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di Luca Billi, 29 settembre 2018
Il problema non è il 2,4%: anzi questo vincolo dovrebbe essere abolito.
Imponendo questo limite il finanzcapitalismo ha vietato all’Italia e a tutti gli altri paesi europei di fare debiti. Sembra una visione di buon senso – soprattutto per un paese come l’Italia in cui il debito pubblico è cresciuto in proporzioni non più sostenibili – ma è una posizione dettata da un’idea ultraliberista dell’economia. Provate a pensare cosa significherebbe questo divieto se imposto ai privati. Io e mia moglie abbiamo contratto un mutuo per acquistare la casa in cui viviamo, così come hanno fatto a suo tempo i nostri genitori e così come hanno fatto e fanno altri milioni di famiglie. Per fare il mutuo e quindi per acquistare la casa abbiamo calcolato le nostre entrate mensili e ci siamo regolati di conseguenza: per questo ora non abitiamo in una villa di 300 mq con giardino sulle colline, ma in un appartamento di 50 mq in via Marzaroli. Il punto è tutto qui: il problema non è fare debiti in sé, ma fare debiti che si sa che non potranno essere onorati; c’è una bella differenza.
Durante una crisi economica, diminuisce il gettito fiscale e aumentano le spese sociali; questi ammortizzatori sociali fanno aumentare il deficit, ma limitano la contrazione del reddito disponibile e del potere di acquisto. Evitare i debiti, arrivando all’auspicato pareggio di bilancio – che colpevolmente il pd di Bersani ha voluto mettere in Costituzione – aggrava questa situazione, perché impedisce al governo di usare il credito per finanziare i costi per le infrastrutture, l’istruzione, la ricerca e lo sviluppo, la tutela dell’ambiente.
Anche la storia ci fornisce qualche insegnamento sul tema. L’economista John Kenneth Galbraith ha individuato tra le cinque cause della grande crisi del ’29 il perseguimento ossessivo del pareggio di bilancio e di conseguenza l’assenza di un qualsivoglia intervento statale, considerato un fattore penalizzante per l’economia. Nella Germania che usciva già stremata dalla prima guerra mondiale le politiche restrittive che il cancelliere Bruning impose al paese portarono a cinque milioni di disoccupati e alla vittoria di Hitler nelle elezioni del gennaio ’33.La finanza creativa in cui si sono esercitati il primo ministro Karamanlis in Grecia e il duo Berlusconi-Tremonti in Italia ha rafforzato l’idea tedesca che i governi dei paesi del Mediterraneo siano sostanzialmente incapaci di gestire con ordine e con rigore la finanza pubblica; eppure si dimentica di dire che Portogallo, Irlanda e Spagna nel 2007 avevano un debito più basso di molti altri paesi, ma sono stati travolti comunque dalla crisi. Come diversi analisti ormai sostengono, l’esplodere dei debiti sovrani è la conseguenza dall’avidità e della mancanza di freni della finanza privata e non di quella pubblica. E’ giusto pensare a quali possano essere gli strumenti più idonei per bloccare l’aumento del rapporto tra debito e Pil; però agire soltanto sul primo, tagliando il deficit, e non anche sul secondo, è frutto di una precisa visione ideologica, ormai prevalente secondo cui i problemi dell’economia possono venire solo dal pubblico. La diminuzione del rapporto tra debito e Pil è possibile anche con un deficit moderato, compensato da un sufficiente tasso di crescita. Ma dal momento che non ci può essere crescita senza debito, le autorità europee condannano i governi a seguire una sola strada: il taglio delle spese.
E infatti le manovre dei governi italiani da Monti a Gentilon, scritte a Bruxelles avevano l’obiettivo di demolire passo dopo passo l’Europa del welfare, dei diritti sociali, l’Europa che ha conosciuto il progressivo affermarsi dei lavoratori. Non è un caso che il tratto distintivo della politica imposta dalla destra tedesca e dalle autorità internazionali ai governi italiani – e anche a questo, attraverso Tria – sia stata la riforma della previdenza, anche al di là della necessità della manovra su questo specifico aspetto. La previdenza in Italia era in equilibrio, ma si è voluto intervenire prima di tutto qui, per dare un segnale – questo davvero ideologico – che una stagione è finita per sempre.
La politica dei “ragionieri”, dei custodi del 2%, pensa che gli stati debbano soltanto favorire la concorrenza, perché in questo modo le cose potranno funzionare e tutti potranno giocare con una possibilità di essere vincenti. Il paradosso è che questa è la stessa ideologia che ci portato in questa crisi: si tenta di uscirne percorrendo la stessa strada che ci ha portato dentro.
Per loro tutto ciò che continuerà a essere “pubblico” sarà qualcosa di residuale, destinato ai perdenti: scuola pubblica, sanità pubblica, previdenza pubblica, trasporti pubblici, saranno il minimo vitale, e spesso neppure quello, per i più poveri della società. Pagheremo per avere una buona scuola per i nostri figli, pagheremo per avere efficaci cure mediche, pagheremo per poter andare in pensione con un reddito che ci garantisca una vita dignitosa, pagheremo per viaggiare su mezzi di trasporto decenti. E pagherà molto di più la generazione dopo la nostra.