non mi sembra di aver mai minimizzato i delitti commessi dai fanatici wahhabiti e salafiti: ma l’ averli inseriti in un contesto di violenza come quella che caratterizza l’attuale disordine del mondo e il suo  aspetto più infame e scandaloso, la concentrazione della ricchezza e il generale impoverimento del mondo, equivale obiettivamente a indicarne una spiegazione che non vuol essere in alcun senso né giustificatoria, né assolutoria. Il comprendere in senso storico non ha nulla a che fare né col giustificare, né tanto meno con l’assolvere. Tutto ciò, senza mai dimenticare – e il mio interlocutore sembra dimenticarlo – che l’Islam stesso, come religione, è oggi in grave crisi e che l’omologazione occidentale, col suo corollario di consumismo e di religione del profitto, è divenuta la koinè diàlektos di tutti i ceti dirigenti del mondo, quelli delle società musulmane compresi.  Ma il vero nemico dell’Umanità resta evidente, per quanto non sempre immediatamente visibile e identificabile sul piano fenomenico immediato: è il materialismo assoluto del turbocapitalismo. Non si tratta di stabilire se il presidente del consiglio d’amministrazione dell’Union Carbide è considerabile o no altrettanto criminale di Bin Laden: si tratta della necessità di comprendere bene come la dimensione entro la quale il primo lavora è incommensurabilmente più pericolosa, sul piano assoluto e mondiale, dei misfatti realizzabili da un capo terrorista. Da una parte c’è un’inesorabile volontà nihilista che proprio “Diorama”, da sempre, non si è mai stancata di denunziare (si veda quanto, alle pp. 29-31, Giuseppe Giaccio osserva a proposito di quel che Alain de Benoist definisce la “Forma-Capitale” e del fatto che “c’è un elefante nella stanza e nessuno sembra accorgersene”, riferito all’impasse nel quale ci sta facendo precipitare l’utopia dello sviluppo e del profitto illimitati); dall’altra una cieca volontà di resistere che alla base può anche alimentarsi alle scaturigini di una sia pur barbarica fede nell’eternità, ma che al vertice è a sua volta vittima della mistificazione dei manovratori sunniti della fitna, che armano la mano dei guerriglieri del Daesh e dei terroristi ma che d’altronde sono i principali alleati di coloro che gestiscono l’egemonia occidentale.

Sbattere il Mostro Islamico in prima pagina è uno dei tanti trucchi che la sessantina di lobbies e di famiglie che oggi egemonizzano il mondo e che hanno ridotto i poteri politici a loro comitato d’affari stanno mettendo in atto per impedire all’umanità di aprire gli occhi e di scorgere i veri responsabili. L’islamofobia indiscriminata, anche quella che si dissimula dietro le distinzioni artificiose e astratte tipo la distinzione tra “Islam moderato” e “Islam fondamentalista”, è uno dei tanti strumenti usati per impedirci di vedere chi e dove sia il vero nemico. Che, come troppo sovente accade, forse marcia alla nostra testa.

Note

[1] Cfr. C. Geertz, Interpretazioni di culture, Bologna 1987;   D. Cuche, La notion de culture dans les sciences sociales,  Paris 1996.

[2] Cfr. F. Hartog, Le miroir d’Hérodote, Paris 2001.

[3] Cfr. D.S. Landes, La ricchezza e la povertà delle nazioni. Perché alcune sono così ricche e altre così povere, tr.it., Milano 2000; cfr. anche il profilo di A. Giovagnoli, Storia e globalizzazione, Roma-Bari 2003.

[4] O. Spengler, Der Untergang des Abendlandes, B.de,2, München 1918-22 (tr.it., Il tramonto dell’Occidente, n.ed., Parma 1991).

[5] Cfr. R. Gobbi, America contro Europa. L’antieuropeismo degli americani dalle origini ai giorni nostri, Milano 2002.

[6] B. Lewis, The Middle East and the West, Bloomington 1964, p.135.

[7] S.P. Huntington, Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale, tr.it., Milano 1997

[8] Ma cfr. ora Alleanze necessarie. Come reagire alla minaccia globale, “Il Nodo di Gordio”, 10, V, genn-apr. 2016.

[9] Cfr. M. Tarchi, Padroni del mondo e dittatori del pensiero, in AA.VV., La paura e l’’arroganza, Roma-Bari 2002, p,28.

[10] Cfr. C.U. Schierup – A. Alund, Paradoxes of multi-culturalism, Avebury 1990.

[11] Per l’identità e la relativa polemica: S. Abou, L’identité culturelle, Paris 1981; A. Mucchiatelli, L’identité,  Paris 1986;  Globalizzazione e identità etniche nell’epoca postmoderna, a cura di P. Ferliga, Brescia 1998;  L’identitè, éd. p. S. Ferret, Paris 1998;  Z. Bauman,  Intervista sull’Identità, a cura di B. Vecchi, Roma-Bari 2003;

[12] Cfr. p.es. O. Garcia,  Social bilingualism and multilingualism, New York 1992

[13] Caso caratteristico di dinamica identitaria, quella nazionale: cfr. A. E. Melucci – M. Diani, Nazioni senza stato. I movimenti etnico-nazionali in Occidente,  Milano 1992;  M. Foucher, Fragments d’Europe, Paris 1993;  L’Europa delle culture, Milano 1996;  A.-M. Thiesse, La création des identités nationales. Europe XVIII.e-XX.e siècle, Paris 1999; altro caso di dinamica identitaria, l’etnico: J.L. Amselle – E. M’bokolo, Au coeur de l’ethnie. Ethnies, tribalism et état en Afrique, Paris 1985; History and ethnicity, ed. by E. Tonkin, M. Mcdonald, M. Chapman, London 1989;  Questioni di etnicità, a cura di V. Mahrer, Torino 1994;   M. Banks, Ethnicity: anthropological constructions, London 1996; J. Rex, Ethnic minorities in the modern nation state, New York-London 1996

[14] Cfr. P.A. Taguieff, La forza del pregiudizio, tr. it., Bologna 1994.

[15] Cfr. C. Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, tr.it., Milano 1993.

[16] L. Strauss, Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero politico dell’Occidente, Torino 1998.

[17] L. Capezzone, Medioevo arabo. Una storia dlel’Islam medievale (VII-XV secolo), Milano 1016, pp. 196-216.

[18] P. Branca – P. Nicelli – F. Zannini, Islam plurale. Voci diverse dal mondo musulmano, Napoli 216; S. Calzolari – P. Tarchi, “Dov’è tuo fratello?”. Ebraismo, cristianesimo e Islam in dialogo, Milano 2016; Storia del pensiero politico islamico (Dal profeta Muhammad ad oggi), Milano 2017.

[19] Al di là delle distinzioni fideistiche e confessionali, che come studioso non mi sogno nemmeno di contestare e che come credente cattolico romano condivido, ritengo un dato obiettivo che, a livello appunto storico-antropologico con la Rivelazione di Dio ad Abramo secondo il racconto del Genesi si possa ritenere di trovarsi dinanzi al nascere di una nuova religione, il monoteismo abramitico appunto, della quale ebraismo, cristianesimo e Islam costruiscano tre differenti confessioni.

[20] Di questo formidabile studioso ci limitiamo a citare la magistrale, illuminante edizione critica di Abu Bakr Muhammad ibn Zakariya af-Razi, Al Mansuri fi ‘t-tibb. Liber medicinalis Almansoris, edizione critica del volgarizzamento laurenziano (Plut. LXXIII. MS.43) confrontato con la tradizione manoscritta araba e latina, a cura di M. Salem  Elsheikh, voll. 2, Roma 2016.

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