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di Luca Billi – 21 marzo 2016
La parola latina viaticum – da cui deriva, attraverso il provenzale viatge, la parola italiana che oggi provo a raccontare – indicava non l’andare da un luogo a un altro, ma quello che serviva per compiere quello spostamento.
Chissà quante cose ha messo in valigia Barack Obama per il suo viaggio a Cuba? Forse meno di quante ne abbia messe a suo tempo Calvin Coolidge, che impiegò tre giorni per arrivare in quell’isola dei Caraibi. E forse anche Obama – come capita praticamente a tutti noi mariti “normali” – ha discusso con sua moglie perché lei ha preso troppi vestiti e troppe scarpe.
Certamente Obama ha portato con sé la valigetta nera attraverso cui il presidente degli Stati Uniti può scatenare un conflitto nucleare e distruggere il nostro pianeta: Potus è così potente proprio perché ha quella valigetta da cui non si separa mai, anche se tutti sanno – e lui per primo – che non la userà mai. Con il passare degli anni ci siamo scordati di quella valigetta, che pure per alcuni decenni ha dominato le fantasie e le paure del mondo, perché una guerra nucleare allora sembrava possibile. Il viaggio a Cuba è anche un viaggio nel tempo, è un viaggio all’indietro, in quel mondo là, che è ormai finito. E Fidel Castro è l’ultimo grande testimone della Guerra fredda, che – non per caso – rischiò di diventare “calda” proprio durante la cosiddetta crisi di Cuba; Kennedy è morto, Krusciov è morto, Castro è ancora vivo. Obama va a Cuba da vincitore, come il rappresentante della potenza che ha vinto la Guerra fredda, ma ci va senza aver sconfitto Cuba, nonostante il suo paese ci abbia provato molte volte. E quindi anche i fratelli Castro possono dire di accogliere Obama da vincitori, perché Cuba non è stata mai davvero sconfitta e ha saputo resistere per decenni di fronte a un nemico così potente, così agguerrito, così violento.
E noi, anche se non lo abbiamo mai ammesso fino in fondo – perché ci sono tutti i se e tutti i ma che sappiamo e conosciamo bene – abbiamo sempre parteggiato per Cuba, non solo perché parteggiamo sempre per i più deboli, per quelli che sappiamo che sono destinati a essere sconfitti, ma soprattutto perché a Cuba ha vinto la rivoluzione, perché Cuba ha saputo resistere a un embargo durissimo, perché, per quanto possa non piacerci il regime comunista dei Castro – e per molte ragioni non ci piace – è molto meglio di quello di Batista e di quelli che gli americani hanno sostenuto in tutti questi decenni in America latina, da Pinochet a Videla, per tacere tutti gli altri di un elenco lunghissimo che rappresenta la pagina più nera, più drammatica, più vergognosa, della storia degli Stati Uniti, un paese che pure amiamo, perché ce l’hanno fatto amare poeti come Edgar Lee Masters e i grandi autori del cinema. E siamo contenti perché questa volta Troia non è caduta, per colpa del vile tranello di Ulisse e della forza arrogante degli Achei, ma ha saputo resistere. E ci fa piacere vedere il presidente degli Stati Uniti scendere a patti con l’antico nemico, sottostare anche a un cerimoniale forse non del tutto adeguato e un poco irrispettoso. Quella pioggia che cadeva su Obama, costringendolo a tenere l’ombrello per non fare bagnare Michelle, ci è sembrata l’ennesimo simbolo della nostra vittoria.
Poi ci riflettiamo e sappiamo che è cambiato tutto. Lo sa bene Obama e lo sanno bene anche Fidel e Raul Castro. Gli Stati Uniti sono stati sconfitti e Cuba è stata sconfitta, perché hanno vinto loro, quelli che ogni quattro anni decidono chi farà il presidente degli Stati Uniti, investendo milioni di dollari per garantirsi l’elezione di qualcuno che non intralci troppo i loro affari, quelli che hanno deciso che è giunta l’ora di smetterla con questo residuo del Novecento e che è arrivato il momento di tornare a fare affari con Cuba, perché l’isola è bella, perché è ricca di risorse, perché è un mercato da conquistare. Le grandi compagnie hanno sconfitto sia Obama che Castro, uno può continuare a tenersi stretta la sua valigetta, simulacro di un potere che non ha più, e l’altro deve accettare i soldi indispensabili a tenere in piedi l’isola, perché senza quei dollari questa volta davvero la revolucion sarebbe destinata alla fine. Quello è il nostro nemico, è il nemico del popolo cubano, ed è il nemico del popolo degli Stati Uniti. Per questo la nostra lotta ha ancora un senso, per questo ha ancora senso la parola rivoluzione, per questo è un viaggio che dobbiamo ancora – e di nuovo – cominciare, e dovranno cominciare di nuovo i nostri figli. Anche se abbiamo così poco da portare con noi.