di Alberto Madricardo 08 dicembre 2014
All’inizio degli anni ’80, con l’avvio della globalizzazione, la libertà di movimento dei capitali e la nuova disponibilità di forza lavoro a livello planetario relativizzano il ruolo dello stato e della politica nazionali, con effetti profondi sul conflitto sociale e sugli assetti politici ed istituzionali.
Nei contesti nazionali le dinamiche sociali si erano sviluppate dal dopoguerra in una crescente organizzazione e polarizzazione di classe, che aveva imposto nell’Europa occidentale l’adozione di politiche keynesiane e la creazione dello stato sociale. Ora l’apertura dei confini poneva fine a questa tendenza e riduceva il potere contrattuale delle masse lavoratrici dei paesi avanzati, con il tendenziale dissolversi dei blocchi sociali che si erano creati nel trentennio precedente e il loro rimescolamento in un amalgama metropolitano sempre più gelatinoso ed informe. In corrispondenza, cominciò a manifestarsi la crisi irreversibile delle socialdemocrazie e delle politiche di welfare, la crisi della politica, dei partiti e delle istituzioni create nella fase precedente.
Gli schemi tradizionali di interpretazione della realtà non funzionavano più: al posto della dialettica sociale, si scoprì la “complessità”, in un mondo in cui le barriere nazionali venivano in gran parte a cadere e i problemi di una certa rilevanza nazionale avevano connessioni planetarie tali da non poter essere più seriamente risolti entro il quadro della politica nazionale e con le tradizionali mediazioni politiche.
La globalizzazione fu la risposta del capitalismo alla grande spinta sociale del ’68: l’inserimento nel mercato mondiale di un’enorme quantità di forza lavoro a basso prezzo e non sindacalizzate dei paesi del terzo mondo in concorrenza con le classi lavoratrici dei paesi avanzati costrinse queste ultime a passare sulla difensiva e poi lentamente a disgregarsi come soggetti sociali.
Le categorie tradizionali della politica e dei conflitti sociali nazionali apparvero quasi all’improvviso superate e fuori contesto. Alla classica contraddizione tra classi, che aveva dominato la lotta sociale e politica entro le cornici nazionali, subentrò la concorrenza tra forze lavoro e tra sistemi nazionali e territoriali su scala planetaria. A quelli capaci di presentarsi sul mercato globale con un alto grado di orizzontalizzazione della relazione sociale, di coesione e di efficienza sistemica, il capitale globalizzato avrebbe riservato un trattamento di riguardo e investimenti di qualità. Agli altri sarebbe stato imposto di subire una nuova subalternità e riposizionamenti verso il basso nella divisione del lavoro mondiale e nella gerarchia della ricchezza.
L’Italia, il cui sistema economico, da arretrato e periferico, aveva saputo conquistarsi una posizione “semicentrale” nei primi decenni del dopoguerra, ora – nella nuova fase aperta con la globalizzazione – si trovava in bilico tra la promozione tra i paesi “di serie A” e una nuova retrocessione.
La risposta a questa sfida da parte della classe dirigente economica e politica italiana fu assenteista o sostanzialmente inadeguata. Quella economica – salvo alcune eccezioni – si apprestava a non scommettere su quella riqualificazione produttiva e sociale del paese che sarebbe stata necessaria a consolidare la sua posizione tra le prime potenze mondiali, ma a dirottare le sue risorse per lo più nella speculazione finanziaria o in una delocalizzazione perseguita per lo più per continuare a produrre senza innovazione in situazioni più arretrate.
La classe dirigente politica democristiana aveva apparentemente resistito al terremoto del ’68, ma al prezzo di una paralisi strategica – dopo la liquidazione di Moro – di un’inarrestabile corruzione interna e un consenso sociale ottenuto grazie all’aumento vertiginoso del debito pubblico lungo tutti gli anni ’80 che avrebbe portato lei alla fine e il paese sull’orlo della bancarotta.
A livello politico la sinistra, per l’influenza sociale e politica che aveva raggiunto a metà degli anni ’70, si trovava a dover farsi carico di una nuova enorme responsabilità, avendo avuto il merito di resistere efficacemente – al prezzo di un ventennio di “guerra civile strisciante” – al tentativo di instaurare, da parte di De Gasperi e dei suoi successori democristiani del dopoguerra, un regime blandamente clericofascista di tipo salazariano. Per questo il PCI era stata portato dall’onda del ’68 alle soglie del governo del paese.
Fu allora che, abbandonando la strategia del “blocco storico” gramsciano, Enrico Berlinguer formulò la proposta del “compromesso storico”. Questa nasceva certo dal riconoscimento della maturità di una situazione che imponeva al PCI di assumere un ruolo non più solo di opposizione, ma si sarebbe rivelata inefficace e irrealistica, in quanto proponeva un accordo tra blocchi sociali relativamente compatti, la cui dissoluzione stava invece già cominciando. E assegnava alla politica un soffocante ruolo di controllo sulle dinamiche sociali, proprio mentre solo l’ulteriore sviluppo dell’ intensa socializzazione del potere avviato dal ’68 e una efficace capacità della politica di non dissipare, ma di convogliare il protagonismo sociale verso esiti positivi, avrebbe consentito all’Italia di affrontare in modo adeguato le sfide della globalizzazione.
La strategia di Berlinguer insomma riaffermava schemi e pratiche ormai superate già nel momento in cui veniva formulata.
Il compromesso storico fu in realtà una proposta elaborata senza un adeguato respiro teorico, puramente in chiave tattica, in seguito allo shock del golpe cileno, come traspare dalle stesse parole di Berlinguer, nel discorso pronunciato in occasione del XIII congresso del PCI:
“La tragica esperienza cilena confermò e ci portò a confermare una profonda convinzione, che ha sempre guidato la nostra condotta politica: occorre fare tutto il possibile – naturalmente seguendo tattiche corrispondenti alle diversità delle condizioni concrete esistenti in una o in un’altra fase politica – per evitare una spaccatura verticale del popolo e del paese in due fronti contrapposti e naturalmente nemici”[1].
Il “compromesso storico” ebbe di fatto il senso della rinuncia definitiva da parte del PCI a svolgere un ruolo indipendente ed innovativo nel processo politico nazionale e mondiale, ad uscire dal provincialismo e dall’ambiguità togliattiana della “via italiana”, sulla base di un’analisi che comprendesse anche il problema dell’ormai evidente – ben prima dell’inizio degli anni ’80 – fallimento del socialismo reale (analisi per la quale non sarebbe bastato il riconoscimento da parte del segretario del PCI “dell’esaurirsi della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”).
Berlinguer proponeva irrealisticamente proprio alla classe dirigente tradizionale italiana – a tutt’intera, anche a quella parte consistente che aveva interessi antinazionali – di collaborare a cambiare il paese in nome dell’interesse nazionale. E ciò dopo che il partito, non ancora maggioranza elettorale, raccoglieva però già intorno a sé una maggioranza sociale, che avrebbe avuto il dovere di guidare – senza fughe in avanti, ma anche senza pavidità – verso gli esiti di profondo mutamento a cui questa era protesa.
La proposta di Berlinguer non indicava nulla rispetto alle grandi questioni che assillavano tutto il movimento della sinistra mondiale. In primo luogo quella dello sviluppo del primato della società civile nei processi politici e della coesione sistemica su basi territoriali, nell’età in cui il capitale mondiale aveva cambiato tavolo di gioco, passando da quello nazionale, in cui ormai agivano soggetti sociali antagonisti per lui troppo strutturati ed influenti, a quello mondiale, nel quale non esistevano e non sarebbero potuti esistere per lungo tempo – dopo l’eclisse e poi la fine del socialismo reale – soggetti che potessero davvero condizionare il suo dominio.
Berlinguer, preoccupato di evitare la “spaccatura verticale” del paese, avrebbe provocato quella “orizzontale” – non meno, ma forse più grave – tra politica e società. Come scrive Paul Ginzborg:
“Più il partito si avvicinava al governo, rafforzando la sua alleanza con la DC, più cercava di stabilire con forza le proprie credenziali come “responsabile” partito di governo. Qui Berlinguer compì uno dei suoi più gravi errori. Nei trent’anni di vita della repubblica gli attivisti del PCI erano sempre stati presi di mira dalle misure repressive della polizia; dal 1976 in poi, invece, il partito divenne il più zelante difensore delle tradizionali misure di legge e di ordine, anziché farsi campione delle campagne per i diritti civili…” [2]
Rifiutando di collegare strategicamente – come sarebbe stato naturale – la battaglia sociale della classe lavoratrice a quella dei diritti civili e per le libertà individuali, che avrebbe dato una concretezza non avventurista alla prospettiva dell’alternativa immunizzandola per la sua forza e completezza dai rischi cileni (il PCI aveva supportato malvolentieri la grande prova del referendum sul divorzio che pure gli aveva aperto la via di un successo senza precedenti), di fatto Berlinguer si obbligava artificiosamente al compromesso.
Ne conseguì la separazione della politica dalla società e l’avocazione verso l’alto del governo delle forze sociali. Alle forze popolari si riservava il ruolo di massa di manovra, su cui premere l’acceleratore o frenare a seconda dei momenti e delle convenienze, in funzione di una partita autoreferenziale da giocare tutta sul piano delle alleanze e degli equilibri tra partiti.
Si rovesciava radicalmente in tale modo il rapporto tra politica e società: invece che una politica in funzione della società, della valorizzazione delle sue dinamiche orizzontali e democratiche, veniva proposto e attuato uno schema in cui era la società ad essere al servizio della politica, e in particolare dell’apparato dei politici di professione impegnati nella operazione compromissoria, i quali si sarebbero ben presto costituiti in corpo separato, in oligarchia o casta preoccupata soprattutto di salvaguardare ed accrescere i suoi privilegi.
Nella crescente divaricazione tra politica e società si sarebbe insinuato il terrorismo da un lato, e il decisionismo populista craxiano, berlusconiano e ora renziano dall’altro.
La pomposa formula del compromesso storico, insomma, non aveva alcuna sostanza: avrebbe promosso o favorito il consociativismo, il trasformismo, e la corruzione della politica e della società. Non sarebbero bastati i richiami di Berlinguer alla moralizzazione: erano appelli retorici, finalizzati a nascondere un vuoto politico strategico reale.
In realtà la politica compromissoria proposta da Berlinguer avrebbe dissipato l’enorme potenziale di energie di cambiamento – senza precedenti nella storia del paese – che si era accumulato in Italia intorno alla metà degli anni ’70, e avrebbe dato inizio alla lunga deriva e all’impaludamento del paese di cui oggi vediamo le nefaste conseguenze.