Fonte: La Verità
di Giampaolo Pansa – 19 novembre 2017
Caro Alessandro, la tua scomparsa improvvisa mi ha costretto a prendere atto di alcune verità. La prima è che nella vita di tutti giorni accade ciò che di solito avviene quando c’ è una guerra. Che cosa succede in una nazione coinvolta in un conflitto? L’ ho visto con i miei occhi di bambino negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale: a morire sono sempre i giovani, mentre gli anziani la scampano. Insomma, la guerra rovescia lo stato naturale delle cose. Ma può accadere così anche se il mondo si trova in pace.
Te ne sei andato a 55 anni. Mentre io sono ancora vivo quando ne ho 82. Ti confesso che in questi giorni più di una volta mi sono domandato: perché il Padreterno non ha preso me, invece di te, anche se avrebbe arrecato un grande dolore alla persona che amo di più al mondo, la mia cara Adele? Lo so, è una domanda senza senso: il perché lo conosce soltanto lui. Ma l’ ho pensato e credo che ci metterò del tempo prima di non chiedermelo più.
In compenso ho scoperto che esiste l’ infarto posteriore. Come mi ha spiegato un cardiologo molto esperto, corrisponde a una fucilata improvvisa che ti uccide in pochi istanti. Di solito colpisce soggetti ancora giovani, spesso maschi, che non hanno mai avuto problemi cardiaci. Pensano di essere del tutto sani e invece muoiono nel volgere di pochi istanti. Quel medico mi ha rivelato che, per sua fortuna, la vittima di quel colpo di fucile non si accorge di morire. Avverte soltanto un grande dolore alla schiena e al torace. Poi se ne va all’ altro mondo.
In questi giorni mi sono reso conto con gioia che avevi una vita intensa di affetti e di amicizie forti. Non la conoscevo anche se eri il mio unico figlio. Accanto a te c’ era un gruppo di amici, molto compatto e solidale. In parte erano stati anche loro allievi del liceo classico Manzoni che avevi frequentato a Milano, in parte erano allievi di altri licei della città. Tutti professionisti affermati, nella finanza, il tuo campo di attività, nelle banche e nella grande editoria libraria. Stavate bene insieme. Il lavoro che avevate scelto vi piaceva. Non so dire quali fossero le vostre opinioni politiche, di cittadini che sanno di vivere in una nazione complessa, ma le credo simili tra loro. Però ammetto che, tra amici, questo può essere un problema secondario e la mia deformazione professionale lo ingigantisce senza motivo.
In questi giorni di lutto, un mio amico mi ha chiesto come tu la pensassi a proposito dei partiti italiani. Non ho saputo rispondergli, anzi non ho voluto. La memoria mi ha restituito soltanto l’ Alessandro all’ età di 16 anni, quando si era preso una cotta politica per Sandro Pertini, diventato presidente della Repubblica nel 1978. Avevi addirittura imparato a memoria il suo discorso d’ insediamento. Allora lavoravo a Repubblica e il direttore, Eugenio Scalfari, l’ aveva detto a Pertini e lui ti aveva invitato al Quirinale insieme a me. Quel giorno eri davvero soddisfatto!
Pertini lo ritrovasti ad Alessandria, dove era stato invitato da Roberto Cassola, un senatore socialista mio amico. Fu una giornata indimenticabile. Davanti a un mare di gente festante, il vecchio Sandro esordì dicendo: «Cittadini di Vigevano, è la prima volta che vengo nella vostra bella città sul Ticino». Noi due giornalisti chiamati a intervistarlo, Gianfranco Piazzesi del Corriere della Sera e il sottoscritto, pensammo: «Adesso la piazza ci lincia!». Invece tutto si risolse in un applauso interminabile per l’ anziano presidente.
Non so dire se i tuoi figli, Giacomo e Angelica, conoscano questo episodio. Ma quel che conta è la fortuna di avere avuto un padre sempre molto sollecito, anche se immerso in un mare di impegni.
Da adolescenti non esitavano a criticarti e io lo consideravo una prova che insieme a tua moglie Costanza eravate stati capaci di crescerli da ragazzi liberi, senza soggezioni. Così la penso ancora, pur riconoscendo di aver saputo poco della tua vita privata e famigliare.
E adesso mi inoltro su un terreno minato. Dove incontro un lato importante del tuo carattere. Eri un uomo consapevole delle proprie capacità e dunque molto tenace nell’ affrontare le sconfitte momentanee. La più dura emerse nel 2014 quando il governo di Matteo Renzi, insediato da qualche settimana, mandò via i capi di tutte le aziende partecipate dallo Stato. In quel momento eri l’ amministratore delegato della grande Finmeccanica. Conoscevi tutto di quel gruppo poiché ci lavoravi da 12 anni, salendo gradino dopo gradino.
Da un anno, dopo che era scoppiato il terremoto giudiziario che aveva eliminato ben due numeri uno dell’ azienda, avevi preso il loro posto. E, insieme a un gruppo ristretto di giovani dirigenti, ne avevi retto il timone con mani salde. Con me non parlavi mai della tua caduta, ma avvertivo l’ amarezza mista a rabbia. Un giorno mi spiegasti: «Mi hanno cacciato senza neppure dirmi grazie!».
Del resto perché mai quel governo avrebbe dovuto riconoscere il tuo lavoro? La politica era ormai diventata un mattatoio di bande che si azzannano. Però quello che io non ho sopportato allora e continuo a non sopportare è la vergogna per un Paese che sceglie chi è fedele a un boss ed è, magari, mediocre, mettendo da parte i migliori. Tu, Alessandro, eri tra questi. Eliminato nel pieno della maturità intellettuale e professionale, com’ è accaduto e accadrà ancora a molti altri. Un danno immenso per le sorti di questa Italia senza pace.
Come avrei potuto proteggerti, figlio? Nel mondo della politica non avevo amici importanti e mi ero fatto la fama di essere un qualunquista anarchico. Inoltre sono stato da sempre un padre ingombrante anche perché mi ostinavo a scrivere articoli e libri scomodi, pur avendo già superato l’ età della pensione.
Ingombrante e spesso assente. Ecco un’ altra scoperta: non ho mai conosciuto il tuo giudizio sul mio lavoro. Soltanto negli ultimi anni, da quando ero passato prima a Libero e poi alla Verità, tu compravi il giornale la mattina della domenica e nel pomeriggio mi telefonavi per dirmi che cosa pensassi del Bestiario.
Oggi mi rendo conto che in realtà la mia professione non ti attirava, come invece sembra accada a molti figli di giornalisti. Anche da piccolo mantenevi delle riserve sul mio conto. Mentre frequentavi le elementari pubbliche di via Crocefisso a Milano, arrivò una nuova maestra che volle conoscere la professione paterna di ciascuno degli alunni. Quando arrivò il tuo turno, la maestra commentò: «Il famoso giornalista!». Tu replicasti, scettico: «Famoso? Dipende». Sempre alle elementari, tu consegnasti il tema che mi riguardava: «Mio papà fa il giornalista e, quando ritorna a casa la notte, svuota il frigorifero». Infine per tua madre Lilli nutrivi un amore sconfinato.
Era la tua Ginevra e tu il suo Artù, mentre io, finché sono rimasto in casa, ero un cavaliere della Tavola rotonda.
Con la tua partenza, quel mondo è finito del tutto.
Da parecchio, la notte non traffico con il frigo. Cerco di dormire. E ci riesco soltanto perché mi accuccio nel fianco di Adele. Da una settimana cerco di non pensare che tu, caro Alessandro, te ne sei andato chissà dove. E ti confesso che ho il terrore di sognarti.
Però, mio bel fieu, mio bel ragazzo, ti accoglierò sempre a braccia aperte. O con un cazzotto sulla spalla. Come facevo quando venivi a trovarci. Mi piacerà ascoltare di nuovo la tua voce che mi dice: «Fai bene a scrivere contro questi nuovi politici che stanno portando il nostro Paese al disastro». Ritroveremo così quell’ intesa che a volte ci è mancata. Ti voglio bene.
Giampaolo, il tuo papà.