L’interesse generale

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alessandro Portelli
Fonte: Il Manifesto
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di  Alessandro Portelli, da il manifesto del 10 ottobre 2014

Che cosa hanno in comune un’orchestra e un coro ope­ri­stici e una fab­brica metal­mec­ca­nica? Sono cul­ture, sto­rie, eti­che del lavoro molto diverse; ma sono entrambi oggetto di un licen­zia­mento di massa in forme fino a poco tempo fa inim­ma­gi­na­bili. Con tutte le dif­fe­renze, sono diven­tati il banco di prova di una poli­tica che vede nel diritto di licen­ziare i lavo­ra­tori a pia­ci­mento l’asse di una bru­tale restau­ra­zione clas­si­sta che tra­sforma la «repub­blica demo­cra­tica fon­data sul lavoro» in un’entità fon­data sulla nega­zione del lavoro e dei suoi diritti.

Dieci anni fa la Thys­sen­Krupp, mul­ti­na­zio­nale pro­prie­ta­ria delle sto­ri­che accia­ie­rie di Terni, annun­ciò la chiu­sura del magne­tico, il reparto fiore all’occhiello della fab­brica e della sua cul­tura. For­mal­mente, si trat­tava solo di un reparto — che comun­que era già una ferita grave, con 900 posti di lavori persi.

Ma gli ope­rai lo per­ce­pi­rono come l’inizio di uno sman­tel­la­mente più radi­cale, della fine dopo 120 anni del polo side­rur­gico ter­nano. E ave­vano ragione.

Da tempo, le forze poli­ti­che, sini­stra com­presa, par­la­vano della neces­sità di «eman­ci­pare» la città dall’acciaieria (e dalla classe ope­raia). Ma l’aggressione della mul­ti­na­zio­nale toccò un nervo – echi della rivolta con­tro i licen­zia­menti di massa nel 1952–53, memo­rie fami­liari di gene­ra­zioni che all’acciaieria ave­vano but­tato san­gue, sudore, e sapere ope­raio. Gli ope­rai della AST di allora erano gio­vani, ma ave­vano ere­di­tato quella memo­ria e quella coscienza. Sape­vano che la fab­brica non era della Thys­sen­Krupp, ma loro e della loro città.

L’unità tra ope­rai e città riu­scì a sven­tare la chiu­sura del magne­tico. Ma un anno dopo la mul­ti­na­zio­nale tornò alla carica. Gli ope­rai erano ancora com­patti ma la città intorno a loro comin­ciava a essere stanca, e la vicenda si chiuse con un com­pro­messo che con­te­neva i semi del dramma di oggi: una mul­ti­na­zio­nale che di que­sta fab­brica non sa che far­sene e pre­senta pro­po­ste pro­vo­ca­to­rie, un governo subal­terno che bal­betta e non fa niente, e una classe ope­raia che diventa ancora una volta la por­ta­trice dell’interesse generale.

Certo, sono in gioco in primo luogo cen­ti­naia di posti di lavoro, di per­sone e di fami­glie, una fab­brica, una città, una regione. Ma è anche in gioco la visione di un’Italia che non sem­bra più avere la capa­cità, il desi­de­rio e il diritto di avere una poli­tica indu­striale. E ancora: una fab­brica come que­sta è anche un bene cul­tu­rale, una memo­ria, un’etica, un sapere, un senso di orgo­glio e dignità di cui il nostro paese avrebbe dispe­rato biso­gno e che invece (come la mag­gior parte dei beni cul­tu­rali) ven­gono rot­ta­mati e but­tati al macero in nome di un «nuovo» che è vec­chio di secoli.

Una gio­vane film­ma­ker ter­nana, Greca Cam­pus – figlia e nipote di ope­rai, natu­ral­mente — mi rac­con­tava di un pro­getto a cui sta lavo­rando, un’esplorazione sulla mol­te­plice iden­tità della nuova classe ope­raia ter­nana. Tre vite di lavo­ra­tori assai diversi: uno impe­gnato sin­da­cal­mente, un altro che fa l’operaio per man­te­nersi ma si con­si­dera musi­ci­sta, e un immi­grato alba­nese. Oggi sono tutti e tre a rischio: l’aggressione della mul­ti­na­zio­nale ricom­patta e riu­ni­fica (sia la Cgil sia Cisl e la Uil respin­gono il cosid­detto piano i indu­striale dei padroni). Se dav­vero a Terni si arri­verà, come dice Lan­dini, a forme di lotta radi­cale come l’occupazione della fab­brica, dovremo sapere he la loro unità ci rap­pre­senta tutti.

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