Qualcosa di sublunare nell’immaginario collettivo che dipinge l’amore come una fiaba dolce permeata dal sogno popolare, in cui l’uomo diventa estaticamente pedina del destino, traballando senza requie tra condizioni di felicità e di tristezza, di vita e di morte, di coraggio e viltà. L’amore diventa quindi espressione di fusione con l’oggetto amato, escludendo tutte quelle considerazioni classicheggianti di bellezza ed armonia che oreggiavano nel passato Apollonico, in tempi in cui la bellezza e l’amore si fondevano in un’unica contemplazione estatica, che speronava l’anima dell’uomo moltiplicandola e rendendola ricca di un sentimento che la concezione di amore odierno non riesce a concepire.
Nel romanzo di Thomas Mann, ‘der Tod in Venedig’, lo scrittore Aschenbach perde ogni lume di ragione quando, in preda alla passione per l’adolescente Tadzio, si dibatte tra il rigore degli schemi familiari e la lucidità intellettuale, unita alla dissolutezza che ne mette a rischio la dignità; in molti passi del romanzo, Aschenbach si divide letteralmente in due, incapace di staccarsi dalla visione paradisiaca dell’angelo Miltoniano che è Tadzio, ignaro di qualsivoglia attrazione e attenzione da parte dello scrittore, oltre che figura quasi distaccata dagli eventi del romanzo, che ruotano necessariamente attorno all’attrazione fatale e al senso di colpa di Aschenbach per l’amore orrifico che prova verso una creatura così diversa da lui.
Questa dannazione, diventa caratteristica non solo del romanzo di Mann, ma anche di tutta la letteratura tedesca del Novecento; l’aspetto decadente dei tratti di un’Europa post-bellica prende piede tra gli scritti di molti autori, che inseriscono lo sgretolamento dei valori principali come residui melanconici di una società corrotta, tragica, abbandonata, ma piena ancora d’amore; un amore non più popolano, ma estatico (che richiama l’Estasi, la contemplazione, unite ad un grande dolore fisico e spirituale per la lontananza dall’oggetto amato), a pezzi e dolorante. La dannazione diviene dunque, il punto necessario per la creatività: nel romanzo di Mann ‘il Doctor Faustus’, il musicista Adrian Leverkuhn diviene osservatore attivo della dannazione, ne accetta le conseguenze, la riceve, ne gioisce. Il patto con il diavolo lo libera finalmente dalle costrizioni intricate e dai vincoli intellettuali che l’arte stessa, nel suo cammino storico, ha costruito.
Oltre alla tradizione letteraria tedesca, compare nel romanzo anche un aggancio forte alla storia contemporanea: il demoniaco viene a rappresentare il nazismo; il finale, con la pazzia del protagonista, simboleggia lo sfacelo della Seconda guerra mondiale.
Amore e dannazione risultano quindi uniti da un vincolo spirituale di dolore ed estasi, che non comprende un’unica fionda di sentimenti, ma al contrario, l’amore dannato riunisce in sé una moltitudine di emozioni che si elevano verso qualcosa di non comprensibile e di eterno; è l’Es muss sein di Beethoven, nei lenti accordi del ‘quartetto n.16’, in cui ricorre insistentemente proprio questa frase, tra domanda e risposta, in un angosciante coro di voci. ‘Muss es sein’? – ‘Es muss sein!‘. L’intestazione dell’intero movimento è infatti ‘Der schwer gefaßte Entschluß‘, ovvero ‘la decisione difficile’; questo scambio di domande e risposte, in cui il ‘deve essere’ rappresenta la costrizione unita al destino, coinvolge l’amore in un susseguirsi di eventi in cui non vi è possibilità di scelta, se non la volontà di accettare tutto quello che il destino propina al genere umano. Un abbandonarsi vuoto e doloroso, perciò, al destino umano, alla sconfitta e al dolore dell’amore.
Questo argomento viene approfondito dal romanzo ‘L’insostenibile leggerezza dell’essere’, in cui la prefazione si apre sulla contemplazione della frase ‘Einmal ist keinmal’ (una volta sola è come mai), l’Eterno ritorno di Nietzsche e l”es muss sein’ di Beethoven; la condizione dell’anima umana è appesa al filo della leggerezza dovuta al vivere incessantemente situazioni che non si ripeteranno mai più; non possiamo scegliere ciò che ci capiterà (es muss sein), ma la nostra stessa esistenza è una (einmal ist keinmal) e proprio per questo essa si cancella come gesso sulla lavagna. Vivere una volta sola, è come non vivere mai; la condizione di leggerezza della nostra anima è quindi impossibile da sostenere, ed è dunque lì che il protagonista dei grandi scrittori decide di vendere la propria anima al diavolo, in cambio dell’immortalità; ma è l’uomo pronto a vivere eternamente, è l’uomo pronto a rivivere l’eterno ritorno? La letteratura ci insegna di no; l’uomo vede rompersi la propria integrità in cambio di favori più grandi di lui, che non sa in alcun modo gestire.
L’uomo non si dimostra pronto, nella letteratura, a vivere un tempo più grande delle sue aspirazioni; Uroboro, il grande serpente che si morde la coda (il serpente nero di ‘Così parlò Zarathustra), rinasce e muore ripetendo eternamente un certo corso e rimanendo sempre se stesso: l’uomo non è però pronto ad appesantire la propria anima, guardando estaticamente il flusso degli eventi ripetersi infinitamente, ma non è nemmeno pronto a guardare gli eventi passare secondo l’es muss sein, e scivolare via nel flusso del tempo, guardandoli cadere dal burrone del mai più (keinmal).
Nell’eterno ritorno, Nietzsche racconta questo aneddoto:
« Che accadrebbe se un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione […]. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!”. Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: “Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina”?[4]. »
Secondo varie chiavi di lettura, l’uomo è impossibilitato a rivivere all’infinito determinate situazioni, o la propria stessa vita, perché le scorie del suo passato, i blocchi psicologici, la paura del vecchio, gli impediscono di ricrearsi secondo vecchi schemi; il proprio substrato psichico, gli impedisce quindi ogni progresso e cambiamento.
“Al contrario, tagliare col passato, per sempre e continuativamente, vuol dire rompere il circolo perpetuo che vizia il destino dell’uomo; rompere il cerchio dell’”eterno ritorno” significa aprirsi la via ad un nuovo tempo rettilineo, proiettato verso l’infinito e infinitamente diverso da sé, in costante cambiamento. Eliminare il macigno che l’uomo si trascina appresso dai tempi di Socrate quindi equivale ad una redenzione esistenziale che sfocia nell’oltreuomo, e che vede nelle nuove generazioni, svincolate dalla tradizione e dal passato, la possibilità di salvezza per il genere umano.”
Giorgia Deidda
Amore estatico ed eterno ritorno
Autore originale del testo: Giorgia Deidda
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