Amarcord: come quando e perché l’Italia fu privatizzata

per nicola

di Nicola Boidi  31 agosto 2018

« Durante i governi di centrosinistra si sono fatte molte più privatizzazioni di quante se ne siano fatte dopo. Il paradosso italiano è che è stato il centrosinistra a smontare l’Iri, e non la destra che si definisce liberale. Privatizzazioni, liberalizzazioni, riforma delle pensioni. Noi abbiamo portato la lira nell’euro, …noi abbiamo compresso la spesa pubblica. Noi abbiamo avviato una progressiva riduzione del debito pubblico. La spesa pubblica globale è stata ridotta al 46 % ..»

Massimo d’Alema, Porta a Porta, aprile 2013

La parola amarcord (il «mi ricordo» nel dialetto romagnolo di felliniana memoria) potrebbe qui suggerire una nostalgia per un «un‘epoca che fu», passata e tramontata, e che è inutile sperare che possa ritornare. Ma interrogarsi sulle lontane origini del processo che ha come suo prodotto ultimo non solo materiale ma anche simbolico, il disastro del ponte Morandi sopra Genova, s’impone doverosamente a chiunque provi dolore, sgomento e angoscia di fronte a quella tragedia. Chiedersi come e perché si sia giunti a un tale punto di degrado nella gestione di beni comuni o pubblici da parte del privato, per cui le opere minime necessarie (non quelle straordinarie, che avrebbero dovuto comportare la chiusura del ponte, il suo abbattimento e la sua ricostruzione) di manutenzione sono andate completamente disattese, come risulta dalle indagini in corso, non è un mero esercizio di stile retorico.

Se è vero, come appare dalle inchieste in corso da parte della magistratura e delle commissioni governative in costante aggiornamento, con un continuo accumularsi di «dati indiziari», che tutta una serie di test e opere di ristrutturazione sui tiranti (stralli in termine tecnico) che sostenevano l’ardita costruzione dell’ingegnere Morandi sono stati compiuti saltuariamente o programmati con enorme e grave ritardo, questo non può che generare sconcerto sul come la gestione privata di tali infrastrutture tenga in considerazione la sicurezza e l’incolumità fisica dei suoi utenti. Il consuntivo di 19 anni di gestione privata delle Autostrade per l’Italia, facente capo alla famiglia Benetton, era già pesantemente negativo a prescindere dal disastro Morandi, per sovraprofitto sulle tariffe autostradali a fronte di piani di reinvestimento in manutenzione e ammodernamento della rete assolutamente insufficienti e sproporzionati rispetto agli utili fatti, piani per lo più rimasti solo sulla carta.

Si potrebbe ribadire che il mantra «privato è bello» e, conseguentemente «il pubblico è sporco, brutto e cattivo», si stiano ulteriormente sgretolando in questi giorni come il pilone e gli stralli del ponte Morandi. Se il volto del privato, intendiamoci, la grande impresa privata, la multinazionale – in cui distinguere gli obiettivi del fare impresa e cioè del produrre beni e servizi per la comunità, e il fare mera speculazione finanziaria (quotazione in borsa e aumento del profitto speculativo a vantaggio dei dividendi per gli azionisti) è diventato sempre più difficile – è quello della famiglia Benetton, della sua concessionaria Edizione, della subordinata società multinazionale Atlantia, per giungere infine alla ramificata società Autostrade per l’Italia (solo una delle collegate società dell’impero multinazionale dei Benetton), bè, per rimanere alla metafora, appare un volto su cui si disegna un ghigno beffardo e diabolico.

Eppure fino agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso gli assets infrastrutturali italiani (trasporti – autostrade, ferrovie, linea area – e telecomunicazioni) erano di proprietà dello Stato, così come lo erano le società energivore (Enel, Eni) , così come era prevalente la sanità pubblica su quella privata, c’era una forte presenza di istituti finanziari (banche) a statuto pubblico, un’editoria non così concentrata nelle mani di pochi proprietari, etc. etc. etc. Un quarto dell’economia italiana era allora configurato in tal modo.

Il modello di sviluppo dell’economia italiana, dalla ripresa del dopoguerra sulla spinta del piano Marshall, fino al decollo del boom industriale a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta, alla tenuta di lungo termine fino all’inizio degli anni ottanta, era basato su questo «centauro» di proprietà pubblica e management privato (esemplare il caso dell’Eni diretta da Enrico Mattei) , l’industria a partecipazione statale, che faceva da volano all’intero sistema industriale italiano delle imprese private, grandi, medie e piccole, imprese che sul rapporto costante e ramificato con le partecipate dello Stato fondavano la loro prosperità. Tant’ è che fino al 1980 l’Italia era la quinta potenza industriale del mondo, il rapporto tra reddito medio e risparmio degli italiani era al 25 % (un unicum a livello mondiale), e fino a metà degli anni 90 il reddito medio degli italiani sarebbe stato il terzo a livello europeo.

In un sistema di economia di mercato, sia pure temperato dall’intervento pubblico, il governo della creazione e della emissione della moneta, mediatore massimo del valore di scambio tra la produzione e vendita di merci (beni e servizi) e il loro acquisto e consumo (tra offerta e domanda) è un elemento strategico fondamentale (paragonabile al flusso del sangue nel corpo umano o al flusso dell’acqua in un corso d’acqua) e quindi il sistema economico italiano misto pubblico / privato poteva essere preso alla giugulare solo se gli si sottraeva questa linfa vitale della gestione della spesa pubblica.

Puntualmente questo si è verificato nel 1981 con il celebre divorzio tra Ministero del Tesoro e Banca Italia, che a cascata ha via via provocato una serie di conseguenze che come onda lunga hanno portato alla fine di quel sistema economico nel corso degli anni ’90 del novecento. Perché quel passo fu compiuto e da chi , se in cattiva o in buona fede, è un argomento che esula dal limitato contesto di questo scritto. Se qualcuno ha avuto la bontà di leggere un precedente articolo – Euro, cronistoria di un fallimento. Le tappe del declino industriale italiano – lì troverà un’analisi dettagliata della questione.

Sta di fatto che consegnare il finanziamento della spesa pubblica alla compravendita speculativa dei titoli di Stato sui mercati finanziari, ai tassi d’interesse decisi da quest’ultimi, oltre che a fare esplodere il debito pubblico raddoppiandolo in meno di un decennio, produsse un effetto deleterio e perverso sulla dimensione e sulla natura degli investimenti pubblici. Gli investimenti pubblici sulle infrastrutture si contrassero di molto, e la quota rimanente fu destinata in gran parte a foraggiare quel sistema di corruzione, a base di tangenti e mazzette, che aveva accompagnato questo processo lungo tutto il suo cammino. Se precedentemente la spesa pubblica sostenuta da Banca Italia aveva foraggiato insieme e gli ingenti investimenti – ad es. in manutenzione e nuova costruzione delle vie di trasporti, autostrade e ferrovie – e quel sistema di tangenti, in seguito rimase prevalentemente «l’acqua sporca della corruzione», «mentre fu gettato via il bambino dello sviluppo economico», per rimanere alla metafora usata dall’economista Galloni.

Quando all’inizio degli anni ’90 nuove dense nubi si accumularono sulla politica e sull’economia italiana (il concretizzarsi del progetto di una nuova Unione europea il cui unico pilastro, sostanzialmente, doveva essere il conio neoliberale di una moneta unica e le istituzioni ad esso relative) il degrado di quel sistema economico misto pubblico e privato era pronto allo scoppio di Tangentopoli e ad essere completamente rovesciato.

Nel fatidico 1992 ( Il 92’, potremmo titolarlo, scimiottando Victor Hugo) nel giro di pochi mesi furono ratificati dal governo italiano in carica i Trattati fondativi di Maastricht (febbraio); scoppiò lo scandalo di un vasto e ramificato sistema di corruttela a base di mazzette tra il il pubblico e il privato denominato Tangentopoli che travolse i principali partiti politici al potere; furono uccisi dalla mafia i magistrati Falcone e Borsellino (giugno e luglio); la lira, che finanziava la spesa pubblica sui mercati, subì forti attacchi speculativi da parte del Finanziere George Soros, subendo una forte svalutazione. Diciamo con Mao tse Tung che in quel turbinio di avvenimenti: «Grande è la confusione sotto il cielo. La situazione è favorevole». Ma favorevole per chi? Quando si crea un vuoto di potere e un intero sistema istituzionale è scosso nelle sue fondamenta, quel vuoto diventa vantaggioso per chi vuole riempirlo, per un potere ad esso alternativo, quello che noi chiamiamo in gergo i «poteri forti» dell’economia e della finanza.

 Sta di fatto che, è una cosa ormai appurata, il 2 giugno del 1992 (festa della Repubblica) s’incontrarono sul panfilo reale Britannia attraccato al largo di Civitavecchia, noleggiato per l’occasione, in un incontro «informale» e cioè privato, non aperto al pubblico, alti funzionari dello Stato italiano: innanzitutto il governatore della Banca Italia Ciampi e il ministro Andreatta, gli autori del divorzio del 1981, i vertici dell’Iri, il vicepresidente di Confindustria Cipolletta, e numerosi esponenti di importanti assets strategici italiani. Ma accanto a questi erano presenti anche e sopratutto importanti uomini d’affari delle maggiori banche d’investimento internazionali (Barclay’s e Goldmann Sachs ). A fare da regista di questo incontro compare in un ruolo importante per la prima volta Mario Draghi, allora direttore generale del ministero del Tesoro, ministero chiave per gli affari economici dello Stato.

Dato che è difficile credere che quell’incontro sul Britannia fra tali personalità fosse a scopi di svago e piacere, ma molto probabilmente invece finalizzato a decidere le sorti dell’industria a partecipazione statale dell’Italia, (un quarto dell’economia italiana, ricordiamolo), la presenza del direttore del Tesoro in quel consesso di consultazioni private suscita tutt’ora un certo sconcerto.

Sta di fatto che proprio in quei mesi fu approvata in parlamento, sotto il governo Amato, una legge ad hoc per trasformare le partecipate dello Stato in società per azioni, in modo da prepararle a un loro smembramento e vendita a grandi investitori internazionali. Puntualmente questo accade a partire dal 1993, e il processo di vendite ai privati riguardò prima di tutto l’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale). L’iri era l’autentico colosso di quel sistema d’industrie di Stato, essendo proprietario niente po’ po’ di meno di: Autostrade, Alitalia, Ferrovie dello Stato, Sip, Finsider (società siderurgica che controllava l’Ilva di Taranto e diverse acciaierie), Fincantieri (Cantieri navali), Finmare (società di servizi marittimi), Finmeccanica (difesa, areospaziale e sicurezza), Finsiel (società che operava nell’informatica), Italstat (società di ingegneria civile, operava nel campo di progettazioni e costruzione di grandi infrastrutture), Rai, Sme, Stet (società di telecomunicazioni), autogrill, catena supermercati Gs, panettoni Motta, pelati Cirio.

Inoltre i principali istituti di credito (banche) italiani erano di proprietà dell’Iri: il Credito italiano, la Banca nazionale del Lavoro, la Banca Commerciale italiana, il banco di Roma, l’IMI (istituto mobiliare italiano, istituto di credito finalizzato a finanziare i progetti industriali a medio e lungo termine): il 74% del sistema bancario italiano, prima della sua«liberalizzazione», era a statuto pubblico.

La cosiddetta «Galassia Iri» dell’industria strategica infrastrutturale, una volta trasformati in società per azioni i suoi «pianeti e satelliti», fu spacchettata, smembrata e venduta al migliore offerente. Venduta al miglior offerente? Si è calcolato un ammontare complessivo d’incasso da parte dello Stato dal processo di privatizzazione e liquidazione dell’Iri, nell’anno 2000, di una somma equivalente agli attuali 113 miliardi di euro. Se pensiamo che il pil in quello stesso anno ammontava a una somma corrispondente a 1.700 miliardi (pressochè uguale al pil attuale!) , e che il valore stimato delle industrie di stato italiane era valutato al 25 % del nostro intero sistema economico, si evincerà con facilità che più che di una vendita si trattò di una svendita ai privati.

Ma a chi andarono i gioielli di famiglia dello Stato italiano? Cominciamo a vedere dove finì l’ingente quota del credito italiano di mano pubblica: l’Imi nel 1994 fu venduta a Banca San Paolo poi confluita in Intesa San Paolo; nello stesso 1994 la Banca Commerciale Italiana fu venduta direttamente a Banca Intesa; Credito italiano andrà a costituire il nuovo gruppo Unicredit già a partire dal 1993, la Bnl confluirà nel gruppo francese Bnp Paris Bas a partire dal 1998; antesignano di queste privatizzazioni degli istituti finanziari, « madre di tutte le privatizzazioni», fu già nel 1989 il passaggio di Banco di Santo Spirito a Banco di Roma, poi confluito anch’esso nel polo di Unicredit. Qual’è la percentuale di banche a statuto pubblico superstiti oggi presente nel nostro paese? Praticamente lo 0% se consideriamo che Banca d’Italia ha il consiglio di amministrazione costituito dalle principali banche private, e che Cassa depositi e Prestiti è sì ancora pubblica al 84% , ma quei banchieri privati costituenti il 16 % della sua proprietà hanno la cosiddetta golden share, cioè la possibilità di dire l’ultima parola sulla direzione degli investimenti dell’istituto.

Se vediamo la destinazione finale degli altri assets strategici, Enel è stata privatizzata al 70% , idem l’Eni, Finsider, privatizzata a pezzi a partire dal 1995, confluisce poi nell’ Ilva, Finmeccanica viene privatizzata al 70%, la rete di Autogrill è di proprietà dei Benetton dal 1995, prima ancora di ricevere la concessione delle autostrade; la catena di supermercati Gs viene prima ceduta agli stessi Benetton e poi da questi a Carrefour, i panettoni Motta /Alemagna diventeranno di proprietà di Nestlè/ Bauli. Infine , last but not the least, la rete di telecomunicazioni già Sip e poi Telecom, un assett giudicato di grande potenziale a livello internazionale, passerà di mano in mano, prima alla famiglia Agnelli, poi a Colaninno, poi a Tronchetti Provera, perdendo via via valore azionario, con operazioni finanziarie ardite e sempre più disastrose, per essere poi «raccattata da terra» a prezzi di saldo dalla multinazionale di telecomunicazioni spagnola Telefonica. L’ultimo passaggio vede la Telecom/ Tim essere posta sotto il controllo del gruppo Vivendi, multinazionale francese dell’audio visivo. La vicenda delle autostrade l’abbiamo già ricordata.

L’intero smantellamento e svendita dell’Iri, come detto, furono giustificati con l’inefficienza del governo pubblico, la forte passività di alcuni dei suoi bilanci, la necessità di «far cassa» da parte dello Stato di fronte all’esplodere del debito pubblico, la necessità di «registrare i conti pubblici» per potere rientrare nei severi parametri di Maastricht e accedere alla moneta unica euro, la necessità a quest’ultima collegata di far fronte alla «minaccia» della svalutazione della lira sotto gli attacchi speculativi di Soros in quel 1992 .

Accanto a Amato, Ciampi, D’Alema, nei diversi ruoli da loro ricoperti lungo gli anni ’90, i principali registi della privatizzazione dell’Italia furono senz’altro Romano Prodi e Mario Draghi. Romano Prodi fu presidente dell’Iri dal 1982 al 1989 e poi dal 1994 al 1996, anni cruciali delle privatizzazioni; Mario Draghi fu ininterrottamente il direttore generale del tesoro dal 1991 al 2001. Due ruoli chiave nelle grandi operazioni in corso.

 Ciò che accomunava tutti i soggetti nominati – a cui possiamo aggiungere Carli, Andreatta e Bersani – era la radicata convinzione che l’esplosione del debito pubblico andasse combattuta con il fare cassa e tagliare la spesa pubblica (ossia invertire il trend della spesa pubblica con l’accumulare avanzo primario, surplus di entrate sulle uscite dello Stato); che la svalutazione della lira fosse necessariamente un male (a prescindere dalla percentuale di svalutazione della divisa) da impedire ad ogni costo, anche bruciando inutilmente 40.000 miliardi di riserve di vecchie lire da parte dell’allora governatore di Banca Italia; che l’ingresso nell’Unione Europea e l’adesione all’euro fosse un imperativo categorico irrinunciabile, pena in caso contrario l’impossibilità di agganciarsi al«treno meraviglioso della competizione sui mercati internazionali e della globalizzazione» (evidentemente non erano dello stesso avviso né Gran Bretagna né Danimarca che aderirono al progetto paneuropeo con l’opzione dello opting out, cioè con la possibilità di uscire dai Trattati e senza aderire alla moneta unica euro).

Ma la storia del rapporto dell’Italia con la Ue e con l’euro appartiene ad un altra storia, su cui lo scrivente si è già diffuso abbondantemente. Qui limitiamoci ad osservare che l’«ordalia neoliberale» che ha investito la politica e l’economia italiane a partire dagli anni 80 ha seguito una serie di ragionamenti e di atti giuridico-politici che sembrano veramente un circolo vizioso o un cane che si morde la coda. Si è tagliato il vincolo ombelicare tra spesa dello Stato e Banca Italia nel 1981 giustificandolo con la necessità di frenare la spesa pubblica presuntamente troppo allegra e presunta imputata dei tassi d’inflazione al 20%. Si potrebbe osservare che in quell’epoca «irresponsabile» tutti i parametri economici fondamentali indicavano che l’economia italiana godeva di salute più che buona. Sta di fatto che quel fatale atto ha significato perdere la sovranità monetaria, privatizzare la spesa pubblica, farla raddoppiare ed esplodere, giustificare politiche di tagli di spesa e di perseguimento di pareggio di bilancio, giustificare lo smembramento e la svendita delle industrie a partecipazione statale a grandi gruppi privati nazionali ed esteri, mettere in crisi il sistema economico pubblico-privato complessivo, e infine preparare nuove politiche economiche di lacrime e di sangue perché bisognava passare nelle forche caudine dei parametri di Maastricht. Per non parlare delle incredibili assimetrie che si sono create tra le bilance dei pagamenti dei paesi membri che hanno adottato quei parametri europei.

 Questo solo per fare un veloce riepilogo della situazione e dare quel quadro d’insieme che sfugge sempre al generale bla bla mediatico su questi temi. Quel circolo vizioso che dalla necessità di frenare la spesa pubblica e l’inflazione, ha creato il debito pubblico, e poi per ridurre il debito pubblico ha creato la austerità nella spesa pubblica e da questa ha creato stagnazione economica e poi ha implementato la recessione economica del 2008, se non fosse irriverente per il paragone, dato il contesto drammatico, potrebbe ricordare la canzone filastrocca di Sergio Endrigo Ci vuole un fiore:«per fare un tavolo ci vuole il legno, per fare il legno ci vuole l’albero, per fare l’albero ci vuole il seme, per fare il seme ci vuole un frutto, per fare il frutto ci vuole il fiore…». La differenza essenziale è che nel caso della filastrocca di Endrigo il ciclo naturale si presenta come assolutamente virtuoso e fecondo, nel caso del circolo economico il suo risultato è assolutamente distruttivo.

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