Albino Luciani. Un ricordo, quarant’anni dopo

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Franco Cardini
Fonte: Minima cardiniana

di Franco Cardini – 23 settembre 2018

Lo seppi solo il 29 settembre sera. Quel giorno, evidentemente, non avevo visto alcun telegiornale. Un’occhiata ai giornali, al mattino l’avevo data: ma – per impossibile che ci sembri adesso, abituati come siamo all’azzeramento dei tempi – evidentemente non ci avevo trovato nulla (infarto miocardico: “…pareva che dormisse…”). Quell’estate avevo lavorato negli Stati Uniti ed ero tornato due giorni prima. Così avevo telefonato a mio padre e a mia madre, in vacanza in Lunigiana, e li avevo invitati a cena a Viareggio la sera del 29. Era il sessantaquattresimo compleanno del babbo, il giorno di San Michele. Eravamo sul mare, a un tavolo all’aperto, una bella sera fresca. Era l’ora del telegiornale: non stavamo guardando l’immancabile schermo acceso, ma ce ne arrivarono le parole. Papa Luciani era morto già da un po’, nella notte precedente: ma noi non lo sapevamo. Chissà perché, alzai lo sguardo verso il cielo un po’ annuvolato. Forse mi tornò in mente che qualche giorno prima, il 16, c’era stata un’eclisse parziale di luna. Quella sera, in cielo, c’era solo una falce di luna calante. Mi ricordai della “profezia” di Malachia, secondo al quale papa Giovanni Paolo I avrebbe coinciso con il pontefice indicato dal motto De medietate lunae. Naturalmente, era solo una coincidenza…

Albino Luciani era nato a Canale d’Agordo in provincia di Belluno il 17 ottobre del 1912 e apparteneva a una di quelle famiglie povere del nostro nordest italiano, legate profondamente a una religiosità tradizionale fatta di carità e di misericordia. Prete nel 1935, a ventitré anni, aveva continuato la sua attività pastorale in disparte fino al 1858, quando il suo quasi conterraneo, Giovanni XXIII, lo aveva elevato alla cattedra episcopale di una diocesi cara ad entrambi, quella di Vittorio Veneto. In quanto vescovo, aveva avviato una lunga attività di riflessione sulla vita morale e sociale della Chiesa, connessa con i mutamenti in atto; e, quando, nel 1969, era stato promosso alla cattedra patriarcale di Venezia, la sua parola era stata spesso accolta con interesse, con entusiasmo ma anche non senza critiche. Erano i tempi delle grandi sfide della Chiesa: ad esempio, sul divorzio, rispetto al quale egli aveva assunto una posizione di riserbo e prudenza, ben sapendo quanto, anche nel campo cattolico, l’insegnamento della Chiesa fosse accolto con disagio da molti fedeli.

Per quanto caratterialmente il cardinal Luciani si sentisse molto vicino a papa Roncalli, del quale forse condivideva l’umana mitezza ma anche i fermi convincimenti dogmatici, i suoi convincimenti concettuali lo portavano molto vicino a papa Montini, del quale condivideva l’ampiezza ma anche la complessità del pensiero a proposito del travaglio conciliare e postconciliare. Dopo la Mater et Magistra, la Pacem in terris e la Populorum progressio, la Chiesa non sarebbe più stata la stessa.

La famosa visita pastorale di Palo VI a Venezia, con l’episodio della stola donatagli dal patriarca Luciani, sancì una consonanza di vedute nel nome della continuità rispetto all’impegno conciliare e alla memoria di Giovanni XXIII che non tardò a tradursi in un riconoscimento che, a quel punto, era – e alcuni osservatori lo notarono – di fatto scontato. Il 5 marzo del 1973, Albino Luciani veniva insignito della porpora ed entrava a far parte del collegio cardinalizio. Chi non aveva seguito la sua attività pastorale a Venezia e non aveva letto i suoi scritti non mancò di meravigliarsi del fatto che Paolo VI contasse tanto su una personalità che pareva riservata e che molti consideravano scialba, fragile: qualcuno ascrisse scelte del genere all’indecisione e alle crisi dell’ultimo papa Montini, già minato dalla malattia (il famoso “fumo di Satana” entrato nella Chiesa e via dicendo…).

Non mancò, quindi, chi si stupì, quel 26 agosto del 1978; né chi osservò che quella di Luciani era una scelta interlocutoria, quella d’un papa che sarebbe stato “debole” (per quanto le parole usate non fossero proprio queste) all’interno di un conclave che si era rivelato ormai percorso da ostilità insanabili. Quanto a lui, con la sua umiltà sorridente, ruppe una consuetudine: non avrebbe più scelto un nome che lo collegava a un papa solo, ma a due: che per lui erano una sorta di endiadi, nel nome di una Chiesa che, dopo il concilio, non poteva più essere la stessa. Giovanni Paolo I.

Trentatré giorni di pontificato sono pochi. I dubbi e la ipotesi che seguirono la sua scomparsa trovavano una qualche conferma nel clima che pervadeva, in quei giorni, gli alti gradi della gerarchia cattolica. Certo, molto era cambiato: non a caso, papa Luciani sarebbe stato – almeno fino a oggi – l’ultimo papa italiano, rompendo una tradizione ininterrotta dal XVI secolo. Che con il Vaticano II, il duello Riforma-Controriforma fosse arrivato, de facto, al capolinea?

Sul momento, i conti nelle tasche dei fautori dell’”assassinio in Vaticano” sembravano tornare. Il complotto era riuscito (pare la tesi de Il padrino III di Francis Ford Coppola). Nel conclave successivo, aveva vinto la “destra”. Un cardinale di ferro proveniente dalla cattolica Polonia che aveva messo in crisi il comunismo, un combattente in fama di tradizionalista che aveva cominciato la sua carriera di pontefice decapitando il movimento della “teologia della liberazione” in America latina. Eppure, Karol Wojtiła aveva evidentemente non rinnegato bensì ribadito la linea della diretta eredità conciliare adottando un’altra innovazione: il nome di Giovanni Paolo II, che non solo confermava la continuità roncalliano-montiniana, ma sembrava significare che il nuovo papa si sarebbe impegnato a proseguire quel cammino che il suo predecessore aveva avuto appena il tempo d’intraprendere.

Quanto aveva in animo di fare, papa Luciani, rispetto al ruolo mondiale della Chiesa? E rispetto ai “segreti” vaticani, quelli che dai tempi di Marcinkus in poi hanno continuato di quando in quanto a emergere, interferendo – e quanto… – con i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI? E qual è l’eredità di tutto questo groviglio di problemi che gravava sul “gran rifiuto” di papa Ratzinger nel febbraio del 2013 (ricordate il fulmine su san Pietro, celebrato da migliaia di terribili cartoline?), qual è il vero significato della “terza rivoluzione dell’onomastica pontificia”, quando all’indomani di un papa che si autonomina citando non uno bensì due predecessori, e di un altro che conferma questa scelta, eccone giungere un terzo che non solo infrange un tabù (s’era mai sentito di un papa gesuita?), bensì sceglie un nome ch’è un manifesto di povertà, Francesco. A che punto è la “svolta” avviata nella Chiesa da quell’ormai lontano 26 agosto del 1978, sessant’anni fa? Ce la siamo già lasciati dietro le spalle, o siamo ancora in pieno tournant?

 
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