ANCHE AMORE E’ UN FIGLIUOLO TRISTE – ANNA MARIA ORTESE E I GIORNI DEL CIELO

per Filoteo Nicolini
Autore originale del testo: FILOTEO NICOLINI

ANCHE AMORE E’ UN FIGLIUOLO TRISTE

ANNA MARIA ORTESE E I GIORNI DEL CIELO

 

 

Dall’opera di Ortese emana misteriosa richiesta di attenzione. Nella scrittura, suggerisce Ortese, si trova la sola chiave di lettura di un testo e la traccia di una sua eventuale verità.

Io sono tra quelli che si è abbandonato più volte alla rilettura di quelle trasfigurazioni: persone, luoghi, affetti. In certi casi, mi sono sentito naufragare in un mare procelloso, quando Ortese tesse la sua favola con una spirale che non converge ma si allarga più e più, e allora si perde di vista la terra, fino al momento in cui appare un punto di appiglio momentaneo che dà sollievo e stimola a continuare la navigazione. Almeno fino alla prossima spirale.

La Vita di cui ci parla nelle opere giovanili è rivelatrice di contrasti tra Terra e Cielo, di angelici dolori, di malinconie e slanci. Con l’immaginazione fertile Ortese nutre le fantasie, i sogni ad occhi aperti, i primi versi, le allucinazioni coscienti.

…Noi abbiamo un grido nell’anima, delle passioni, delle lacrime; e insensibilmente siamo portati ad esprimerle. Cosa facciamo con tale operazione? La vita, caos, diventa forma. Ed è questa l’unica degna di essere guardata.”¹

 

Ecco racchiuse in pochi tratti fulminei l’unico approccio cognitivo per la giovane Ortese alla cosiddetta realtà, al meccanismo delle cose che sorgono nel tempo, e dal tempo sono distrutte. Allora si soffre al dare forma alla vita che appare all’anima, perchè si scoprono i veli che occultano le apparenze. Gioie e dolori sopraffanno il cuore quando si apre al mondo.

E’ il rifiuto del falso reale per sviluppare e costruire immagini penetranti, come p. e. quella del cuore fanciullo innamorato che non dà tregua alla ragione e tesse il dialogo interno.

Qui si apre la prima divaricazione: la vita mobile ed immobile, quella vissuta e quella scritta. La seconda veramente nobile, la prima di qualità inferiore e destinata alla sparizione.

Eppure solo dalla vita emana la possibilità di scriverne, dare forma al pulsare dell’esistenza.

In questo racconto appare la rinuncia al primo amore, la sofferenza del cuore giovane che si rannicchia, l’attimo che sfugge e non ritorna.

Un tema che poi ricorrerà: nei loro voli gli Angeli parlano invidiosi per brevi attimi della città festante e dei giovani innamorati. C’è incompletezza nei Cieli.

Scopre Ortese che la Vita non può essere disgiunta dalle sofferenze, e dunque dal Male. Le sofferenze possono comunque essere una sfida per la comprensione e una opportunità di trasformazione. Esse possono scemare, mutare in sollievo, che può apparire il Bene, e che forse una legge della vita sia proprio questa altalena.

Nel racconto “La Penna dell’Angelo”² lei aspetta la promessa di abbandonare questa valle di lacrime sull’arcobaleno che cavalca il Cielo, è in attesa degli ufficiali dell’Onnipotente coi quali conversare nell’aldilà di pace e di gioia. Ma appare improvvisa nel cuore una mestizia e inquietudine, l’angoscia di lasciare ricordi terrestri e speranze. Il drappello di Angeli arriva per le imminenti consegne, impacciati e confusi, mormorando come uccelli.

Allora uno strazio la vince e confessa al capo pattuglia: “ Non posso essere buona. …la cattiveria, il male, la sofferenza, il desiderio, i patimenti tutti, fino allo spasimo dell’agonia, mi esaltano, sono la mia vita. Forse sarebbe permesso lassù rannicchiarmi in un angolo e con singhiozzi di gioia chiamare il mio amato? No, Non sarebbe permesso!”

A questo punto l’ambasciatore vacilla per un attimo, e addirittura trema dopo che gli sguardi si sono incrociati, poi riprende con calma l’esortazione a condurla nei luoghi meravigliosi che l’attendono, tra canti, dolcezze, felicità spirituali. Lei gli sfila una penna e la conserva come simbolo innocente della fugace attrazione. L’Angelo ne è turbato, ne chiede la restituzione, invano. Si ritira, in attesa dell’ora convenuta.

 

E allora il colpo di scena, appare l’amato che la riporta alla vita terrestre, alla sua buia casa, alle sue interminabili giornate e i silenziosi pianti, e ne riceve i raggianti ringraziamenti di chi gusta con voluttà paradisiaca il tremito, il male della terra, del sangue, delle lacrime, il terribile e squisito male di che mai nessuna celeste quiete potrà compensare coloro che bene a fondo lo seppero.

E’ il rifiuto di edificare una isola di esistenza spirituale lontana dal mondo sensoriale, come regno isolato e a sé stante, è il difficile equilibrio del vivere tra Cielo e Terra che si va costruendo.

Se prima è stato passo necessario quello di allontanarci dal vivere solo nel mondo fisico sensibile ed esserne assorbiti per scoprire altri livelli e piani, ora si ritorna in qualche modo alla Terra perchè è lì il campo di operazione e la fonte di ogni creazione per l’umano essere.

Nel racconto “Occhi obliqui”³ si svolge il drammatico, commovente dialogo tra la creatura e il Creatore. La innata certezza della piccola Rachele che le cose del mondo, fili d’erba e mare, nubi e venti, siano create e dono generoso del Creatore, è causa di un profondo sentimento di amore e gratitudine. Stare vicino a Lui, morire ogni giorno di dolcezza riverente, morire guardandolo nella ingenua coscienza della riunione, è la necessità urgente e il desiderio. E’ il grido accorato che vorrebbe destare il Creato e tutte le oscurità dolenti e umiliate dal peso dell’esistenza, avvisarle del preludio del risveglio, della notte distesa ai piedi dell’alba, del nero che accresce luce al celeste.

La certezza della Creazione equivale alla forza dell’amore che sostiene tanta bellezza. Come non riconoscere nelle Stelle i gioielli usciti dalle Sue mani, nell’albero vestito di verde il fremere e il sospirare della Vita, e dunque la gentilezza delle mani che lo hanno abbigliato!

 

Qui riassumo con le parole di Ortese le pagine più commoventi sul sentire che Rachele ha del Creato. Quando una creatura incontra suo Padre, sia essa filo d’erba, animale o umano, entra in confidenza, brucia e splende di gioia e unione, perde la sua forma terrestre. Rachele non cammina più ma vola dalla gioia, non pensa più, gode, non parla ma splende e brucia. E acquista la bellezza e la luce del Padre, e rivive le stagioni luminose e quelle oscure, è simbiosi coi pesci del mare, è intima unità con le montagne, intesa col vento e con la pioggia, accordo con gli animali, consonanza coi fiori, armonia con gli aromi.

 

Io respiravo come il mare e fremevo come il vento e germinavo come la terra e mi sfogliavo come le rose e impallidivo o accendevo come le nuvole.”

Poche volte si raggiungono momenti di così elevata espressione!

Ma avvicinarsi a Dio non avrebbe offeso i suoi sentimenti?

Un bel giorno c’è l’incontro anelato con il Creatore, che vive solitario e malinconico. Intanto una rosa nel giardino è malata, si lamenta perchè non vedrà più il Padre, e allora Rachele la raccoglie, ne implora la salvezza, intercede. Il Creatore appare contrariato, distratto, ma accede al desiderio della bimba, e la rosa ritorna fresca per momenti, sorride di beatitudine, poi si accartoccia, vinta dal male.

Il dialogo si fa drammatico, quando la bimba chiede il perchè della Sua distanza dal Creato; il Mondo fatica a rinnovarsi secondo l’ordine impartito all’inizio, ma lo fa con pena, con la tristezza dei cuori chiusi. Rachele racconta del dolore del Creato che non vede e non ama più il suo Creatore. Tutto si rinnova senza senso né consolazione, e allora perchè Dio non sofferma lo sguardo, perchè non lo anima e investe di gioia?

Ma Dio è annoiato, distratto, sorpreso dalle richieste. E confessa che a volte capita di costruire una figura in un modo più acceso, più carico, e poi questa figura ci interroga e pretende risposte che non possiamo dare. Ammette che solo ama la bellezza, e odia i tentativi, le decadenze; che abbandona quanto creato prima, per cercare nuove distrazioni.

L’angoscia prende Rachele e tutte le creature che ora non hanno più Padre, il cielo versa lacrime ardenti, la terra tace sotto il suo peso, tutto intorno è raccolto dolore, antica ira, spavento. E’ la tristezza di sentirsi dimenticati e abbandonati a sé stessi.

 

E allora….Dio si rammarica, pentito di aver addolorato la bambina, e si appoggia alla sua spalla intenerito da tanto devozione. Anche Amore è un figliuolo triste, e può farsi cattivo senza esserlo. Rachele ora lo sa, e con lei la Terra, perchè Dio ha ricambiato lo sguardo teneramente, con una lacrima nei suoi occhi obliqui.

Nel racconto “Vita di Dea”4 si discorre dell’amicizia con una ragazza di nome Dea la cui bellezza e talento sfidano i raggianti Angeli per lo sguardo e la gioia. Pura, alta, radiosa, capace di un amore e di un affetto misto a pietà per l’amica dissimile e penosamente inferiore che racconta. Un giorno Dea rivela come sia divenuta bionda e bella con uno strano preambolo.

Non siamo sorpresi dal fatto che su alcune creature siano accentrati i migliori talenti, e ai più manchi quasi tutto? E’ il più grande mistero, silenzioso mistero della vita: questi doni vengono da lontano nel tempo, sono il frutto di una metamorfosi. Non vi è luce che non sia stato frutto di ombra, né gioia non partorita dal dolore. La vita umana è troppo breve perchè si maturino nel suo corso i semi gettati. E’ in altri momenti e in altra luce che si aprono i suoi fiori.

Poi di forma in forma, di esperienza in esperienza, un giorno, forse per la stanchezza dell’anima, si ritorna bruscamente indietro. E allora si diviene serpe o rana, che poi ci guarderà dolorante mentre noi intanto ci siamo elevati, perchè qualcosa di bello è entrato nella nostra vita e inavvertitamente l’ha mutata, in un ciclo vitale che apporta felicità vertiginosa.

Allora succede proprio quanto previsto. Dea raggiunge il punto più alto del suo viaggio, poi sfiorisce e decade smarrita, con una meraviglia infinita, con una paura infantile, fino a morire. L’amica vede impallidirne il ricordo col trascorrere degli anni, mentre la sua anima si arricchisce di bellezza, di talenti, di gioia per la vita. E un bel giorno incontra una rana ferita e dolorante che la guarda dal margine della strada.

 

Questa vita è talmente indipendente dal nostro pensiero limitato, che tutto, dico tutto, ogni più nobile cosa può accadere: e lo sa chi, capace di ricordare ed osservare, prova continuamente davanti ad essa un sentimento di rispetto e terrore.”

FILOTEO NICOLINI

¹ Ortese, “Angelici dolori”, Adelphi Edizioni Milano 2006, racconto omonimo, pag. 68 e segg.

² Ortese, “Angelici dolori”, Adelphi Edizioni Milano 2006, “La penna dell’Angelo”, pag.95 e segg.

³ Ortese, “L’infanta sepolta”, Adelphi Edizioni Milano 2000, “Occhi obliqui”, pagg. 20 e segg.

4 Ortese, “L’infanta sepolta”, Adelphi Edizioni Milano 2000, “Vita di Dea”, pagg.82 e segg.

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